domenica 24 settembre 2023

La verità sui migranti, speranza e schiavismo

Il “comandante” del titolo è uno dei ragazzi africani che prova a sbarcare in Italia, che si guadagnerà infine a Tripoli il passaggio in mare gratuitamente come pilota del barcone, un vecchio arnese in disuso sulla spiaggia, gratuito per sé e per l’amico inseparabile distrutto fisicamente dalle torture, non essendo perseguibile all’arrivo perché minorenne – “non devi fare nulla, vai sempre  diritto, tieni il il timone fisso sul Nord della bussola, solo le onde alte cerca di prenderle di sbieco e non frontalmente”. Due ragazzi di Dakar che sognano di fare i rapper in Europa raccolgono coi  mestierucci, nelle ore libere dalla scuola, i soldi necessari, e all’insaputa delle famgilie partono. Un film eccezionale perché, oltre che ben raccontato, mostra il terribile schiavismo che si è organizzato su questi “viaggi della speranza”. E questa è una novità assoluta, in tanti anni, decenni, di migrazioni catastrofiche ancora non avevamo nessuna narrazione chiara, esplicita, di come la cosa avviene: non è difficile, Garrone lo fa, ma nessun giornale, nessuna tv, nessun papa, che pure sa tutto mglio di tutti, ce lo aveva raccontato.   
Garrone torna con questo film che farà epoca al suo debutto, il cortometraggio “Silhouette”, 1996, col quale fu premiato da Moretti semiserio col Sacher d’Oro, trasposto l’anno successivo in “Terra di mezzo”, tre storie di immigrati a Roma, il suo primo lungometraggio anche allora a metà, come questo “Io, capitano”, tra invenzione e documentazione. Con un filo di fantasia, derivato dai racconti afrcani, di figure volanti, miraggi, diavoli: Garone usa alternare il realismo semplice, “Gomorra”, della realtà che parla per sé, o “Dogman”, alla fantasia, anche un po’ gotica, del “Racconto dei racconti”, la megaroduzione dal “Cunto di li cunti” secentesco di Giambattista Basile..
Un film di forte attrattiva, molto ben costruito. Soprattutto nella parte documentaria, dell’estrema violenza del viaggio attraverso i deserti, una forma di moderno schiavismo, alla mercé di sfruttatori arabi, compresi i tuareg di Agadez nel Niger, punto di raccolta per l’attraversamento del Sahara fino a “Tripoli”, alla costa libica. E della Libia. La Libia tutta nuova lasciata da Gheddafi, tutta moderna, la Libia selvaggia che Gheddafi teneva in gabbia e l’Occidente ha liberato, di violenza e corruzione come pratiche correnti di vita. Notevoli, da grande reportage, le ricostruzioni. Di Agadez, il primo grande mercato dei migranti –inutilmente presidiato, si può aggiungere, da militari italiani. Dei libici arricchiti da Gheddafi, tondi e stupidi nella villa con muro di cinta e fontana di maioliche in mezzo al deserto. Dell’estremo cinismo di tutti. Dell’esercito-polizia per primo alla frontiera del Fezzan, sulle auto lampeggianti nuove di zecca. Dei piccoli trafficanti. Delle mafie, con prigioni, torture e riduzioni in schiavitù. Notevole anche la ricostruzione delle baraccopoli alla periferia di Tripoli, lungo l’autostrada per l’aeroporto, dei migranti che devono faticare per pochi spiccioli per pagarsi l’imbarco, isolati, disprezzati.
È anche un film che spazza via l’ipocrisia di un certo ecumenismo. Gli basta una sola frase per scolpire la perpetuazione del vecchio regime arabo di schiavismo, detta dal futuro “comandante” all’amico con le ossa rotte: “È inutile che ti porto all’ospedale, non ci fanno entrare, noi per loro non esistiamo  (“noi”, gli africani neri, n.d.r.), arriviamo in italia e lì ti curano”. Dopo una serie di brutte facce che vogliono trecento, quattrocento e seicento dollari, e vendite di migranti come schiavi, ai beoti arricchiti da Gheddafi. Si invoca alla fine, davanti alla morte, il nome di Allah, e tanto più pregnante si fa allora la riduzione in schiavitù - il pensiero non può fare a meno di correre al capo opposto di questo traffico, alla Turchia, anche lì si  spende il nome di Allah.
Matteo Garrone,
Io, comandante

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