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Uno e nessuno
Franco
ha deciso di suicidarsi, a Vienna, dove ha una babele di amici e frequenta personaggi di diverso linguaggio, tedesco, russo, polacco, ceco. Il
protagonista si chiama come l’autore. Che però, in questo racconto d’esordio,
non prefigura, come si sarebbe indotti a pensare, il male di vivere che poi lo
attanaglierà: non scrive un thriller
- è il protagonista stesso che ci racconta la storia. E poi il Franco del
racconto presto si scioglie in “Uno”, uno qualsiasi, uno dei tanti, un numero.
E la prima edizione Lucentini aveva fatto precedere dalla seconda e ultima strofa
di una poesia di Hofmannstahl, “Erlebnis”, esperienza, dove “piangeva un
rimpianto senza nome\ Muto in me della vita”. Epigrafe poi levata alla
ristampa, nel 1964, quando si avviava al successo in coppia con Fruttero.
Una
racconto lungo, una sessantina di pagine. Inconclusivo: il plot è la babele delle lingue, che la scrittura dialogata, quasi
teatrale, impone al lettore. “Un intarsio di lingue”, dice il racconto il
curatore Domenico Scarpa. Lucentini fu da sempre linguista curioso, al punto da
proporsi traduttore da ben sette lingue. Benché, o per questo, sempre sperduto.
A metà racconto Franco-Uno non si ritrova più sul Ring, nel percorso ordinario:
“Ma dove stavo andando, adesso? C’era un’altra strada da prendere? Una strada
da non camminarci solo?”.
Un
racconto generazionale, del mondo, dell’Europa, dopo la guerra suicida. Nella
capitale, allora, del disordine europeo perdurante: di spie e cortine nella ex
capitale della gioia di vivere.
Un
racconto scritto nel 1948 che ha aperto nel 1951 la collana poi gloriosa di
Vittorini in Einaudi, I Gettoni. Ripubblicato in una raccolta di tre racconti, sotto
il titolo più spesso di “Notizie degli scavi”. Ripescato nel 2006 da Domenico
Scarpa, che lo correda di un prefazione e di un corposo apparato critico. Siamo
nei tardi anni 1940, Lucentini vive a Parigi, dove fa il lettore per Einaudi,
“sembra che tutto debba ricominciare o incominciare”, nota Scarpa.
Lucentini
è della generazione di Parise, Fenoglio, Rea, Calvino, Zanzotto. Non ebbe
fiducia nei suoi mezzi, o non gli furono riconosciuti, ed è finito come aveva
cominciato. A Scarpa che gli proponeva di rieditare il racconto nel 1990
Lucentini rispondeva, sempre da Parigi: “La ragione per cui non mi sento, non
mi sento proprio”, di rimetterlo in piazza, è “una deficienza non tanto
stilistica quanto, diciamo pure, morale”, e cioè che il problema che agita è
solo “giovanilistico” – “Il Nostro era semplicemente in preda a quella che
Valéry ha smascherato, una volta per tutte come «disperazione post-giovanile»:
la disperazione, cioè, di ritrovarsi sui trent’anni «senza essere né ricco né
celebre». Altro che storie di fratellanza umana!”.
Però,
si legge. La chiave è forse in Walter Pedullà, nel saggio “Lucentini, staffetta
italiana di Beckett. Colpo basso contro il neorealismo” (in id., “La
letteratura del benessere”), alla prima riedizione del racconto, 1964. in
trilogia e sotto il titolo “Notizie dagli scavi”: una fiaba dell’assurdo
quotidiano, come con altro linguaggio poteva pensare e scrivere Zavattini, alla
“Unberto D.”, alla “Miracolo a Milano”, di programma anti-realista . In questo
senso era stato recepito e valorizzato da Vittorini.
Franco
Lucentini, I compagni sconosciuti,
Einaudi, p. XII + 104, € 8,50
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