sabato 21 ottobre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (541)

Giuseppe Leuzzi

Si litiga sull’esumazione di una vecchia serie tv, “Il Camorrista”, sulla banda Cutolo, e il figlio di una delle vittime, del direttore del carcere di Poggioreale, anche lui come il padre “servitore dello Stato”, protesta: “Perché non mettere alcentro la vittima, invece che I carnefici, una banda di assassini, di nessuno spessore ?”. È vero, ed è il tarlo delle serie mafiose. Il criminale è l’eroe, surrettizio - si propongono crimini come spettacolo. E occupano la scena. È la damnatio del Sud – non ce n’è un altro.
 
La serie “Il camorrista” è di Tornatore, regista “siciliano” per alcuni capolavori, “Nuovo Cinema Paradiso”, “Baaria”, ma anche il primo, se non il maggiore, regista “internazionale”, che sa della necessità di un respire internazionale (cast, inglese, troupes, locations) . Tornatore ne è entusiasta, a distanza di quarant’anni da quando l’aveva girata. Felice anche che si riproponga, per “celebrare” la morte della sorella di Cutolo – il camorrista è Cutolo.
 
Karin Smirnoff, la scrittrice svedese che continua la saga “Millennium” di  Stieg Larsson, ricorda sul “Venerdì di Repubblica”: “A 19 anni avevo un ragazzo italiano, conosciuto a Parigi, che mi invitò in Calabria per l’estate, presso la sua numerosa famiglia, in un paesino. A quel tempo fumavo, e la prima mattina uscii da sola per comprare le sigarette. Tutto d’un tratto vidi attorno a me uomini che mi guardavano e mi seguivano. Poi apparve il padre del ragazzo, molto arrabbiato. Ma non verso gli altri, verso di me: apparentemente non era permesso a una ragazza di fare una camminata da sola”. Smirnoff è del 1964, quindi parliamo del 1983. In Calabria? In immaginazione?
Essere oggetto di fantasia può essere lusinghiero. Oppure letale.
 
Fenomenologia del paese
In una mezza pagina del racconto “La cavalla nera” (il primo della raccolta “75 racconti”), sul ritorno al paese dei due personaggi della storia, Corrado Alvaro dà una precisa fenomenologia sociale del “paese”, della vita di paese. Subito la curiosità: “Lo scalpiccio degli zoccoli delle nostre bestie… annunziava il nostro arrivo riempiendo del suo rumore l’abitato e dando subito colore di festa, di forestieri, d’imprevisto”. Poi il sospetto: “Chi abita o frequenta luoghi come questi, prende le misure necessarie: va dimesso per strada, evita di levare gli occhi sulle persone pericolose, rincasa all’imbrunire”. E ancora: “In un villaggio siffatto gli occhi sono tutto: parlano, pregano, promettono, minacciano, possono anche uccidere. Uno si volta, e vede occhi nell’ombra delle case, occhi di smalto tersi e inespressivi,  occhi colore di latte dei bambini stupiti, occhi attenti dietro una fratta. S’insegna alle bimbe di tenere gli occhi bassi”. E per finirela “restanza”, il senso comunitario: “La notte, mentre ci allontanavamo, il tepore umano di quell’abitato rendeva molle quel buio fino a due miglia lontano”.
Più piccola la comunità, più isolata, più forte l’appartenenza, esclusiva. Fino a quella sorta di incrostazione che Ernesto De Martino rilevava in un saggio trascurato del 1964 su “Nuovi Argomenti”, “Apocalissi culturali e apocalissi psicopatologiche” – che dovrebbe dare da pensare a Vito Teti, a proposito della sua nozione di “restanza”: “Nella misura in cui gli oggetti si separano dalla rete di relazioni domestiche, dalle memorie culturali latenti che li mantengono in ambiti ovvi…. si fa valere il rischio di un loro caotico relazionarsi… in una vicenda inarrestabile di assurde oicononie”. Gli oggetti, i gesti, le attitudini.
 
Se il nemico è la legge
Un ragazzo, uno delle “vittime” dei tribunali di prevenzione con i quali si presume di combattere la mafia (“colpiamola nei beni”), commenta la fine della giudice palermitana Saguto, condannata dalla  Cassazione per abuso d’ufficio e corruzione: “Ha rovinato la vita di tante famiglie e ha rovinato la sua”. Il commento più appropriato. Di una giustizia che può non essere corrotta (la giudice condannata fieramente nega ogni addebito), ma sicuramente è violenta. Soltanto violenta: confusa, imbrogliata, imbrogliona, ma intanto persecutrice. Specie questa, quella delle potentissime sezioni Misure di Prevenzione. Che possono disporre (“rovinare una famiglia”) senza giudizio e senza condanne – una pratica assurda di cui non si parla, neanche dopo la denuncia documentata di Barbano, giornalista di lungo corso e giurisperito, “L’Inganno”, un anno fa. Un atto d’imperio. Un confino di polizia esteso ai beni dei sospettati, senza bisogno di prove, per un semplice sospetto.
Un “sistema” balordo anche dopo la sentenza della Cassazione contro Saguto. Nella quale la Procura di Caltanissetta, che ha indagato e mandato a processo la giudice, di ruolo alla sezione Prevenzione di Palermo, ha trovato gli estremi per la carcerazione immediata, della ex giudice nonché del marito e altri suoi correi. Mentre lei può argomentare che la sentenza della Cassazione, mezzo assolutoria e mezzo accusatoria, non contiene elementi per procedere all’arresto.
L’accusa non è da poco: Saguto ha affidato la gestione dei patrimoni messi provvisoriamente sotto sequestro ad amici suoi e del marito. Che accusa è, si penserebbe, chi perde il tempo a gestire cose non sue, e magari di persone violente, se non per un senso del dovere, un senso civico? E invece no, perché i sequestri preventivi sono un affarone. Per i curatori. Roba di cui niente resta, alla fine della curatela, non per lo Stato, se si arriva a una condanna, non per i malcapitati che fossero poi assolti: tutto è passato ad arricchire i curatori, con varie procedure, tutte peraltro note, esercitate pubblicamente.

Senza contare l’assurdità, nel quadro del contrasto all’illegalità, di un tribunale “speciale”, extra legem, prima che aperto alla corruzione. Che procede cioè per ipotesi di polizia. Ma prende decisioni che, definite temporanee, sono di fatto decisive, di esproprio. I giudici delle sezioni Prevenzione possono, senza dover provare niente, sequestrare, confiscare e anche alienare i patrimoni di gente anche onesta, a uzzo di voci e convinzioni, che spesso non è condannata – in alcuni casi nemmeno indagata – e perde tutto: quando il patrimonio viene restituito è sempre azzerato di valore. E non è tutto: la giudice Saguto che sostiene di non avere fatto nulla di male fa capire quanto la pratica sia normale, che le confische servono a riempire le tasche di amministratori che il tribunale di prevenzione nomina liberamente, tra amici e consoci.


Cronache della differenza: Sicilia
Nel “Posta e risposta” su “la Repubblica” un lettore può elencare una lunga lista di “scrittrici donne e siciliane”: Stefania Auci, Nadia Terranova, Cristina Cassar Scalia, Alessia Gazzola, Aurora Tamigio, Lorenza Spampinato, Silvia Gasso, Catena Fiorello, Dacia Maraini, Simonetta Agnello Hornby. Una lista a cui Merlo aggiunge Maria Attanasio. Tra i viventi. E le Messina, Maria e Annie, o Livia de Stefani, nel finitimo tardo Novecento? O più in là la siculo-pisana Curradi-“Adorno”, che ancora si rilegge. Le liste sono fatte per allungarsi – si fa prima a dire “la donna del Sud”.


Il Tribunale di Catania, la prima sezione civile, ha un “Gruppo diritti dei migranti”. Tutto di donne,  con l’eccezione del giudice Capogruppo, Escher. Tutte di Catania, con l’eccezione di Escher. Donne pure gli avvocati che patrocinano i migranti allo sbarco. Nella città del mascolinismo di Brancati un secolo fa, per quanto di ingravidabalconi – ancora negli anni del collegio, 1950-1960, le catanesi uscivano sempre “chaperonate”, dalla mamma o dalla zia.

“L’Italia è piena di ricchezze poco valorizzate”, deve annotare Carlo Pietrini, l’inventore di Slow Food una cinquantina d’anni fa. Mentre si congratula per “il modello delle Langhe vincente nel mondo” – le Langhe che ancora negli anni 1960 erano minacciate di spopolamento. Poi Petrini fa finta di chiedersi: “Penso a un luogo meraviglioso e ancora compresso come la Sicilia”.

I vini la Sicilia li ha infine valorizzati quando i vigneti sono passati ai veneti. È scomparsa perfino la mafia.

A Palermo i supermercati più cari d’Italia, trova un’indagine di “Alrroconsumo” su 1,203 supermercati – chi fa la spesa a Palermo spende mille euro in più all’anno per gli stessi prodotti di chi fa la spesa a Vicenza, che è una delle città più ricche. C’è una ragione? No.

Si dice la “filiera lunga”, e cioè che le catene nazionali si riforniscono lontano dall’isola e poi fanno pesare il trasporto. Niente di tutto questo, la logistica sa annullare le differenze – si veda amazon. E pi molte catene di supermercati sono isolani.

Si discute, da tempo e con calore, se usare la mafia come gadget commerciale. Il panino del mafioso, l’anello, il distintivo, il fazzoletto da collo, la coppola - una serie di oggetti di nessun valore che le traghetto da e per Messina vendono con profitto. Se c’è chi ci spende dei soldi, certo la cosa un brivido lo dà.

Si dimette il rettore dell’università di Messina Cuzzocrea, dopo che l’amministrazione gli ha contestato le spese. Specie le “trasferte”, quando partecipava ai concorsi ippici, da appassionato. Ma appare stupito più che contrariato. Rinviando a un lontano scouting per conto di una multinazionale del petrolio in Africa e Medio Oriente. Dove la corruzione era (ed è) “normale”. In un anticipo di politicamente corretto non si informava allora che ci volevano bustarelle e tangenti, ma che non c’era “il senso del pubblico distinto dall’interesse privato”. 

Della Sicilia questo non si potrebbe dire, Cuzzocrea o no, non c’è bisogno di scouting politico: la Sicilia non è Africa. È stata araba, è vero, ma per poco, molti anni fa – anche se ne conserva, anche questo è vero, memoria grata. E allora? Il passato non giustifica tutto, ma molto sì.

leuzzi@antiit.eu

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