La verità sui migranti, speranza e schiavismo
Il
“comandante” del titolo è uno dei ragazzi africani che prova a sbarcare in
Italia, che si guadagnerà infine a Tripoli il passaggio in mare gratuitamente
come pilota del barcone, un vecchio arnese in disuso sulla spiaggia, gratuito
per sé e per l’amico inseparabile distrutto fisicamente dalle torture, non
essendo perseguibile all’arrivo perché minorenne – “non devi fare nulla, vai
sempre diritto, tieni il il timone fisso
sul Nord della bussola, solo le onde alte cerca di prenderle di sbieco e non
frontalmente”. Due ragazzi di Dakar che sognano di fare i rapper in Europa raccolgono
coi mestierucci, nelle ore libere dalla
scuola, i soldi necessari, e all’insaputa delle famgilie partono. Un film
eccezionale perché, oltre che ben raccontato, mostra il terribile schiavismo che
si è organizzato su questi “viaggi della speranza”. E questa è una novità
assoluta, in tanti anni, decenni, di migrazioni catastrofiche ancora non
avevamo nessuna narrazione chiara, esplicita, di come la cosa avviene: non è
difficile, Garrone lo fa, ma nessun giornale, nessuna tv, nessun papa, che pure
sa tutto mglio di tutti, ce lo aveva raccontato.
Garrone
torna con questo film che farà epoca al suo debutto, il cortometraggio
“Silhouette”, 1996, col quale fu premiato da Moretti semiserio col Sacher d’Oro,
trasposto l’anno successivo in “Terra di mezzo”, tre storie di immigrati a
Roma, il suo primo lungometraggio anche allora a metà, come questo “Io, capitano”,
tra invenzione e documentazione. Con un filo di fantasia, derivato dai racconti
afrcani, di figure volanti, miraggi, diavoli: Garone usa alternare il realismo
semplice, “Gomorra”, della realtà che parla per sé, o “Dogman”, alla fantasia,
anche un po’ gotica, del “Racconto dei racconti”, la megaroduzione dal “Cunto
di li cunti” secentesco di Giambattista Basile..
Un
film di forte attrattiva, molto ben costruito. Soprattutto nella parte
documentaria, dell’estrema violenza del viaggio attraverso i deserti, una forma
di moderno schiavismo, alla mercé di sfruttatori arabi, compresi i tuareg di Agadez
nel Niger, punto di raccolta per l’attraversamento del Sahara fino a “Tripoli”,
alla costa libica. E della Libia. La Libia tutta nuova lasciata da Gheddafi, tutta
moderna, la Libia selvaggia che Gheddafi teneva in gabbia e l’Occidente ha
liberato, di violenza e corruzione come pratiche correnti di vita. Notevoli, da
grande reportage, le ricostruzioni. Di Agadez, il primo grande mercato dei
migranti –inutilmente presidiato, si può aggiungere, da militari italiani. Dei libici
arricchiti da Gheddafi, tondi e stupidi nella villa con muro di cinta e fontana
di maioliche in mezzo al deserto. Dell’estremo cinismo di tutti. Dell’esercito-polizia
per primo alla frontiera del Fezzan, sulle auto lampeggianti nuove di zecca. Dei
piccoli trafficanti. Delle mafie, con prigioni, torture e riduzioni in schiavitù.
Notevole anche la ricostruzione delle baraccopoli alla periferia di Tripoli, lungo
l’autostrada per l’aeroporto, dei migranti che devono faticare per pochi spiccioli
per pagarsi l’imbarco, isolati, disprezzati.
È anche
un film che spazza via l’ipocrisia di un certo ecumenismo. Gli basta una sola
frase per scolpire la perpetuazione del vecchio regime arabo di schiavismo, detta
dal futuro “comandante” all’amico con le ossa rotte: “È inutile che ti porto all’ospedale,
non ci fanno entrare, noi per loro non esistiamo (“noi”, gli africani neri, n.d.r.), arriviamo
in italia e lì ti curano”. Dopo una serie di brutte facce che vogliono trecento,
quattrocento e seicento dollari, e vendite di migranti come schiavi, ai beoti
arricchiti da Gheddafi. Si invoca alla fine, davanti alla morte, il nome di Allah, e tanto più pregnante si fa allora la riduzione in schiavitù - il pensiero non può fare a meno di correre al capo opposto di questo traffico, alla Turchia, anche lì si spende il nome di Allah.
Matteo
Garrone, Io, comandante
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