L’apprendistato africano di Blixen-Dinesen
Un
libro de chevet, riposante per i
momenti di riposo. Divagazioni sulle occorrenze della vita: i progetti, i
problemi, il credito, il debito. Condite da riflessioni sui temi che occupano
la fantasia: l’amore, l’abbandono, la solitudine, l’entusiamo, la delusione.
Nelle lettere che Karen Blixen, non ancora “Isak Dinesen”, in Africa o in
viaggio dall’Africa all’Europa e viceversa, inviava ai suoi familiari,
soprattutto alla madre Ingeborg e al fratello tuttofare Thomas. Una
corrispondenza che è anche l’apprendistato della sua futura attività di narratrice
- e di cultrice dell’immagine - invece che di farmer baronessa, nella cornice anglicizzante del Kenya coloniale.
Dal
1914, prima della Grande Guerra, al 1931, quando la sua farm africana fallì, la baronessa danese Karen Blixen decise di
vivere sull’altopiano kenyota, dal clima più spesso brumoso come a casa, un’esperienza
da castellana, una che innamora e comanda, illuminata e rispettata, su Kikuyu
sparsi, Somali, Masai, sui leoni e gli sciacalli. Come, si dirà poi, da scrittrice
famosa, “una snob eletta da Dio”, di “indomabile
amore per la grandezza, che è stato «il mio demone»”. Un’esperienza che, scorrendone
le lettere, ne ha mutato le prospettive, e il carattere. Ma lontana dallo
stereotipo del futuro “La mia Africa”,
del libro e del film – le foto che corredano il volume, numerosissime, si aprono
con un ritratto di Karen nel 1913 diverso: un viso tondo, uno sguardo complice
e malandrino, non l’affilata altierezza di Meryl Streep, che la impersona
nel film.
La
corrispondenza è naturalmente appesantita dalle vicende biografiche - o alleggerita,
se si sta al gossip: problemi
finanziari ricorrenti, e rapporti personali per lo più problematici, col marito
Bror Blixen, poi divorziato, e col maggiore pilota Denys Finch Hatton, col
quale la relazione fu intesa (poetica), entusiasta e tormentata, anche da una
maternità non voluta, quindi abortita, che presto morirà in un incidente, lasciandola sola, e con i
creditori alle calcagna. Ma le vicende sono vissute con spirito leggero, la
futura narratrice veleggia al di sopra delle macerie – se non fu un’incapacità
di vivere la vita “reale”, degli affari, le stagioni, le piogge, la siccità, i
raccolti, le anticipazioni, i mercati. Sempre curiosamente ispirandosi, come
incarnandola, a Freja, che evoca, la divinità nordica di tutto ciò che è vita, amore,
bellezza, anche nella guerra e la morte.
Un
volume di oltre 2.500 lettere. Tutte fitte di cose, alcune molto lunghe. Curate,
come per la posterità, anche negli aspeti più casuali o marginali. Come se gli anni
dell’Africa fossero un apprendistato, un esilio volontario in ambiente esotico
per meglio affinare l’arte del racconto – raccontarsi una vita propria mentre
se ne vive un’altra, quella materiale, anagrafica.
Un
volume messo assieme da Frans Lasson nel 1982, con l’aiuto di Thomas. Ottimamente
curato da Bruno Benni, specialista solitario della letteratura danese, da Andersen
in qua.
Isak
Dinesen, Lettere dall’Africa. 1914-1931,
Adelphi pp. 488, ill. € 28
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