martedì 5 settembre 2023

Uno e nessuno

Franco ha deciso di suicidarsi, a Vienna, dove ha una babele di amici e frequenta  personaggi di diverso linguaggio, tedesco, russo, polacco, ceco. Il protagonista si chiama come l’autore. Che però, in questo racconto d’esordio, non prefigura, come si sarebbe indotti a pensare, il male di vivere che poi lo attanaglierà: non scrive un thriller - è il protagonista stesso che ci racconta la storia. E poi il Franco del racconto presto si scioglie in “Uno”, uno qualsiasi, uno dei tanti, un numero. E la prima edizione Lucentini aveva fatto precedere dalla seconda e ultima strofa di una poesia di Hofmannstahl, “Erlebnis”, esperienza, dove “piangeva un rimpianto senza nome\ Muto in me della vita”. Epigrafe poi levata alla ristampa, nel 1964, quando si avviava al successo in coppia con Fruttero.
Una racconto lungo, una sessantina di pagine. Inconclusivo: il plot è la babele delle lingue, che la scrittura dialogata, quasi teatrale, impone al lettore. “Un intarsio di lingue”, dice il racconto il curatore Domenico Scarpa. Lucentini fu da sempre linguista curioso, al punto da proporsi traduttore da ben sette lingue. Benché, o per questo, sempre sperduto. A metà racconto Franco-Uno non si ritrova più sul Ring, nel percorso ordinario: “Ma dove stavo andando, adesso? C’era un’altra strada da prendere? Una strada da non camminarci solo?”.
Un racconto generazionale, del mondo, dell’Europa, dopo la guerra suicida. Nella capitale, allora, del disordine europeo perdurante: di spie e cortine nella ex capitale della gioia di vivere.
Un racconto scritto nel 1948 che ha aperto nel 1951 la collana poi gloriosa di Vittorini in Einaudi, I Gettoni. Ripubblicato in una raccolta di tre racconti, sotto il titolo più spesso di “Notizie degli scavi”. Ripescato nel 2006 da Domenico Scarpa, che lo correda di un prefazione e di un corposo apparato critico. Siamo nei tardi anni 1940, Lucentini vive a Parigi, dove fa il lettore per Einaudi, “sembra che tutto debba ricominciare o incominciare”, nota Scarpa.
Lucentini è della generazione di Parise, Fenoglio, Rea, Calvino, Zanzotto. Non ebbe fiducia nei suoi mezzi, o non gli furono riconosciuti, ed è finito come aveva cominciato. A Scarpa che gli proponeva di rieditare il racconto nel 1990 Lucentini rispondeva, sempre da Parigi: “La ragione per cui non mi sento, non mi sento proprio”, di rimetterlo in piazza, è “una deficienza non tanto stilistica quanto, diciamo pure, morale”, e cioè che il problema che agita è solo “giovanilistico” – “Il Nostro era semplicemente in preda a quella che Valéry ha smascherato, una volta per tutte come «disperazione post-giovanile»: la disperazione, cioè, di ritrovarsi sui trent’anni «senza essere né ricco né celebre». Altro che storie di fratellanza umana!”.
Però, si legge. La chiave è forse in Walter Pedullà, nel saggio “Lucentini, staffetta italiana di Beckett. Colpo basso contro il neorealismo” (in id., “La letteratura del benessere”), alla prima riedizione del racconto, 1964. in trilogia e sotto il titolo “Notizie dagli scavi”: una fiaba dell’assurdo quotidiano, come con altro linguaggio poteva pensare e scrivere Zavattini, alla “Unberto D.”, alla “Miracolo a Milano”, di programma anti-realista . In questo senso era stato recepito e valorizzato da Vittorini. 
Franco Lucentini,
I compagni sconosciuti, Einaudi, p. XII + 104, € 8,50

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