sabato 11 novembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (543)

Giuseppe Leuzzi


L’Istat ridimensiona infine, dopo quattro decenni, la presa della malavita sull’economia nazionale: dei 192 miliardi di “economia sommersa” nel 2021, ultimo dato ricostruito, 18 miliardi derivano da “attività illegali”. Trent’anni fa si attribuiva alle mafie un terzo, se non la metà, dell’economia somemrsa o ilegale. Per creare un mito?
 
Uno studente fuori sede spende in media in un anno 19 mila euro (alloggio, pasti, trasporti, tasse, materiale didttic, salute) – poco meno di 17 mila in un ateneo del Centro. Poi si dice che il Sud s’impoverisce, che alimenta l’economia dei “fuori sede”, da Roma in su.
 
La sentenza-lezione della Cassazione alla sezione del Tribunale e alla corte d’Assise di Palermo in materia di Stato-mafia non è ridicola, come sembra (in effetti, i giudici bocciati delle sue istanze restano ai loro posti e anzi avranno fatto carriera, per anzianità, “a cieli aperti” come usa in magistratura). Non lo è perché fa capire come nei vent’anni dell’inchiesta e dei giudizi la mafia sia rimasta intonsa a Palermo. Anzi, se non fosse per la cronaca quotidiana, non ci sarebbe, la giustizia non se ne cura. Hanno solo arrestato Messina Denaro, ma era uno di trenta e più anni fa – se non si è consegnato lui, per un ultimo sberleffo.
 
Com’e(ra) ricco il Sud
Alessandro Gassman, nella veste di ecologo, fa sul “Venerdì di Repubblica” il caso della seta a Catanzaro, a proposito della Cooperativa Nido di Seta, messa su da Miriam Pugliese, Domenico Vivino e Giovanna Bagnato: “Pochi sapranno che dal XIV al XVIII secolo Catanzaro è stata una delle città europee più importanti nella produzione e tessitura della seta. Una grande tradizione, che purtroppo nell’era dell’industrializzazione si è via via perduta”. No, si è perduta con l’unità, definitivamente. Già intaccata dalle ultime politiche doganali borboniche. Il medio svizzero Horace Rilliet la descrive ben viva e produttiva a metà Ottocento, nel diario “Colonna mobile in Calabria 1852”, un resoconto dettagliato e figurato, per imagini, del suo attraversamento della Calabria nell’autunno del 1852, al seguito del re che visitava le province con un “colonna mobile” - di soldati di tute le lingue, per lo più tedescofoni.
“La seta”, scrive alla “Giornata XVI” (le pp. 179-180 dell’edizione Rubbettino), “una delle prime fonti di ricchezza di questo paese, era stata così sfruttata dalle imposte drurante il feudalesimo da esserne completamente schiacciata”. Ma anche successivamene, abolito “l’antico feudlesimo”, dai “grandi proprietar” assenteisti, che il loro interesse limitavano al prestito a strozzo ai coltivatori, la seta era solo un cespite da tassare: “La seta cruda, ad esempio, pagava un diritto che, per il modo in cui si percepiva, era estremamente vessatorio e oneroso; la seta era pesata al momento in cui usciva dalla filatura, cioè ancora imbevuta d’aqua, e quindi quasi al doppio del suo peso reale”, e la tassa si pagava sulla seta bagnata.”C’erano anche altri diritti”, continua Rilliet, “locali, feudali, reali, provinciali” sulla lavorazione della seta. “Per esempio: il diritto di Bisignano prendeva 7 grani a libbra, oltre il diritto provinciale, che ammontava a 42 grani e mezzo. Poi bisognava aggiungere I diritti d’esportazione, da cui tuttavia una saggia legge del 1804 liberò l’industrtia sericola” – del 1804, cioè ancora di mano del re Borbone Ferdinando IV, il regno diventerà napoleonico due anni dopo, anche I Borboni sapevano quello che facevano. “D’allora questa industria”, continua Rilliet, “ha preso uno sviluppo notevole e il regno fornisce attualmente un milione di libbre di seta che fruttano tre milioni di ducati”. Una produzione “suscettibile di grande aumento perché il gelso è ancora poco coltivato e anche completamente sconociuto in molte località”.  E perché la coltura del gelso non si estende? Per la diffidenza del conatdino. E perché il conatdino è diffidente? Perché non ha un patto di fiducia con il grande borghese che lo finanzia, e gli propone il cambamento.
Ma non c’è solo la coltivazione: “La Calabria possiede parecchie filande che, benché primitive, forniscono un’eccellente seta per cucire”. Piccole e grandi. “Primitive” ma  “a un livelo di perfezione simile a quello di altri paesi, del Piemomte, della Lombardia, e i cui prodotti sono molto ricercati. Tali sono le più belle filande di Reggio, Villa San Giovanni (costruita sul modello di San Leucio, vicino Caserta), Cosenza e molte altre, che hanno aumentato e migliorato di molto la loro produzione”.
L’industria della seta in Calabria, è la conclusione del medico svizzero, è meno produttiva rispetto a Napoli, a San Leucio, “ma ogni anno porta progresso e miglioramento e va detto che negli ultimo venti anni gli utili sono quasi raddoppiati”.
È una storia molto raccontata, ma sempre sorprendente, quelle del Sud che avrebbe potuto essere e non è staao. Per esempio industriale - anche della grande industria a Napoli e dintorni, che era anche il primo porto europeo dell’Asia, la “porta d’Europa”. La ferriere di Mongiana, per esempio, per restare al Rilliet, altro caso che dovrebbe essere stranoto e invece non lo è, “le cui numerose fabbriche di acciaio e d’artiglieria sono le più importanti del regno”. La siderrugia di Mongiana era pubblica, si potevan senz’altro modernizzare, adattare alle tecniche in evoluzione di produzione e di mercato, ammesso che gli imprenditori-gestori locali no ci riuscisero, ma non si è fatto.
Un secolo prima, poco meno, nel 1770, lo scrittore e naturalista scozzese Patrick Brydone si meravigliava della ricchezza delle colture in Sicilia: “Ci stupimmo a vedere come erano ricchi I raccolti, molto più abbondanti che in Inghilterra e nelle Fiandre, dove il buon terreno è curato con tutte le arti”. Ma qui senza beneficio per ilcoltivatore: “Qui il misero contadino ce la fa appena a solcare il suolo, e mietere col cuore grosso la messe più abbondante. A che pro gli viene largita?”, la natura è genersoa? “Soltanto per gravare come un peso morto sulle sue braccia. Quando non va persa del tutto, dato che l’esportazione è proibita a coloro che non possono pagare al sovrano un prezzo esorbitante”. E commenta: “Che differenza tra la Sicilia”, ubertosa, “e la piccola selvaggia Svizzera!” – che il viaggiatore aveva appena visitato. Analoga considerazione farà anche lo svizzero Rilliet, sempre domandandosi perché tanta ricchezza producesse tanta povertà: “Il paesaggio che attraversiamo è un soggetto serio, perché alla vista della fertilità e dell’abbondanza che vi regnano, ci si domanda da dove può venire questa indolenza degli abitanti, questa mancanza di spirito d’impresa, questo abbandono di ogni attività e commercio presso un popolo che nei tempi antichi della Magna Grecia produceva anti capolavori, contava tanti filosofi importanti, e aveva una cultura e una civiltà d’avanguardia”. Non per denegerazione, arguiva il medico: “Gli abitanti di questa provincia si distingono per la loro forza fisica, la loro forma slanciata ed elegante, i lineamenti belli e regolari così come per la finezza del loro spirito e della loro intelligenza”. E si rispondeva: hanno pesato la decadenza e le guerre, contro i barbari, tra “greci”, contro gli arabi e poi i normanni, gli angioini, gli svevi. “Il risultato per questo popolo”, è l’analisi del medico svizero, “fu una diffidenza incurabile per tutto ciò che gli veniva da fuori e quindi la distruzione di ogni comunicazione, di ogni commercio e scambio di idee. In seguito allo spopolamento dle paese, immense distese di terreno furono abbandonate e trascurate. Questi stessi terreni inondati dai fiumi generarono febbri e malattie pestilenziali….”.
Lo spopolamento in realtà è costante da alcuni secoli, quindi andrebbe indagato (re-indagato) più a fondo. Ma da qualche tempo, si può dire già da dopo l’unità, l’aggiornamento fu costante e per certi aspetti febbrile, l’adeguamento ai canoni di produzione e d’immagine. Ma fu un aggiornamento non fecondo, non riproduttivo. Si emigra e si copia, ci si adatta e non si costruisce, o poco, troppo poco. Sul passato, e sulla mentalità?, ha gravato la feudalità, un millennio e più di regime feudale, remoto e vessatorio, di diritti e non di doveri, che ebbe il suo acme nei primi secoli del secondo millennio, tra Normanni, Angioini e Svevi, ma perdurò sotto i regni di Aragoma e di Spagna. Tra Sette e Ottocento, tra Filangieri e i francesi a Napoli, la feudalità fu cancellata, ma perdurava negli istituti del fedecommesso, il sistema diffusissimo per secoli per cui si compravano e si vendevano fondi, sulla carta, fra proprietari assenteisti (un abbozzo di riesame ne tentavamo su questo sito in più occasioni qualche anno fa, in particolare
http://www.antiit.com/2009/12/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-51.html
http://www.antiit.com/2011/09/sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-100.html)
La Calabria restava affidata ai contadini poveri, indebitati col padrone lontano, che se sapeva qualcosa erano solo i confini dei possedimenti che aveva acquistato e il numero dei “fuochi”, delle famiglie che gli dovevano ogni anno qualcosa.
 
Nostos, richiamo ancestrale
C’è una personalità dei luoghi. Invasiva anche, intromettente. Molti ne risentono gli efetti, tra gli emigrati, anche per scelta, che conservano l’mmagine, tra i tanti luoghi dove possono essere transitati o finiti, di quello dove sono nati e cresciuti, e spesso ci ritornano anche, anche a costo di un delusione – che è inevitabile, e però si rimargina. Helen Barolini, la scrittrice americana che prese il nome del marito, Antonio Barolini, lo scrittore vicentino che fu corripondente di “Epoca” e “La Stampa” a New York, di suo Helen Mollica, morta a marzo di 98 anni, di nonni calabresi, lo spiega nel romanzo “Umbertina”. Tina, la pronipote di Umbertina, bisnonna emigrata quasi un secolo prima negli Stati Uniti, dove ha creato una famiglia prospera, malgrado il carattere ruvido e l’ignoranza, ha deciso di andare a vedere il luogo dove Umbertina è nata. E ne resta delusa, ovviamente, ma insieme attratta, da una forza che non si spiega: “Sempre più si sentiva un’intrusa in quell luogo in rovina come il monastero della valle di sotto. E a cosa le serviva inseguire Umbertina? si domandò. La sua venuta a Castagna era stata motivata più dal desiderio di perdersi che da quello di trovare Umbertina. Cosa l’accomunava ai tuguri impoveriti di questo luogo…, all’isolamento e all’arretratezza? Ora lei era il prodotto di un’istruzione. Non c’era via di ritorno. Infatti il messaggio di Umbertina era: partite, prendete uan direzione, andate vanti seNza più voltarvi.  Eppure Tina era lì perché nessun messaggio riusciva a sopraffare il suo sentimento di dover essere lì. Si sentiva legata a questo posto da una sorta di necessità ancestrale…”.
 
La bellezza è leghista
Le ragazze a Palermo sono libere in famiglia e in società, nota ancora Brydone nel 1770, con meraviglia. E si sposano “giovanissime, spesso riescono a vedere la quinta o sesta generazione”.
Brydone non depreca la costumanza: “In generale sono vivaci e simpatiche; in molte parti d’Italia sarebbero considera te attraenti. Un napoletano o un romano senz’altro sarebbero di questa opinione”. Non invece al Nord: “Un piemontese invece le direbbe molto ordinarie (e allo stesso modo la penserebbe la maggior parte degli inglesi)”.
La bellezza Brydone trova “regionale”, localizzata: “Ricordo che dopo aver fatto il giro della Savoia e del basso Vallese ogni donna che incontravamo in Svizzera ci sembrava un angelo”. Lo stesso accade in Germania, aggiunge, e chiede retoricamente al (finto) corrispondente cui indirizza  le sue impressioni: “Ti sarà facile ricordare che incredibile differenza ci sia tra una bellezza di Milano e una di Torino, nonostante che queste due località siano così vicine”.
 
Cronache della differenza: Napoli
“Un paradiso abitato da demoni” è copyright di Mary Shelley. Croce, nella sua dottissima ricerca (ottimamente sintetizzata su wikipedia, https://it.wikipedia.org/wiki/Un_paradiso_abitato_da_diavoli)
ne trova traccia già nel Cinquecento, ma Mary Shelley ne sarebbe stata il veicolo di maggiore diffusione.
 
Gli Shelley abitarono Napoli nell’inverno 1818-1819. L’avevano eletta loro residenza italiana, ma la lasciarono dopo tre mesi, durante i quali erano vissuti in isolamento – avevano ricevuto solo un medico, dicono i biografi. Lasciarono Napoli su un tema “napoletano”: una bambina comprata fatta passare per loro figlia, di Mary oppure della sua sorella Jane\Claire che li accompagnava. La bambina moirrà di pochi mesi, ma intanto gli Shelley erano stati denunciati da una coppia di domestici, Paolo ed Elisa, che avevano licenziato perché si erano sposati.
A Napoli Percy Bysse Shelley dedicherà un’ode, nell’entusiasmo per i moti liberali del 1820-1821.
 
Al solito semiserio, Gadda ne celebra una gloria dimenticata, Ernesto Cacace (nella raccolta di saggi “I Viaggi, la Morte”), l’inventore della nipiologia, o scienza del lattante, come distinta dalla pediatria. Nipiol è per i più la linea dolciaria per l’infanzia della Buitoni (ora Heinz). Ma la nipiologia esiste: è, dice la Treccani, “ lo studio integrale del lattante da tutti i punti di vista: biologico, psicologico, antropologico, clinico, igienico”.
 
“Il nuovo oro di Napoli” è a Scampia – “Corriere della sera”: “L’università Federico II vi trasferisce la nuova sede.” Fare bene si può, anche rapidamente – cambiare. Specialmente contro il crimine, a Scampia come a Caivano: basta agire.
 
“ I napoletani, come i Greci, detestano i forestieri”, annota Alvaro, “Quasi una vita”, durante il soggiorno a Napoli nel 1947, dal 7 marzo al 15 luglio, alla direzione del giornale “Il Risorgimento”, di proprietà di Achille Lauro (che presto rimprovererà ad Alvaro un “accentuato orientamento di sinistra”): “Temono di essere offesi con le grossolanità di cui soltanto Napoli può giudicare la portata, perché sono maestri in materia”.
 
“Il vero presente per i napoletani è il passato”, annota ancora Alvaro della tavolata che lo festeggia dopo le dimissioni dal “Risorgimento”.  “A proposito del quale”, annota ancora,  cioè del giornale, “un collaboratore mi diceva ironicamente: «L’Europa a Napoli!». E un altro: «Se Picasso fosse a Napoli, non gli faremmo decorare neppure un bar»”. Ma a Napoli, commenta Alvaro,”gli scrittori e gli artisti credono di essere al centro”.
 
Ancora di Napoli Alvaro registra questa cosa vista: “Un tale toglie l’asfalto da una strada, e lo carica su un carretto per venderlo poco oltre. C’è qualcuno attorno che protesta. Altri lo difende dicendo: “Tanto, non è roba nostra”.


Al seguito di Ferdinando II che nell’autunno del 1852 faceva una ricognizione dei possedimenti nella Calabria Citeriore, il medico svizzero Horace Rilliet nota (“Colonna mobile in Calabria”, XVII giornata, 13ottobre) “nella retroguardia…un esercito di venditori di commestibili e di rinfreschi”: un’“orda di uomini e donne semivestiti, che ci hanno seguiti da Napoli, a piedi nudi, dormendo sul primo albero che trovano e non avendo altro bagaglio che un barilotto o un paniere; gli uni vendono caffè, altri vino, pane, lardo o molto semplicemente acqua” (gli acquaioli fanno gli affari migliori”).

 
leuzzi@antiit.eu

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