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A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (543)
Giuseppe Leuzzi
L’Istat ridimensiona infine,
dopo quattro decenni, la presa della malavita sull’economia nazionale: dei 192
miliardi di “economia sommersa” nel 2021, ultimo dato ricostruito, 18 miliardi
derivano da “attività illegali”. Trent’anni fa si attribuiva alle mafie un terzo,
se non la metà, dell’economia somemrsa o ilegale. Per creare un mito?
Uno studente fuori sede spende
in media in un anno 19 mila euro (alloggio, pasti, trasporti, tasse, materiale
didttic, salute) – poco meno di 17 mila in un ateneo del Centro. Poi si dice
che il Sud s’impoverisce, che alimenta l’economia dei “fuori sede”, da Roma in
su.
La sentenza-lezione della Cassazione alla sezione del Tribunale e alla corte d’Assise di
Palermo in materia di Stato-mafia non è ridicola, come sembra (in effetti, i
giudici bocciati delle sue istanze restano ai loro posti e anzi avranno fatto
carriera, per anzianità, “a cieli aperti” come usa in magistratura). Non lo
è perché fa capire come nei vent’anni dell’inchiesta e dei giudizi la mafia sia
rimasta intonsa a Palermo. Anzi, se non fosse per la cronaca quotidiana, non ci
sarebbe, la giustizia non se ne cura. Hanno solo arrestato Messina Denaro, ma
era uno di trenta e più anni fa – se non si è consegnato lui, per un ultimo
sberleffo.
Com’e(ra) ricco il Sud
Alessandro Gassman, nella
veste di ecologo, fa sul “Venerdì di Repubblica” il caso della seta a Catanzaro,
a proposito della Cooperativa Nido di Seta, messa su da Miriam Pugliese, Domenico
Vivino e Giovanna Bagnato: “Pochi sapranno che dal XIV al XVIII secolo Catanzaro
è stata una delle città europee più importanti nella produzione e tessitura della
seta. Una grande tradizione, che purtroppo nell’era dell’industrializzazione si
è via via perduta”. No, si è perduta con l’unità, definitivamente. Già intaccata
dalle ultime politiche doganali borboniche. Il medio svizzero Horace Rilliet la
descrive ben viva e produttiva a metà Ottocento, nel diario “Colonna mobile in
Calabria 1852”, un resoconto dettagliato e figurato, per imagini, del suo attraversamento
della Calabria nell’autunno del 1852, al seguito del re che visitava le province
con un “colonna mobile” - di soldati di tute le lingue, per lo più tedescofoni.
“La seta”, scrive alla
“Giornata XVI” (le pp. 179-180 dell’edizione Rubbettino), “una delle prime
fonti di ricchezza di questo paese, era stata così sfruttata dalle imposte
drurante il feudalesimo da esserne completamente schiacciata”. Ma anche
successivamene, abolito “l’antico feudlesimo”, dai “grandi proprietar”
assenteisti, che il loro interesse limitavano al prestito a strozzo ai
coltivatori, la seta era solo un cespite da tassare: “La seta cruda, ad
esempio, pagava un diritto che, per il modo in cui si percepiva, era
estremamente vessatorio e oneroso; la seta era pesata al momento in cui usciva
dalla filatura, cioè ancora imbevuta d’aqua, e quindi quasi al doppio del suo
peso reale”, e la tassa si pagava sulla seta bagnata.”C’erano anche altri
diritti”, continua Rilliet, “locali, feudali, reali, provinciali” sulla lavorazione
della seta. “Per esempio: il diritto di Bisignano prendeva 7 grani a libbra,
oltre il diritto provinciale, che ammontava a 42 grani e mezzo. Poi bisognava
aggiungere I diritti d’esportazione, da cui tuttavia una saggia legge del 1804
liberò l’industrtia sericola” – del 1804, cioè ancora di mano del re Borbone
Ferdinando IV, il regno diventerà napoleonico due anni dopo, anche I Borboni
sapevano quello che facevano. “D’allora questa industria”, continua Rilliet,
“ha preso uno sviluppo notevole e il regno fornisce attualmente un milione di
libbre di seta che fruttano tre milioni di ducati”. Una produzione “suscettibile
di grande aumento perché il gelso è ancora poco coltivato e anche completamente
sconociuto in molte località”. E perché
la coltura del gelso non si estende? Per la diffidenza del conatdino. E perché
il conatdino è diffidente? Perché non ha un patto di fiducia con il grande borghese
che lo finanzia, e gli propone il cambamento.
Ma non c’è solo la coltivazione:
“La Calabria possiede parecchie filande che, benché primitive, forniscono un’eccellente
seta per cucire”. Piccole e grandi. “Primitive” ma “a un livelo di perfezione simile a quello di
altri paesi, del Piemomte, della Lombardia, e i cui prodotti sono molto
ricercati. Tali sono le più belle filande di Reggio, Villa San Giovanni
(costruita sul modello di San Leucio, vicino Caserta), Cosenza e molte altre,
che hanno aumentato e migliorato di molto la loro produzione”.
L’industria della seta in Calabria,
è la conclusione del medico svizzero, è meno produttiva rispetto a Napoli, a San
Leucio, “ma ogni anno porta progresso e miglioramento e va detto che negli
ultimo venti anni gli utili sono quasi raddoppiati”.
È una storia molto raccontata,
ma sempre sorprendente, quelle del Sud che avrebbe potuto essere e non è staao.
Per esempio industriale - anche della grande industria a Napoli e dintorni, che
era anche il primo porto europeo dell’Asia, la “porta d’Europa”. La ferriere di Mongiana,
per esempio, per restare al Rilliet, altro caso che dovrebbe essere stranoto e
invece non lo è, “le cui numerose fabbriche di acciaio e d’artiglieria sono le
più importanti del regno”. La siderrugia di Mongiana era pubblica, si potevan
senz’altro modernizzare, adattare alle tecniche in evoluzione di produzione e
di mercato, ammesso che gli imprenditori-gestori locali no ci riuscisero, ma
non si è fatto.
Un secolo prima, poco meno,
nel 1770, lo scrittore e naturalista scozzese Patrick Brydone si meravigliava
della ricchezza delle colture in Sicilia: “Ci stupimmo a vedere come erano
ricchi I raccolti, molto più abbondanti che in Inghilterra e nelle Fiandre, dove
il buon terreno è curato con tutte le arti”. Ma qui senza beneficio per
ilcoltivatore: “Qui il misero contadino ce la fa appena a solcare il suolo, e
mietere col cuore grosso la messe più abbondante. A che pro gli viene largita?”,
la natura è genersoa? “Soltanto per gravare come un peso morto sulle sue
braccia. Quando non va persa del tutto, dato che l’esportazione è proibita a
coloro che non possono pagare al sovrano un prezzo esorbitante”. E commenta:
“Che differenza tra la Sicilia”, ubertosa, “e la piccola selvaggia Svizzera!” –
che il viaggiatore aveva appena visitato. Analoga considerazione farà anche lo
svizzero Rilliet, sempre domandandosi perché tanta ricchezza producesse tanta
povertà: “Il paesaggio che attraversiamo è un soggetto serio, perché alla vista
della fertilità e dell’abbondanza che vi regnano, ci si domanda da dove può
venire questa indolenza degli abitanti, questa mancanza di spirito d’impresa, questo
abbandono di ogni attività e commercio presso un popolo che nei tempi antichi
della Magna Grecia produceva anti capolavori, contava tanti filosofi importanti,
e aveva una cultura e una civiltà d’avanguardia”. Non per denegerazione,
arguiva il medico: “Gli abitanti di questa provincia si distingono per la loro
forza fisica, la loro forma slanciata ed elegante, i lineamenti belli e
regolari così come per la finezza del loro spirito e della loro intelligenza”.
E si rispondeva: hanno pesato la decadenza e le guerre, contro i barbari, tra “greci”,
contro gli arabi e poi i normanni, gli angioini, gli svevi. “Il risultato per
questo popolo”, è l’analisi del medico svizero, “fu una diffidenza incurabile per
tutto ciò che gli veniva da fuori e quindi la distruzione di ogni
comunicazione, di ogni commercio e scambio di idee. In seguito allo spopolamento
dle paese, immense distese di terreno furono abbandonate e trascurate. Questi stessi
terreni inondati dai fiumi generarono febbri e malattie pestilenziali….”.
Lo spopolamento in realtà è
costante da alcuni secoli, quindi andrebbe indagato (re-indagato) più a fondo. Ma
da qualche tempo, si può dire già da dopo l’unità, l’aggiornamento fu costante
e per certi aspetti febbrile, l’adeguamento ai canoni di produzione e d’immagine.
Ma fu un aggiornamento non fecondo, non riproduttivo. Si emigra e si copia, ci
si adatta e non si costruisce, o poco, troppo poco. Sul passato, e sulla
mentalità?, ha gravato la feudalità, un millennio e più di regime feudale, remoto
e vessatorio, di diritti e non di doveri, che ebbe il suo acme nei primi secoli
del secondo millennio, tra Normanni, Angioini e Svevi, ma perdurò sotto i regni
di Aragoma e di Spagna. Tra Sette e Ottocento, tra Filangieri e i francesi a
Napoli, la feudalità fu cancellata, ma perdurava negli istituti del fedecommesso,
il sistema diffusissimo per secoli per cui si
compravano e si vendevano fondi, sulla carta, fra proprietari assenteisti (un
abbozzo di riesame ne tentavamo su questo sito in più occasioni qualche anno
fa, in particolare
http://www.antiit.com/2009/12/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-51.html
http://www.antiit.com/2011/09/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-100.html)
La Calabria restava affidata ai contadini
poveri, indebitati col padrone lontano, che se sapeva qualcosa erano solo i
confini dei possedimenti che aveva acquistato e il numero dei “fuochi”, delle
famiglie che gli dovevano ogni anno qualcosa.
Nostos, richiamo ancestrale
C’è una personalità dei
luoghi. Invasiva anche, intromettente. Molti ne risentono gli efetti, tra gli
emigrati, anche per scelta, che conservano l’mmagine, tra i tanti luoghi dove
possono essere transitati o finiti, di quello dove sono nati e cresciuti, e
spesso ci ritornano anche, anche a costo di un delusione – che è inevitabile, e
però si rimargina. Helen Barolini, la scrittrice americana che prese il nome
del marito, Antonio Barolini, lo scrittore vicentino che fu corripondente di
“Epoca” e “La Stampa” a New York, di suo Helen Mollica, morta a marzo di 98
anni, di nonni calabresi, lo spiega nel romanzo “Umbertina”. Tina, la pronipote
di Umbertina, bisnonna emigrata quasi un secolo prima negli Stati Uniti, dove
ha creato una famiglia prospera, malgrado il carattere ruvido e l’ignoranza, ha
deciso di andare a vedere il luogo dove Umbertina è nata. E ne resta delusa,
ovviamente, ma insieme attratta, da una forza che non si spiega: “Sempre più si
sentiva un’intrusa in quell luogo in rovina come il monastero della valle di
sotto. E a cosa le serviva inseguire Umbertina? si domandò. La sua venuta a
Castagna era stata motivata più dal desiderio di perdersi che da quello di
trovare Umbertina. Cosa l’accomunava ai tuguri impoveriti di questo luogo…,
all’isolamento e all’arretratezza? Ora lei era il prodotto di un’istruzione.
Non c’era via di ritorno. Infatti il messaggio di Umbertina era: partite,
prendete uan direzione, andate vanti seNza più voltarvi. Eppure Tina era lì perché nessun messaggio
riusciva a sopraffare il suo sentimento di dover essere lì. Si sentiva legata a
questo posto da una sorta di necessità ancestrale…”.
La bellezza è
leghista
Le ragazze a Palermo sono libere in famiglia e in
società, nota ancora Brydone nel 1770, con meraviglia.
E si sposano “giovanissime, spesso riescono a vedere la quinta o sesta
generazione”.
Brydone non depreca la costumanza: “In generale sono
vivaci e simpatiche; in molte parti d’Italia sarebbero considera te attraenti.
Un napoletano o un romano senz’altro sarebbero di questa opinione”. Non invece
al Nord: “Un piemontese invece le direbbe molto ordinarie (e allo stesso modo
la penserebbe la maggior parte degli inglesi)”.
La
bellezza Brydone trova “regionale”, localizzata: “Ricordo che dopo aver fatto
il giro della Savoia e del basso Vallese ogni donna che incontravamo in
Svizzera ci sembrava un angelo”. Lo stesso accade in Germania, aggiunge, e
chiede retoricamente al (finto) corrispondente cui indirizza le sue impressioni: “Ti sarà facile ricordare
che incredibile differenza ci sia tra una bellezza di Milano e una di Torino,
nonostante che queste due località siano così vicine”.
Cronache della
differenza: Napoli
“Un paradiso abitato da demoni” è copyright di Mary
Shelley. Croce, nella sua dottissima ricerca (ottimamente sintetizzata su wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Un_paradiso_abitato_da_diavoli)
ne trova traccia già nel Cinquecento, ma Mary
Shelley ne sarebbe stata il veicolo di maggiore diffusione.
Gli Shelley abitarono Napoli nell’inverno 1818-1819.
L’avevano eletta loro residenza italiana, ma la lasciarono dopo tre mesi,
durante i quali erano vissuti in isolamento – avevano ricevuto solo un medico,
dicono i biografi. Lasciarono Napoli su un tema “napoletano”: una bambina
comprata fatta passare per loro figlia, di Mary oppure della sua sorella
Jane\Claire che li accompagnava. La bambina moirrà di pochi mesi, ma intanto
gli Shelley erano stati denunciati da una coppia di domestici, Paolo ed Elisa,
che avevano licenziato perché si erano sposati.
A Napoli Percy Bysse Shelley dedicherà un’ode, nell’entusiasmo
per i moti liberali del 1820-1821.
Al solito semiserio, Gadda ne celebra una gloria
dimenticata, Ernesto Cacace (nella raccolta di saggi “I Viaggi, la Morte”), l’inventore
della nipiologia, o scienza del lattante, come distinta dalla pediatria. Nipiol è per i più la linea dolciaria per l’infanzia
della Buitoni (ora Heinz). Ma la nipiologia esiste: è, dice la Treccani,
“ lo studio integrale del lattante da tutti
i punti di vista: biologico, psicologico, antropologico, clinico, igienico”.
“Il nuovo oro di Napoli” è a Scampia – “Corriere della
sera”: “L’università Federico II vi trasferisce la nuova sede.” Fare bene si può,
anche rapidamente – cambiare. Specialmente contro il crimine, a Scampia come a
Caivano: basta agire.
“ I napoletani, come i Greci, detestano i forestieri”,
annota Alvaro, “Quasi una vita”, durante il soggiorno a Napoli nel 1947, dal 7
marzo al 15 luglio, alla direzione del giornale “Il Risorgimento”, di proprietà
di Achille Lauro (che presto rimprovererà ad Alvaro un “accentuato orientamento
di sinistra”): “Temono di essere offesi con le grossolanità di cui soltanto
Napoli può giudicare la portata, perché sono maestri in materia”.
“Il vero presente per i napoletani è il passato”,
annota ancora Alvaro della tavolata che lo festeggia dopo le dimissioni dal
“Risorgimento”. “A proposito del quale”,
annota ancora, cioè del giornale, “un
collaboratore mi diceva ironicamente: «L’Europa a Napoli!». E un altro: «Se
Picasso fosse a Napoli, non gli faremmo decorare neppure un bar»”. Ma a Napoli,
commenta Alvaro,”gli scrittori e gli artisti credono di essere al centro”.
Ancora
di Napoli Alvaro registra questa cosa vista: “Un tale toglie l’asfalto da una
strada, e lo carica su un carretto per venderlo poco oltre. C’è qualcuno
attorno che protesta. Altri lo difende dicendo: “Tanto, non è roba nostra”.
Al seguito
di Ferdinando II che nell’autunno del 1852 faceva una ricognizione dei possedimenti
nella Calabria Citeriore, il medico svizzero Horace Rilliet nota (“Colonna
mobile in Calabria”, XVII giornata, 13ottobre) “nella retroguardia…un esercito
di venditori di commestibili e di rinfreschi”: un’“orda di uomini e donne
semivestiti, che ci hanno seguiti da Napoli, a piedi nudi, dormendo sul primo
albero che trovano e non avendo altro bagaglio che un barilotto o un paniere;
gli uni vendono caffè, altri vino, pane, lardo o molto semplicemente acqua” (gli
acquaioli fanno gli affari migliori”).
leuzzi@antiit.eu
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