Il parto cesareo del #metoo
Il
film voluto da Brad Pitt sulla difficile denuncia delle violenze sessuali, a
partire da Harvey Weinstein, il produttore di cinema più premiato agli Oscar che
si presentava nudo a qualsiasi donna con cui avesse un contatto diretto. Due giornaliste
del “New York Times”, Jodi Kantor e Megan Twohey, provano ad approfondire i
primi indizi, contro la difficoltà delle vittime a parlare, a distanza di tempo,
e contro la difesa anticipata di Einstein. Finché, saputo che il settimanale “New
Yorker” segue la stessa pista, col giornalista Ronan Farrow, l’inchiesta accelera,
e il 5 ottobre 2017 lo scandalo esplode – il “New Yorker” seguirà il 10
ottobre, con testimonianze di maggior peso, attrici famose. È l’inizio del movimento
#metoo, da cui il titolo del film.
A contrappeso, nel racconto lungo due ore, le giornaliste sono vezzeggiate da mariti affettuosi, che accudiscono i bambini, e da un direttore e un redattore capo che le stimolano quando hanno dei dubbi. Il
maggior ostacolo alla denuncia, in realtà, era il regime di accordi transattivi che
Weinstein concludeva con le prede che gli si ribellavano – qualcosa di simile
ai pagamenti rateali che Berlusconi aveva disposto, senza passare per gli
avvocati, a favore delle “olgettine”. Il vero atto d’accusa, oltre che
naturalmente contro Weinstein, avrebbe dovuto essere contro la pratica americana
degli avvocati a percentuale (nelle transazioni per violenza sessuale perfino
del 40 per cento della somma liquidata), uno strapotere che tiene il posto della
giustizia negli Stati Uniti.
Maria
Schrader, Anche io, Sky Cinema e Now
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