Il papa in Mongolia con vista Cina
Un viaggio sfibrante, di una
ventina d’ore, con un jet lag pesante,
di sei-sette ore, per una visita di tre giorni, a una comunità di fedeli che non
riempie una chiesa, e poi si è capito perché: per esprimere “rispetto e
ammirazione per la Cina”. Perché non dirlo da Roma? Perché Ulan Bator è una
finestra sulla Cina? Non lo è, ci sono alcune migliaia di km., e molta storia
avversa, tra la capitale mongola e Pechino.
Certo, non si può escludere un
fenomeno di “fata morgana”, di Pechino trasportata dalle nubi ai piedi di Ulan
Bator, capitale di montagna. Un miracolo, il papa deve credere ai miracoli. Ma
i trascorsi non sono buoni tra i due paesi, e anzi da un secolo la Mongolia
vive all’ombra della Russia, per difendersi dalla Cina – oltre che dal
Giappone. Cosa che naturalmente il papa sa.
E allora? Forse fa più effetto
pregiare la Cina, la Cina di Xi, dall’Asia, da un gentiluomo quasi novantenne
che si fa mezza giornata d’aereo fresco come un giovincello? Forse, ma senza
forse, il papa sottovaluta il comunismo in Cina. Siccome fa affari, penserà che
la Cina di Xi sia uno dei tanti Paesi capitalisti. A cui il comunismo dà
un’anima.
Il candore con cui Francesco ha
spiegato che nomina i suoi vescovi e gestisce le sue parrocchie d’accordo col
governo, come un tempo si faceva con le monarchie europee, pratica deprecabile
e abbandonata da tempo, dice che è così. Anzi peggio, se è vero, come il papa
dice, che ministri del culto e organizzatori cattolici si formano in Italia
scelti e inviati dal governo comunista.
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