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venerdì 3 novembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (42)

Giuseppe Leuzzi
Accompagnavano Caroline Flaubert fresca sposa in viaggio di nozze il fratello Gustave, il padre Cléophas e la madre. Era maggio del 1849, tra Rouen, capoluogo della  Normandia, regione della Francia settentrionale, e Genova, e poi a Genova per un paio di settimane. È fatto vero, non è un racconto di Brancati.


“Ricordo di aver guardato i fondi europei per la ricerca scientifica destinati alle Regioni Obiettivo 1 del Mezzogiorno e di aver trovato che spesso non hanno generato ricerca avanzata o, addirittura, si sono rivelati dannosi”, Giorgio Parisi sul “Corriere della sera-Login”.
Non solo i fondi per la ricerca, tutti i fondi Obiettivo 1. Se si considera come con quei fondi l’Andalusia in Spagna o la Grecia o la Polonia sono diventati prosperi, è chiaro che il Sud è vittima di se stesso.
 
“Dai Greci i meridionali hanno preso il carattere di mitomani”, C. Alvaro, “Quasi un vita”,1938.
 
Il toscano? Un cattivo meridionale. Non a suo agio con l’intellettualità letteraria anteguerra, toscana, C. Alvaro le imputa i peggiori vizi del notabilato meridionale – “Quasi una vita”, 1939: “La retorica della tradizione, della religione, dell’arte, del disinteresse, serve freddamente ai toscani. È il vezzo dei loro intellettuali. È venuto fuori un tipo che riassume in sé il formalismo, il fiscalismo, il borbonismo, la prepotenza, il servilismo, la cavillosità del cattivo meridionale”. Si può usare il Meridione come una clava, per offendere e non per essere offesi, come capita.
 
Le proiezioni demografiche, per natura quasi certe, danno il Meridione fra sessant’anni, al 2080, ridotto dai venti milioni attuali di abitanti a 12 milioni. La “questione meridionale” si estinguerà con i morti.
Si riduce anche il resto d’Italia, ma di poco: il Centro da 12 a 9 milioni, il Nord da 27,5 a 24,5. Si direbbe che il Sud non ha più voglia di nascere.
 
Se Napoli fosse rimasta industriale
I tremila lavoratori della Whirpool che non si sono arresi agli ammortizzatori sociali, una comodità, da integrare semmai con un po’ di lavoro nero, e hanno cercato una nuova occupazione, e l’hanno trovata, riporta alla memoria quanto l’economista compianto Mariano D’Antonio, napoletano autoesiliato, amareggiato, a Roma, diceva del post-Bagnoli, della “Rinascita napoletana” di Bassolino, dell’ubriacatura della Napoli del “terzo settore” – in pratica del turismo culturale e dei bagni di mare: “Pensano di fare sviluppo con le pizze, tutti camerieri, la mancia è esentasse”.
La chiusura di Bagnoli era diventata un’ossessione. “La siderurgia a Posillipo” era anatema alla fine anche degli stessi dirigenti dell’Italsider, che non vedevano l’ora di di avere la chiusura imposta, dal municipio, dalla regione, dal governo. E la chiusura fu una celebrazione – “ne faremo una città del sapere”, “una città della scienza”, questo trent’anni fa. Gli ex Whirpool ricordano dopo trent’anni di città della scienza a venire, mentre il “terzo settore” combatte con furti, scippi, pistolettate, che Napoli era una città industriale al tempo dell’unificazione dell’Italia, la più industriale, tra cantieri a mare e a terra. Ed era il porto dell’Europa verso Oriente. E che se l’unità d’Italia fosse stata fatta con criteri diversi, come una federazione, o anche con uno stato unitario non “piemontese”, la storia sarebbe stata molto diversa. Il Meridione è diventato “questione” subito, nel 1873, subito dopo Porta Pia.

Ora invece, Napoli si può dire la capitale dell’esportazione dell’imprenditoria. Si poteva dire dieci ani fa, quando la Camera di Commercio di Milano censì gli “imprenditori” (titolari di aziende, amministratori, soci – se attivi) per città di origine. Il numero degli imprenditori nati a Napoli era il più elevato, quasi 400 mila – contro 365 mila romani, e 345 mila milanesi. Per effetto della proliferazione della micro imprenditoria nella stessa Napoli, ma non solo: Napoli risultava al secondo posto per il numero di imprenditori nati nella stessa città (il 90,9 per cento – dietro Bari, 91.4 per cento). Ma era al secondo posto anche per il numero di incarichi in imprese fuori del territorio: 108 mila imprenditori – seppure solo la metà di Milano, prima in classifica , con 231 mila imprenditori attivi in altre province.

 
Perché la Sicilia non è la California
Si leggono i giornali locali in Sicilia con un’impressione netta: il siciliano è sicuro di sé (self-assured). Anche quando conversa, o chiede, perfino se prega. Non manca di iniziativa, al contrario presume troppo. E la memoria torna di quando, quarant’anni fa, si celebravano a Palermo convegni sulla Sicilia come la California d’Italia (la California allora molto celebrata, come ottava potenza economica mondiale, subito fuori del G 7). Clima e natura. Storia e cultura. E inventiva: farmaceutica a Catania, e i microprocessori di Pistorio, bioingegneria, sempre a Catania, moda e turismo, di classe, anche di gran classe. E non è stata a lungo nulla, per il decennio delle stragi. Poi in ripresa, ma con juicio. E crede sempre alla mafia.
La sicurezza di sé, allora? C’è ma è un handicap. Troppe imprese brillanti si sono conosciute che non sono sopravvissute al fondatore - e anzi si sono fatte variamente imbrigliare (ma soprattutto sotto la nube mafia): Morgante (Italkali, un impero del sale che arrivava in America, alle strade americane – con miniere di salgemma attorno ad Agrigento che erano un tesoro, anche artistico, prima che gliele chiudessero), i cavalieri di Catania, Rendo, Costanzo, Graci, Finocchiaro, quelli dei fosfati, i primi ad arrendersi (senza bisogno della mafia, bastò Leoluca Orlando), Arturo Cassina (i figli Luciano e Duilio hanno tenato di continuare, ma sono stati stroncati), da ultimo Montante. Il terreno è buono e fertile ma poco ci cresce – fiori sul letamaio.
 
Il vino in Calabria
Il vino è il suo vitigno. Metodi e tecniche possono modificarne il sapore, qualche volta anche migliorarlo, ma la sostanza del vino è il vitigno che gli da consistenza, colore, sapore, profumo e ogni altra dote.
Il vino piace anche perché è vario, se è vario. C’è chi beve sempre un solo vino, ma ne apprezza le variazioni. È d’uso, anche da prima del “mercato”, quindi moltiplicare l’offerta, di “vini buoni”, che rispondano cioè a un vitigno locale di cui sono note le caratteristiche, che prospera per le speciali condizioni dei terreni, le acque, l’umidità e l’aria locali, moltiplica la varietà alla degustazione, e moltiplica il mercato, la domanda, la produzione.
La Calabria risulta avere un record di vitigni autoctoni, 180 vitigni antichi sarebbero registrati. E aveva fama di terra di vini ottimi. I viaggiatori dell’Ottocento vi trovavano molti motivi di disagio,  comunicazioni, traspori, alloggi. Ma tutti ne apprezzavano i vini. Il medico svizzero Rilliet, che lavorava a Napoli e accompagnò l’ultimo re Borbone in una parata militare attraverso tutta la Calabria, che descrive grande produttrice di seta, olio d’oliva e “vini famosi”, non lascia una sosta senza elogiare il vino locale, malgrado le pulci, i gallinacci tra i piedi, anche i porci, e gli altri noti inconvenienti.

Ottant’anni dopo un altro viaggiatore, il fiorentino Orioli, fa dei vini locali che via via assaggia una collezione fantastica, il vino alla viola, alla mandorla, al pesco selvatico – con la consulenza del suo grande amico Norman Douglas, che già ne aveva fatto assaggio entusiasta prima della Grande Guerra.
Altrove basterebbe per uan promozione in grande stile, per di più gratuita. In Calabria no, non interessa. Coltiva pochi vitigni, i rossi gaglioppo e magliocco, i bianchi greco, ansonica, mantonico, pecorella, e li lavora poco. Si può dire che non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata - ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto montuoso, ne produce due volte e mezzo. Un sola cantina calabrese, o due, è fra e 103 italiane nella graduatoria per qualità di “Wine Spectator”, bibbia del settore. Fra i cento produttori vitivinicoli nazionali classificati per fatturato da “L’Economia”, da 624 a 10 milioni di fatturato, non c’è un produttore calabrese.
Ora che il vitigno “diverso” va a premio sul gusto “internazionale”, la Calabria il vino lo trascura  – renderà bene, ma è faticoso. Spariti gli ottimi bianchi della costa tra Scilla e Palmo, non un  tralcio sopravvive. Per l’eccezionale zibibbo Bagnara festeggiava con famose Sagre dell’Uva negli anni 1950. Gustav René Hocke censiva con grandi lodi anche un ottimo Greco di Gerace, un vino bianco derivato dall’uva greca, molto diffusa tra Metaponto e Gerace. Anche il nome sembrava ben trovato, un brand nato, e invece: mentre sul vitigno greco altre aree d’Italia hanno costruito, seppure con difficoltà, degli imperi, il Greco di Gerace si è perso. Il Greco di Lamezia, tentato una diecina d’anni fa, è scomparso dopo tre o quattro anni. Il Critone, che al greco aggiungeva una modesta quantità di sauvignon, per un esito molto gradevole, pure. Il Cirò bianco, che era al 100 per cento di uva greca, da qualche anno si mescola al trebbiano, per farne un “vino da tavola”. Manca più la capacità o l’ambizione?  
“In viaggio”, la memoria di Orioli sul suo viaggio a piedi attraverso la Calabria, ha i vini una costante nelle notazioni di varia natura. Giuseppe “Pino” Orioli, sodale e compagno di Norman Douglas, il grande scrittore di “Vecchia Calabria, caprese di adozione, che lo accompagna nella  rivisitazione, nella primavera del 1933, è entusiasta, dell’aria, i profumi, i ragazzi (e le ragazze), e dei vini: “Il cibo non è certamente raffinato ma il vino è delizioso”, è notazione costante. Si tratta di vini locali, e anzi personali, degli osti e degli anfitrioni dei viaggiatori. Ma il colore e il sapore sono già regionali, “jonico, “reggino”. Le notazioni ritornano encomiastiche quasi a ogni pagina. Non c’è vino che beva che lo deluda – ed era la sola bevanda all’epoca rinfrescante, o perlomeno coadiuvante nelle lunghe scarpinate (il viaggio si faceva a piedi). A Doria, frazione di Cassano, gusta “il vero vino calabrese, quello con il gusto di viola che rimane così piacevolmente sul palato”. A Pellaro, alla fine, gli “lascia ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle” – e questo è il gusto tirrenico, come opposto a quello “jonico”. Un arsenale pubblicitario formidabile, di cui in altre contrade, per esempio lo smagrito Friuli, si sarebbe fatto una miniera.
A Crotone si rifornisce di “bottiglie scelte di vino Cirò e Melissa”, dall’“inconfondibile sapore ionico”. E subito dopo, a  Tiriolo, si delizia dei “vini locali”, più delle donne, che allora si ammiravano per l’abbigliamento tradizionale: “Quelli calabresi non sono stati standardizzati, ringrazio Dio per questo” - anche Soldati sarà reiteratamente di questa idea sui vini, che sono meglio locali, variati.  non standardizzati. A Spezzano Grande compra “bottiglie di vino eccellente”. A Gioiosa “il vino, questa volta, ha il gusto ionico delle mandorle e non delle viole, e visto che stavamo lasciando le coste ioniche per quelle tirreniche, lo bevemmo con estremo gusto”. Il vino di Pellaro, sotto Reggio Calabria, è “una scoperta”. Ci ritorna più volte - “lascia ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle, che è una specialità di questi vini”. Anche a Metaponto, finita la trasvolata della Calabria, trova “una piacevole sorpresa”, il vino: “Vino calabrese d’alta classe, non come quel veleno nero pugliese che di solito vendono nelle stazioni”. Allora come ora, i pugliesi vendono il vino nelle stazioni, i calabresi no.

leuzzi@antiit.eu

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