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La crisi del 2011
Napolitano difese l’Italia nel 2011
o defenestrò Berlusconi? Probabilmente fece l’una e l’altra cosa. Ma l’essenziale
ancora manca – senza contare che Napolitano negò la grazia a Berlusconi dopo la
condanna burla milanese. .
Dice Cazzullo sul “Corriere della
sera”: ho intervistato Berlusconi il giorno dopo le sue dimissioni, il 13 novembre 2011e”tutto in lui indicava sollievo”. Tutto
gli consigliava di rinunciare al governo: i rapporti deteriorati con Francia,
Germania, Stati Uniti; la corsa dello spread: gli interessi aziendali…”. No, i
rapporti non erano deteriorati con gli Stati Uniti.
Sarkozy e Merkel volevano
affossare l’Italia, non Berlusconi - incuranti, nella loro saggezza, dell’euro
, il cui crollo li avrebbe affossati tutti (nelle prolisse ultime memorie, l’ex
presidente francese dice ripetutamente che lui e Merkel salvarono l’Italia e la
Grecia, e che fu lui a volere Draghi alla Bce, cioè colui che salvò l’euro –
che invece lo salvò contro la Bundesbank, Draghi non deve nulla a Sarkozy). Ma il duo non poté per l’opposizione
di Obama.
Il fatto è testimoniato
dall’allora ministro del Tesoro di Obama, Timothy Geithner. Ripetutamente, anche
con insistenza, nelle memorie “Stress test”. Che solo per caso, malgrado sia di
estremo interfesse, a differenza delle tante memorie di statisti americani anche
inutili che invece prontamente si traducono, non è stato proposto in Italia?
Può esse utile la rilettura di
quanto questo sito spiegava il 6 novembre 2015, a un anno dall’uscita delle
memorie di Geithner, sulla crisi europea del debito:
Se il debito è colpa, perlomeno in tedesco, credito è credere: “Ogni crisi
finanziaria è una crisi di fiducia”. Obama fu deciso ad affrontarla, come il
suo predecessore Bush, e questo è il segreto della soluzione Usa. Con Paulson
prima e il suo successore Geithner al Tesoro, suggeritori tecnci. Geithner ne
dà testimonianza dal di dentro, e insieme fa un assestamento critico delle
crisi, da un secolo e mezzo solo finanziarie, finite le carestie e le pesti. Un
libro che è un’iniezione di vitalità. Di intelligenza ma soprattutto di
energia. Di vis politica. Che l’Europa immiserisce, al
confronto inevitabile, dopo sei anni sempre pericolante. Un libro destinato
anche a durare, per lo spessore dell’analisi, oltre che ricco di particoari di
attualità. Che però non si traduce, benché si traduca di tutto – si è tradotto
solo in tedesco.
Il primo problema che Obama si pose appena
eletto fu: “Come ristabilire la fiducia”. L’analisi era semplice, l’economia
era nel circolo vizioso: la crisi finanziaria – di banche e fondi – aggravava
la recessione, e la recessione aggravava la crisi. Inoltre, cinque “bombe”
erano pronte a esplodere, in aggiunta al fallimento della banca Lehman
Brothers: le banche Citigroup e Bank of America, il gruppo assicurativo Aig, le
finanziarie pubbliche di controassicurazione sui mutui “Freddy Mae” e “Freddy
Mac”. Più General Motors e Chrysler, “anch’esse sull’orlo del fallimento”.
Un nuovo “massiccio stimolo fiscale”, cioè
un intervento pubblico, era necessario, “per colmare il reddito e la ricchezza
perduti, rivitalizzare la domanda, creare lavoro”. E per evitare “la lunga
collaterale deriva che il Giappone aveva sperimentato nella sua crisi negli
anni 1990” – la soluzione adottata poi dall’Europa, benché al Giappone sia
costata dieci anni di stagnazione-deflazione. Le cinque “bombe” erano “tutte
molto più grandi di Lehman. Tutt’e cinque avevano ricevuto grosse infusioni di
denaro pubblico per salvarle dal fallimento; Aig era stata salvata tre volte in
quattro mesi. E tutte erano di nuovo in difficoltà”.
Il 27 gennaio, al primo incontro del nuovo
segretario al Tesoro con Obama, il presidente disse chiaro: “Strappiamo il
cerotto e guariamo la ferita. Voi portatemi la soluzione, della politica
m’incarico io”. Il 9 febbraio, come primo atto della sua presidenza, Obama
annunciava un piano di stabilizzazione finanziaria. Forzando Geithner che
ancora non era pronto. Un intervento, tra spesa e riduzioni fiscali, che
avrebbe potuto assommare a 700 miliardi di dollari nello scenario peggiore.
Senza contare gli interventi a favore di soggetti non bancari, Aig, General
Motors, Chrysler. L’ammontare e i criteri del piano sollevarono molte critiche.
Che si provvedesse a salvare “Wall Street e non Main Street”, le banche e i
fondi responsabili della crisi e non l’uomo della strada. Non fu facile arguire
che Main Street si salvava a Wall Street. Ma dopo appena tre anni la Grande
Depressione era stata evitata e anzi l’economia e la finanza erano
tornate in bonis. Il Financial Stability Plan di Geithner, con
al centro il Public-Private Investmente Fund, un intervento pubblico di
salvataggio, condizionato alla partecipazione degli azionisti e investitori,
aveva subito ristabilito la fiducia dei risparmiatori e dei grandi investitori,
malgrado le critiche politiche.
In un certo senso, come controllore alla
Fed di New York, Geithner era responsabile della crisi delle banche, Bear
Sterns, Lehman Brothers, Citigroup, Bank of America, se non degli altri
soggetti, assicurazioni e case automobilistiche. La saggezza di Obama è stata
di usare un “uomo delle banche”, seppure di profilo pubblico, per venire a capo
della crisi delle banche, invece di un giustiziere. Uno che conosceva i fili e
i nodi della crisi di ognuno dei soggetti – di Bear Sterns, la prima banca in
crisi, aveva messo a punto e realizzato il salvataggio e la cessione. Una
scelta impopolare, che lo stesso Geithner aveva prospettato a Obama al primo
incontro, che però è stata quella giusta.
E l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo
anche nella crisi europea. Prende poche pagine della sua voluminosa memoria, ma
è preciso e sconcertante.
Europa sbalorditiva e inspiegabile
A metà settembre 2008, a crisi manifesta,
“la Banca centrale europea aumentò i tassi, il che mi parve sbalorditivo e
inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da
inflazione”, per l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece
lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan,
per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed di New York, che
Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche d’affari a ricapitalizzarsi
per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve termine e l’esposizione sui
titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una delle quattro, la Lehman, ma
salvò le altre.
Successivamente due eventi fanno
“inorridire” il ministro del Tesoro di Obama, e lo stesso Obama. L’attacco
franco-tedesco all’Italia a novembre del 2011 - l’unica parte di questa memoria
già nota, riprodotta un anno fa all’uscita del libro - e sei-sette mesi dopo
l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva passato la maggior parte del
2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato il debito greco. Nello stesso
mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di titoli pubblici sul mercato
secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e l’Italia”. Ma “l’Europa non
persuadeva gli investitori con una strategia credibile”. A ragione il governo
tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i beneficiari del sostegno europeo
– la Spagna e l’Italia come la Grecia – non mantenevano gli impegni di
riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava sulla sabbia limitava le
opzioni” anticrisi. C’era bisogno di un intervento massiccio subito. Di un
piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito alla Bce uno sforzo
gigantesco a sosteggo del debito e dell’euro, con una “leva” di “piccoli aiuti”
pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo proposero, la Bundesbank lo
rigettò.
A un certo punto gli europei presero a
rivogersi ai paesi asiatici per finanziare il loro fondo di intervento, “uno
spettacolo abbastanza sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A settembre Geithner fu invitato
all’Ecofin in Polonia, il consiglio europeo dei ministri del Tesoro. Tentò di
non andarci, l’invito fu reiterato e pressante, e allora parlò “con umiltà”,
scusandosi, schermendosi. Ma non poté non dire: “È più rischioso un intervento
a piccole dosi graduale che un intervento preventivo massiccio”. Gelo, e invito
a tornarsene a casa dei ministri dell’Austria e del Belgio per conto della
Gerrmania. “No leadership”, è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin
europeo.
Il 26 ottobre fu annunciata una ulteriore
revisione della ristrutturazione del debito greco. Fu annunciato anche “un
piano modesto per tentare di fare leva sul fondo di salvataggio per movimentare
il denaro privato, ma era congegnato male e più che altro sembrò segnalare i
limiti di quello che l’Europa voleva fare”.
Via Berlusconi
Quell’aututnno Obama “parlò regolarmente
con i leader europei”, e anche Geithner con le sue controparti. Ne ricevettero
spesso richieste di intervenire sulla Merkel per una maggiore flessibilità, e
su Italia e Spagna per un “impegno responsabile”. Qui viene il complotto: “A un
certo punto quell’aututnno alcuni rappresentanti europei ci presentarono un
complotto per tentare di costringere Berlusconi fuori dal governo; volevano che
rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monteraio finché non se ne fosse
andato. Informammo il presidente di questo sorprendete invito, ma per quanto
potesse servire ad avere una migliore leadership in Europa non potevamo impegnarci
in un complotto come quello”. Geithner ne riferisce come di un approccio e una
decisione interna al suo ministero, al plurale, abbandonando la prima persona,
afferenti cioè a qualcuno dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto,
poiché Obama non parla. Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le
mani del suo sangue», dissi”.
Pochi giorni dopo, ai primi di novembre,
si tenne a Cannes il G 20. Obama “passò la più parte del tempo in negoziati
riservati, per tentare di aiutare l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della
conferenza riguardò le pressioni su Berlusconi, ma noi continuammo a premere
sulla necessità di un robusto firewall, e ci fu molta pressione
anche su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto attacco; non l’ho mai vista
così agitata”.
Poi le cose cambiano. Cambiano i governi
in Grecia, Italia e Spagna. E alla Bce arriva Draghi. “Ai primi di dicembre
Draghi annunciò una massiccia iniezione di liquidità a lungo termine per il
sistema bancario europeo”, con “un istantaneo effetto stabilizzatore… L’Europa
aveva mostrato un po’ di forza e un po’ di volontà”. A febbraio, al G 20
dei ministri del Tesoro a Città del Messico, il morale era su: “Gli europei
erano sollevati, molti dichiararono che la crisi era finita. Io non lo pensavo.
Sembrava più una tregua che una soluzione”.
L’attacco alla Grecia
A luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a
fare “qualsiasi cosa” sia necessario per salvare l’euro nella sua integrità.
Geithner ci vede un’identità di vedute con l’intervento monetario e finanziario
americano. Ma è sorpreso – “terrificante” – da Schaüble, che in un incontro
successivo gli prospetta come “una strategia plausibile - e anche
desiderabile”, nelle sue parole, di Geithner, l’uscita della Grecia dall’euro.
Come una lezione agli altri: l’evento, sempre nelle parole di Geithner,
“sarebbe stato abbastanza traumatico da aiutare a spaventare il resto
dell’Europa, inducendola a cedere più sovranità a un’unione fiscale e monetaria
più forte”. E come incentivo all’opinione tedesca a sostenere l’euro, senza più
il pregiudizio antigreco.
Schaüble viene presentato ora come la
controfigura di Merkel, quello che si prende il ruolo del cattivo per coprire
politicamente la cancelliera con il ceto politico più recalcitrante all’idea di
eurozona e di Europa. Geithner lo dice simpatico, “engaging”. Ma ha agitato i
mercati, aggravando la situazione, più del necessario, molto di più, in più
occasioni, troppe.
“A giugno dl 2012 la crisi eurpea bruciava
più che mai”, ricorda Geithner. Ma solo Draghi se ne preoccupava. E la
risolverà ripercorrendo – in parte e in ritardo – la ricetta americana:
“L’Europa non era risucita a convincere il mondo che non avrebbe consentito una
catastrofe”. Geithner ha presente, ricorda, quello che tutti sapevano ma
nessuno in Europa denunciava: “difese fragili e politiche confuse”. Scrive
allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno
ancorta a te per un’altra dose di abile, creativa manifestazione di forza da
banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare ma la Bundesbank non glielo
consente. I tedeschi “non avevano un piano per salvare l’Europa ma sapevano
quello che non volevano”, così Geithner sintetizza le sue conversazioni con
Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo avuto parecchie conversazioni”: “Davano
una lettura limitativa dei poteri legali della Bce, e si opponevano a qualsiasi
cosa sapesse di questione morale”, di salvataggi con denaro pubblico (quello
che la Bundesbank aveva tranquillamente fatto in casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il consiglio di Geithner è di “lasciare la
Bundesbank fuori”. Il 26 luglio uno studio Citigrouprp dà la Grecia fuori
dall’euro al 90 per cento. Quello stesso giorno, a un convegno a Londra, al
termine di una serie d’incontri con bancheiri e gestori di fondi, Draghi
proferisce le parole famose: “Nei termini del nostro mandato, la Bce farà
qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Fa
l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del pessimismo che ha
riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano. Geithner va allora a
Sylt, dove Scahüble è in vacanza, per tentare di convincerlo. Ne ricava quanto
si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato di prima”. Si ferma a
Francoforte da Draghi, che lo rassicura, ma sempre senza un piano.
Di ritorno a Washington, Geithner spiega a
Obama che l’Europa può mettere a repentaglio il programma anticrisi americano.
Obama chiede più volte che l’Europa affronti la crisi con decisione. A
settembre Draghi annuncia il programma di riacquisto di titoli pubblici europei
sul mercato. I mercati si rassicurano, ma per poco. Viene Cipro, altra
confusone.
La memoria lascia gli europei in crisi.
Tra “impegni sempre confusi e incompleti”, nei “loro tardivi e spesso
inefficaci tentativi di imitarci”. Sempre divisi su “un robusto programma
europeo di ricapitalizzazione diretta del sistema finanziario, come il nostro”.
Incapaci di “un piano effettivo di un sistema comune di assicurazione sui
depositi” (quello oggi in discussione). Con una disoccupazione a livelli
impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una crescita stagnante, …
un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era tanta sofferenza
innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori degli europei …
fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla crisi”.
Nessuno ha contestato, in questo anno
dacché il libro è uscito, la minuziosa rappresentazione di come Geithner ha
salvato l’America dalla depressione. Che quindi è da ritenere veridica. Obama
ha peraltro terminato il mandato a Geithner al termine della sua prima
presidenza – è d’uso rinnovare la squadra al secondo mandato. Che ora si
accontenta di gestire il fondo di private equity Warbug
Pincus.
Timothy F. Geithner, Stress Test.
Reflections on financial crises, Random Huse, pp. 580, ill, £ 9,99
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