Giuseppe Leuzzi
Si litiga sull’esumazione di una
vecchia serie tv, “Il Camorrista”, sulla banda Cutolo, e il figlio di una delle
vittime, del direttore del carcere di Poggioreale, anche lui come il padre “servitore
dello Stato”, protesta: “Perché non mettere alcentro la vittima, invece che I
carnefici, una banda di assassini, di nessuno spessore ?”. È vero, ed è il tarlo
delle serie mafiose. Il criminale è l’eroe, surrettizio - si propongono crimini
come spettacolo. E occupano la scena. È la damnatio
del Sud – non ce n’è un altro.
La serie “Il camorrista” è di
Tornatore, regista “siciliano” per alcuni capolavori, “Nuovo Cinema Paradiso”,
“Baaria”, ma anche il primo, se non il maggiore, regista “internazionale”, che
sa della necessità di un respire internazionale (cast, inglese, troupes,
locations) . Tornatore ne è entusiasta, a distanza di quarant’anni da quando
l’aveva girata. Felice anche che si riproponga, per “celebrare” la morte della
sorella di Cutolo – il camorrista è Cutolo.
Karin Smirnoff, la scrittrice
svedese che continua la saga “Millennium” di
Stieg Larsson, ricorda sul “Venerdì di Repubblica”: “A
19 anni avevo un ragazzo italiano, conosciuto a Parigi, che mi invitò in Calabria per l’estate,
presso la sua numerosa famiglia, in un paesino. A quel tempo fumavo, e la prima mattina uscii
da sola per comprare le sigarette. Tutto d’un tratto vidi attorno a me uomini che mi guardavano e mi
seguivano. Poi apparve il padre del ragazzo, molto arrabbiato. Ma non verso gli altri, verso di
me: apparentemente non era permesso a una ragazza di fare una camminata da sola”. Smirnoff è
del 1964, quindi parliamo del 1983. In Calabria? In immaginazione?
Essere oggetto di fantasia
può essere lusinghiero. Oppure letale.
Fenomenologia del paese
In una mezza pagina del racconto
“La cavalla nera” (il primo della raccolta “75 racconti”), sul ritorno al paese
dei due personaggi della storia, Corrado Alvaro dà una precisa fenomenologia
sociale del “paese”, della vita di paese. Subito la curiosità: “Lo scalpiccio
degli zoccoli delle nostre bestie… annunziava il nostro arrivo riempiendo del
suo rumore l’abitato e dando subito colore di festa, di forestieri, d’imprevisto”.
Poi il sospetto: “Chi abita o frequenta luoghi come questi, prende le misure
necessarie: va dimesso per strada, evita di levare gli occhi sulle persone
pericolose, rincasa all’imbrunire”. E ancora: “In un villaggio siffatto gli
occhi sono tutto: parlano, pregano, promettono, minacciano, possono anche uccidere.
Uno si volta, e vede occhi nell’ombra delle case, occhi di smalto tersi e
inespressivi, occhi colore di latte dei
bambini stupiti, occhi attenti dietro una fratta. S’insegna alle bimbe di tenere
gli occhi bassi”. E per finirela “restanza”, il senso comunitario: “La notte,
mentre ci allontanavamo, il tepore umano di quell’abitato rendeva molle quel
buio fino a due miglia lontano”.
Più piccola la comunità, più isolata,
più forte l’appartenenza, esclusiva. Fino a quella sorta di incrostazione che Ernesto
De Martino rilevava in un saggio trascurato del 1964 su “Nuovi Argomenti”,
“Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche” – che dovrebbe dare da
pensare a Vito Teti, a proposito della sua nozione di “restanza”: “Nella misura
in cui gli oggetti si separano dalla rete di relazioni domestiche, dalle
memorie culturali latenti che li mantengono in ambiti ovvi…. si fa valere il
rischio di un loro caotico relazionarsi… in una vicenda inarrestabile di
assurde oicononie”. Gli oggetti, i gesti, le attitudini.
Se il nemico è la legge
Un ragazzo, uno delle
“vittime” dei tribunali di prevenzione con i quali si presume di combattere la mafia
(“colpiamola nei beni”), commenta la fine della giudice palermitana Saguto,
condannata dalla Cassazione per abuso
d’ufficio e corruzione: “Ha rovinato la vita di tante famiglie e ha rovinato la
sua”. Il commento più appropriato. Di una giustizia che può non essere corrotta
(la giudice condannata fieramente nega ogni addebito), ma sicuramente è violenta.
Soltanto violenta: confusa, imbrogliata, imbrogliona, ma intanto persecutrice.
Specie questa, quella delle potentissime sezioni Misure di Prevenzione. Che possono
disporre (“rovinare una famiglia”) senza giudizio e senza condanne – una pratica
assurda di cui non si parla, neanche dopo la denuncia documentata di Barbano,
giornalista di lungo corso e giurisperito, “L’Inganno”, un anno fa. Un atto
d’imperio. Un confino di polizia esteso ai beni dei sospettati, senza bisogno
di prove, per un semplice sospetto.
Un “sistema” balordo anche
dopo la sentenza della Cassazione contro Saguto. Nella quale la Procura di Caltanissetta,
che ha indagato e mandato a processo la giudice, di ruolo alla sezione Prevenzione di
Palermo, ha trovato gli estremi per la carcerazione immediata, della ex giudice
nonché del marito e altri suoi correi. Mentre lei può argomentare che la
sentenza della Cassazione, mezzo assolutoria e mezzo accusatoria, non contiene
elementi per procedere all’arresto.
L’accusa non è da poco: Saguto
ha affidato la gestione dei patrimoni messi provvisoriamente sotto sequestro ad
amici suoi e del marito. Che accusa è, si penserebbe, chi perde il tempo a
gestire cose non sue, e magari di persone violente, se non per un senso del
dovere, un senso civico? E invece no, perché i sequestri
preventivi sono un affarone. Per i curatori. Roba di cui niente resta, alla
fine della curatela, non per lo Stato, se si arriva a una condanna, non per i
malcapitati che fossero poi assolti: tutto è passato ad arricchire i curatori, con varie procedure, tutte peraltro note, esercitate pubblicamente.
Senza contare l’assurdità, nel quadro del contrasto all’illegalità, di un tribunale “speciale”, extra legem, prima che aperto alla corruzione. Che procede cioè per ipotesi di polizia. Ma prende decisioni che, definite temporanee, sono di fatto decisive, di esproprio. I giudici delle sezioni Prevenzione possono, senza dover provare niente, sequestrare, confiscare e anche alienare i patrimoni di gente anche onesta, a uzzo di voci e convinzioni, che spesso non è condannata – in alcuni casi nemmeno indagata – e perde tutto: quando il patrimonio viene restituito è sempre azzerato di valore. E non è tutto: la giudice Saguto che sostiene di non avere fatto nulla di male fa capire quanto la pratica sia normale, che le confische servono a riempire le tasche di amministratori che il tribunale di prevenzione nomina liberamente, tra amici e consoci.
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