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La scoperta di Eco “giovane romanziere”
Curiosamente,
solo dopo quindici anni si possono leggere in italiano le Richard Ellman
Lectures tenute da Eco ad Atlanta, alla Emory University, in inglese, sull’esperienza
dello scrivere. Da “giovane” perché “mi considero un romanziere molto giovane”, esordisce , a
partire dalla “cogitazione” de “Il nome della rosa”. Ritrosia dell’autore, che
non le considerava meritevoli di pubblicazione? Ma il brio non manca. Del resto
la serie aveva già pubblicato con la Harvard Press nel 2008, e anche in francese,
perfino nei tascabili, Livres de Poche.
Già recensita da questo sito alla ripubblicazione
francese, nel 2016, sotto il titolo "Il falso pentito Eco":
Altre divagazioni sul suo proprio lavoro, dopo la ”Postilla al Nome della Rosa”, e l’enorme paratesto a “Il pendolo di Foucault”, materia a un futuro ecobiblismo. Una rilettura dei suoi romanzi, senza “Il cimitero di Praga” per fortuna, e “Numero zero”. Con riuso di molti materiali già noti e discussi. Con la curiosa dissociazione, molto echiana, della difesa della “semiosi illimitata” di Peirce e insieme della necessità di limitarla, ancorarla. Con ampie esposizioni delle due “tecniche postmoderne” di cui vanta l’uso: l’“ironia intertestuale” e il “metaracconto”, la “riflessione del testo sulla sua propria natura”. Ciò che si definisce “doppia codifica”. Cose che il lettore trova senza spiegazioni fumose in Manzoni – in Dumas, Walter Scott.
Scivoloso. Subito su scrittura creativa e scrittura scientifica: la scrittura è “creativa” tra virgolette, e il termine è “malizioso”. Da logico post-scolastico, che però, invece di iscriversi alla neo-tomistica, si è ingolfato nella semiotica. Illuminandola con l’estro e il garbo, ma smarrito. Facendosi sempre perdonare per l’indefettibile autoironia: “Una volta ho perfino scritto, con tocco d’arroganza platonica, che consideravo i poeti e gli artisti in generale come prigionieri delle loro proprie menzogne, come degli imitatori d’imitazioni, mentre in quanto filosofo io avevo accesso al vero mondo platonico delle Idee”. Ma smarrendo il fedele lettore: a quale Eco appigliarsi?
È un falso pentito, gli uditori cui si indirizzava configurando come un tribunale. Confessa – rivendica - “la passione per la falsificazione”. E non tutto, dice, rivela: “Per scrivere un romanzo di successo, un autore deve conservare il segreto su certe ricette”. Con un ghigno? Insensato. Sofistico: di ogni scelta dà ragioni diverse, probabilistiche, teoriche, tutte vere, cioè tutte false – talvolta le “falsifica” lui stesso: il relativismo è sofistico. Non cinico. Non scettico. Stimolante, ma a nessun esito.
Dei romanzi dà i tempi di lavorazione. Poco credibili – in tutto, per i cinque romanzi di allora, fanno ventisei anni. Si vuole figurativo, e in quache modo lo è: produceva migliaia di abbozzi, schizzi, disegni di ogni personaggio, luogo, situazione – come Fellini, Günter Grass. E ricorda che Marco Ferreri si era proposto di fare “Il nome della rosa” al cinema perché tutto è preciso nel romanzo: “Il suo libro mi sembra concepito espressamente perché se ne faccia una sceneggiatura, i dialoghi hanno esattamente la giusta lunghezza”. Giusta, intende Eco, perché si svolgono dentro e tra ambienti da lui calcolati in minuziose topografie.
“Il nome della rosa”, primo successo planetario istantaneo, prima del “Codice da Vinci” e di “Gomorra”, finisce per non spiegare, “i lettori ingenui e di poca cultura” escludendo “da questo gioco” postmoderno “di scatole cinesi, da questa regressione delle fonti, che conferiscono alla storia un’aura di ambiguità”. Il suo obiettivo essendo “una sorta di complicità silenziosa col lettore colto”. Milioni di lettori colti? In effetti questo libro, una serie di lezioni a un pubblico colto, di un autore sui propri libri, di un semiologo sui propri segni, è eccezionale. È anche buona cosa – a parte l’effetto mercato, di convitare gli studenti americani, futuri mediatori culturali, a un incontro ravvicinato prolungato con l’Autore Celebre e il Celebre Semiologo? Poco ne resta.
Sono poche le confessioni. Forse solo una: che scrisse “Il nome della rosa” per caso. Invitato dalla redattrice sua amica di una piccola casa editrice a scrivere un breve racconto giallo, lui come altri “scienziati”, rifiutò vantando: “Se dovessi scriverne uno, lo farei di cinquecento pagine”, dopodiché la molla scattò. Si può anche credergli. Un quarto del materiale, “Autori, testi e interpreti”, è ripreso da “Interpretazione e sovrainterpretazione”, di vent’anni prima, che a sua volta si rifaceva al voluminoso trattato “I limiti dell’interpretazione”. E un altro quarto abbondante dalle “Mie liste”, di cui approntava un volume a parte – ricco, questo, di un’imponente selezione di immagini. Elenchi spenti, nulla della vertigine delle liste originarie di Rabelais. Il saggio centrale è di semiologia: il Lettore Empirico, il Lettore Modello, l’Autore Empirico. E anche il primo quarto, il più originale, “Scrivere da sinistra a destra”, è farcito di grammatologia indigesta: il condizionale controfattuale, il dispositivo, la decodifica, la doppia codifica.
Sarà questo il motivo per cui di Eco, di cui editano anche i ritagli, queste “Confessioni” non si pubblicano in italiano?
Umberto
Eco, Confessioni di un giovane
romanziere, La Nave di Teseo, pp. 224 € 20
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