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Bigottismo –
È laico – puritano. Aprendo il diario “Quasi una vita” nel 1937, lo scrittore Alvaro
lo nota a proposito dell’Italia: “La morale laica è stata introdotto in Italia,
e forse non soltanto in Italia, dal liberalismo e dal socialismo. Nel
cattolicesimo non c’era bigottismo, e vi si è insinuato da quando le fedi
laiche hanno operato nella società”.
Darwinismo sociale –
Quello storico, canonizzato da Herbert Spencer, è morto – è considerato morto,
sotto la spinta novecentesca della rivoluzione, del mutamento radicale,
dell’utopia sociale, della costruzione invece dell’evoluzione. Ma di fatto persiste
e anzi s’impone, sotto la forma della psicologia, della psicoterapia. Resta
introiettata l’idea che per vivere bisogna lottare. E che bisogna lottare per moduli vincenti, ora detti
“corretti”. Per canoni, impositivi anche se mutevoli – impositivi per tutti nel
momento in cui vigono. Di apparenza fisica, o anche sostanza fisica, oltre che
di linguaggio e portamento. In famiglia, a scuola, in società (lavoro,
relazioni, comunicazione).
In
realtà la richiesta è di lottare per l’uniformità. Per dei canoni, che si vogliono
terapeutici o scientifici – sperimentati oltre che argomentati. Di fatto, trattandosi
di comportamenti, per il conformismo. A modi ideali che sono solo modi di
essere, mode, sistemi transeunti, di poteri flebili e labili – insinuanti e
dominanti su una debolezza di fondo, che il darwinismo psicologico ha indotto.
Ribaltando quella che si può dire la sostanza umana, la tradizione, la fede –
la cultura.
Darwinismo
sociale si vuole “il” progresso. E in teoria va in una col liberalismo, quindi
con l’individualismo. Ma verso l’inconsistenza – un adattamento minuto, costante,
distruttivo? E eterodiretto.
Falso –
Adrià, lo chef per eccellenza. Il prototipo
degli chef, di questi decenni di foodmania, dice alla fine che cucinare non gli piace. Lo dice per
un “ritorno di fiamma” sull’attualità, quindi sul suo business – è da qualche tempo che non faceva più i titoli. Ma è in
effetti una strana mania, quella del “gusto”, che si accoppia al fashion e al social (influencer promoter,
tiktoker…): un mondo di pubblicità senza sostanza. Se nessuno più cucina in
casa, e i ristoranti vendono precotti. Un’epoca del falso.
Viviamo
gioiosamente, in mezzo a guerre, inflazione, inverni demografici, migrazioni
violente. Il falso è il meno – o è il
tutto?
Fede – È immedesimazione,
un’appropriazione. È l’ipotesi che lo scrittore e naturalista scozzese Patrick
Brydone, libero pensatore professo, fa nel 1770, coinvolto, in quanto
viaggiatore curioso, nelle feste
religiose siciliane, in quelle semplici di paese, e nella fantasmagoria di Santa Rosalia a
Palermo, rilevando “l’ardore e l’affetto che animavano i volti dei fedeli”. Una
forma di amore, “una gioia perfettissima, che rassomiglia forse ai sentimenti
puri e delicati che si accompagnano a un amore devotissimo”. Che poi diventa un
cuore “corazzato e temprato fino a diventare impenetrabile ala fiamma della
filosofia”, della riflessione. Perché è parte di se stessi.
Brydone continua la
riflessione con un caso che gli aveva raccontato il celebre dottor Tissot,
svizzero, celebre come “principe dei medici e medico dei principi”, studioso
dell’onanismo e dell’epilessia: “Ricordo che il dottor Tissot mi disse di avere
avuto un paziente che morì di amore per Cristo, letteralmente, e anche negli
ultimi momenti sembrava godere di una felicità infinita”.
Una fede, questa
“forma di venerazione personale, che ha
bisogno di esprimersi materialmente, nei gesti, nelle parole, “di un oggetto su
cui concentrarsi coi sensi”. Del resto, concludeva, anche “gli scrittori sacri…
spesso rappresentano Dio sotto forme materiali”.
Filosofia tedesca – Georg Christoph Lichtenberg,
professore di Fisica a Gottinga, l’università dei “primati”, e uomo di mondo, poteva
concludere precocemente, attorno al 1780, in uno degli aforismi per cui è
rimasto famoso: “Appena si comincia e vedere tutto nel tutto si diventa in
genere oscuri”. Il barone fisico sapeva già che ci sarebbe stata la “filosofia
tedesca” per un secolo e mezzo e oltre, dal trio dello Stift di Tubinga a
Heidegger, intraducibile per essere inafferrabile.
Il barone però
era indulgente: della lingua del Tutto diceva che “si comincia cioè a parlare
la lingua degli angeli”. Messianica? Un mormorio?
Spinoza – Del filosofo della natura naturans Flaubert, che molto lo aveva letto e amato, scriveva nel
novembre 1879: “Questo ateo è stato,
secondo me, il più religioso degli uomini, poiché non ammetteva che Dio”.
Anche Goethe ne
aveva scritto a Jacobi in termini analoghi: “Vorrei, quanto a me, fargli
credito del nome di theissimus e christianissimus”.
Viaggio – È un “volo poetico”, perlomeno nell’armamentario
della poesia simbolista. È riflessione di
Carlo Emilio Gadda, scrittore farfallone, nel saggio “I viaggi la morte”, una
delle sue prime pubblicazioni, sulla rivista “Solaria” nel 1927 (ore nel volume
dallo stesso titolo): “Il viaggio, rivissuto o immaginato come fine a se
stesso, conferisce alla vita una tonalità ariostesca o disetica, così come fa
nei riguardi della poesia la «migrazione estetica» del simbolista, insofferente
di ogni adagiamento realistico dell’espressione”.
Con esiti metafisici: “Viaggiatori e simbolisti amano
adibire l’esperienza a catalogo per la serie indefinita delle differenziazioni
spaziali; e poi che, così praticando, la loro aisthesis si rivolge con
preferenza a questa serie spaziale, essi ne accentuano intensamente il motivo
lirico più alto, cioè la sua sognata infinità. Essi vorrebbero rifiutarsi di credere
che, come ci è dato vivere un breve tempo (scongiuri), così ci è dato
percorrere un breve spazio: auspicano perciò al loro protagonista una sorta di
immortalità spaziale, un al di là topografico ove abbia corso la esperienza
ulteriore, infinita”.
Ma questo è della poesia non solo simbolista. È della
creatività in generale. Di cui il “viaggio”, alla maniera di Baudelaire, del
“Bateau ivre” di Rimbaud, è motivazionalmente non meno di chi comunque parte non obbligato, per sua curiosità.
zeulig@antiit.eu
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