martedì 7 novembre 2023

Panetta interventista - 2

Non ha lasciato buona traccia all’Ivass, che a lungo ha presieduto: troppe porte girevoli tra l’istituto di sorveglianza delle assicurazioni e le assicurazioni stesse, e comunque l’assicurazione “ha sempre ragione”, l’assicurato se ne “faccia ragione”. Ma in Banca d’Italia è stato un altro, già da vice-direttore, quindi da una dozzina d’anni: interventista, e diretto.
Si ricorda da ultimo per le critiche alle politiche anti-inflazione della Banca centrale europea, del tipo “buttare il bambino con l’acqua sporca”, dentro e fuori del consiglio ristretto (Comitato esecutivo) di cui era membro. Ma lo è stato già in più occasioni da vice-direttore generale – scuola Draghi, si direbbe, tutto l’opposto del governatore uscente Visco. Ed è quello con più esperienza di mondo, e che più ha spiegato, e con precisione, l’ìnspiegato dei media italiani nell’era Draghi alla Bce: dai salvataggi bancari al famoso bail-in, agli stress test, curiosamente modulati a Francoforte su criteri diversi a seconda della nazionalità delle banche.
Con un terzo degli aiuti tedeschi alle banche “avremmo avuto un surplus di 77 miliardi”, irruppe sardonico quando Eurostat tardivamente (molto tardivamente) ha reso noto l’ordine di grandezza dei salvataggi pubblici, cioè nazionali (i deprecati “aiuti di Stato”) delle banche dopo il 2008.
Il 20 ottobre 2015 alla Commissione Finanze della Camera dettagliava: “Le inefficienze nelle ordinarie procedure di gestione dei dissesti bancari… negli anni scorsi hanno costretto numerosi paesi, sia in Europa sia a livello globale, a destinare risorse pubbliche ingenti in favore di banche in difficoltà. Voglio sottolineare che l’Italia non è tra quei paesi, nonostante l’evoluzione assai sfavorevole della nostra economia negli anni scorsi. In base ai dati pubblicati sia dall’istituto di statistica europeo (Eurostat) sia dalla Bce, da noi gli interventi pubblici sul mercato del credito non hanno generato costi per lo Stato, ma un flusso, pur contenuto, di ricavi netti positivi sotto forma di interessi e commissioni. Al contrario, in molti paesi esteri gli interventi dello Stato a sostegno del sistema bancario hanno determinato per la finanza pubblica e per i cittadini oneri assai cospicui, pari al 5,0 per cento del pil in Spagna, al 5,5 nei Paesi Bassi, all’8,2 in Germania, a oltre il 22 in Grecia e in Irlanda. Il volume dei trasferimenti in favore delle banche è stato assai elevato anche negli Stati Uniti e nel Regno Unito. A titolo di esempio, è possibile calcolare che se in Italia fossero stati effettuati interventi in rapporto al pil pari a quelli della Germania, l’onere a carico delle nostre finanze pubbliche sarebbe ammontato a 130 miliardi di euro”. Cifra paperoniana.
E così era stato. Le banche europee si sono salvate con robuste iniezioni di capitale pubblico. Quelle tedesche si sono salvate come quelle anglo-americane, con nazionalizzazioni mascherate. Con soldi pubblici cioè regalati alle banche private. Contro ogni divieto di aiuti di Stato. Che per l’occasione “Bruxelles” si è dimenticata di applicare – senza contare l’uso dei fondi europei, molto maggiore.
Gli interventi pubblici si sono avuti in questo ordine  per dimensione: Germania 250 miliardi, Spagna 60, Irlanda 50, Olanda 50, Grecia 40, Belgio 19, Austria 19, Portogallo 18. L’Italia viene ultima con 4 miliardi.
L’intervento di Panetta in Commissione alla Camera era al seminario sull’applicazione delle nuove normative in caso di crisi bancarie: per primi pagano azionisti e correntisti – il cosiddetto bail-in. La misura, imputata alla Bri, a Basilea, era invece della Bce di Draghi – che è stata discriminatoria, questo si dimentica – e acclamata al Parlamento europeo e nei media italiani come giusta misura anti-capitalista. Bene, solo l’Italia ha applicato il bail-in, rovinando qualche milione di risparmiatori, senza salvare le banche - le banche del Centro-Italia, Mps incluso, e le le venete. Ma Panetta aveva ben avvertito: “Non sanno di che si sta parlando”. 
Il 2015 è anche l’anno degli stress test bancari, gestiti dalla Bce sempre di Mario Draghi, anche se la titolare era una piccola francese paratedesca, di nome Nouy. Stress test discriminatori, soprattutto per Unicredit e Mps.
Fu un esercizio dichiaratamente anti-italiano, al punto che il 2 febbraio Panetta non esitò a denunciarlo: “Il disegno dello stress test europeo aveva caratteristiche che svantaggiavano le banche italiane. Lo abbiamo messo agli atti in Bce durante la preparazione dell’esercizio”. Peggio: “Non si può pensare di risolvere i problemi aumentando in modo continuo, indiscriminato ed eccessivo i requisiti di capitale, frenando ancora l’offerta di credito”. Tenendo le banche cioè, alcune banche, le banche italiane, sempre sulla corda, magari col solito ritornello delle “riforme”.
“Indiscriminato” ed “eccessivo”, che sembrano parole forti, invece non dicevano tutto. E cioè che non si tratta di un errore di metodo ma di uno strumento di attacco alle banche italiane. Per il business  delle merger & acquisitions probabilmente, non per altro. Profumo e Viola, allora a capo di Mps, non erano ancora tornati da Francoforte a Siena, dopo le ramanzine, e non avevano riferito in consiglio e al management Mps, che “Londra” sapeva già tutto e apprestava l’attacco alla banca. Quando non bastò, in estate, la Bce si espose a silurare pubblicamente il Monte dei Paschi. Impensabile, se non fosse avvenuto: non s’è mai visto una banca centrale che dica al mondo che una banca – peraltro in discrete condizioni – è al fallimento. La Bce l’ha fatto.
Agli stress test di fine 2015 Deutsche Bank poté beneficiare di una plusvalenza di 4 miliardi di euro per una cessione che dopo dieci mesi ancora non aveva completato. Sembra fantascienza ma è quello che è accaduto. Mentre altre banche non hanno potuto contabilizzare plusvalenze già incassate. Perché l’iter non era stato perfezionato formalmente.
Ma non c’è solo la Bce di Draghi. Panetta è un governatore che potrebbe anche dire che il re è nudo, giacché lo è. “Un paese dove il recupero dei crediti richiede fino a quindici anni”, è altra sua considerazione ribadita, più cattiva che disperata. Ma forse, questa, nemmeno cattiva: tutti sanno, da molti anni, che fino a 200 mila euro di credito è meglio non fare causa, bisogna accontentarsi del poco che entra. Per favorire gli affari?
(fine)

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