Giuseppe Leuzzi
Guardando la “Carta struttural-cinematica” del Cnr,
delle derive tettoniche, Paolo Rumiz nota (“Una voce dal Profondo”, p. 18):
“Ricordava ai fanatici dell’etno-nazionalismo che la Padania è geologicamente
Africa, e che Europa è semmai l’Italia meridionale”. Che s’è sempre saputo e
non vuole dire niente, se non che nei suoi milioni di anni la terra si è sempre
mossa e si muove. Ma ha un senso spregiativo dopo il leghismo – una malattia
infettiva del linguaggio.
Le città dove si vive peggio
sono, secondo “Il Sole 24 Ore”, Foggia, Caltanissetta, Napoli, Siracusa e
Crotone. Mah! Foggia e Caltanissetta non si sa, ma Siracusa? Anche a Napoli e
Crotone si vive bene, egregiamente. Saranno classifiche come le bandiere blu, dove
poi uno si ritrova il mare infetto, a vista d’occhio: ci sono cento (mille?)
“criteri”, e i Comuni si adeguano – quelli furbi.
Come Avati divenne regista
“È vero che suo padre era di origine calabrese?”, chiede
Cazzullo a Pupi Avati. “Ci raccontava di discendere ad un aristocratico, Pio
Avati”, la risposta: “Non era vero. Ho speso due milioni di lire per ricostituire
l’albero genealogico, e in effetti ho trovato un Pio Avati: accattone e
omicida”.
Ma il ricordo di un calabrese a Bologna Avati ce
l’ha, a proposito del suo primo film, “un disastro, dilapidammo oltre duecento
milioni del nostro mecenate, che si faceva chiamare Mister X”. “Chi era?” “Carmine Domenico Rizzo,
costruttore edile, primo contribuente dell’Emilia Romagna. Anche se era
calabrese, per davvero”.
Erano gli ani 1960. Oggi Rizzo sarebbe in carcere (e
Avati, coi suoi 200 milioni?), per concorso esterno in associazione mafiosa
come minimo: non ci possono essere costruttori affidabili del Sud al Nord. Dai Cavalieri di Catania a
Ligresti la guerra è stata continua, indisiosa, dura. Quando si sono arresi, li
hanno liberati.
La privacy è dei mafiosi
Una delle quotidiane
polemiche politiche rivela un criterio e una condotta agghiaccianti della
Pubblica Amministrazione. Cioè, non li rivela, li conferma, ci mette il timbro.
Da una di queste polemiche
l’altra settimana si scopre che il capo del Dap, Dipartimento Amministrazione
Peniteziaria, il giudice Giovanni Russo, ha semisegretato (“limitata divulgazione”)
i contatti intercorsi in carcere al 41 bis tra i detenuti per mafia e
l’anarchico Cospito. Per alleviare l’applicazione del 41 bis, o trasformarlo a
termine. Contatti che un sottosegretario, che ne aveva avuto conferma a
“limitata circolazione”, avrebbe
divulgato colpevolmente. E che al capo del Dap hanno dato ragione ben due
giudici, in attività giurisdizionale: il sottosegretario non poteva divulgarli.
Cioè, non si doveva sapere che i mafiosi al 41 bis speculavano su Cospito (i
“contatti” venivano presi per alleggerire il carcere duro)?
I due giudici in cattedra,
da gip e da gup, sarebbero stati mossi dall’ostilità politica verso il
sottosegretario che ha divulgato i contatti. Ma la “limitata divulgazione” lo
stesso è inquietante. Tanto più che il giudice Russo è della stessa area
politica del sottosegretario.
Il motivo dell’inquietudine
è questo: non ci sono altrettanti riguardi “regolamentari” (giuridici) a
vantaggio dei cittadini non mafiosi da parte dei “tutori dell’ordine”, siano
essi vigili, prefetti o giudici - si riceva una semplice multa, tutti possono
vernirlo a sapere. Mentre si garantisce, per legge, la privacy dei mafiosi. E degli anarchici, naturalmente. Per una legge
di cui si impone l’applicazione, contrariamente a tante altre.
Foglie morte in Calabria - Eranova muore con Moro
Una
studentessa di Eranova all’università di Bari? Comincia male Abate la favola di
un paese felice e poi infelice. Il racconto “Un paese felice”, di una Macondo
del Sud, il miniborgo di Eranova tra San Ferdinando e Gioia Tauro cancellato
per fare posto a un fantomatico centro siderurgio – poi sostituito dall’attuale
porto di Gioia Tauro, un interporto-canale per container a grande profondità. Nessun
calabrese è mai andato a Bari (eccetto lo stesso Abate, ma la sua è un’altra
storia), troppo “lontano”, per strada o in ferrovia. Ma poi passa al “camillerese”,
l’uso ancillare del dialetto, italianizzato, in misura saggia, che rende più
della migliore descrizione : “Ci scialiamo”, “tu sei paccio”, “zappoliàto”,
“manìcula”... E funziona: l’ambiente sa di raccolto, vecchio anche se recente,
robusto di memoria.
In vacanza a Tropea nell’estate del
2016, spiega Abate in nota, si è imbattuto nel racconto di questa vicenda e s’è
incuriosito. Da Bari, ove ha studiato all’università e si è laureato in
Lettere, s’immagina ventiduenne innamorato di una collega di studi di Eranova, in
riva al basso Tirreno, là dove ora c’è il porto. Ha indagato, in conversazioni
a Gioia Tauro e, più, a San Ferdinando (ex) di Rosarno. Specie con Franco Barbieri, l’ex sindaco, l’autorità
in fatto di storia locale.
Da San Ferdinando, ex feudo dei marchesi
Nunziante, venivano le famiglie che avevano dato vita a Eranova a fine
Ottocento, prendendosi gli spazi demaniali inoccupati del contiguo comune
libero di Gioia Tauro. Il racconto è dell’opposizione di questa famiglie, prima
gioiosa poi disperata, alla desertificazione industriale cui li condannava il
“pacchetto Colombo” del 1972 – piano di interventi industriali in Calabria (e
in Basilicata), dopo la rivolta di Reggio Calabria nel 1980.
Il racconto Abate arricchisce con un
medaglione simpatetico di Andreotti, ministro per il Mezzogiorno, a Gioia
Tauro, alla sua maniera, precisa e gelida. E con un paio di ricordi commossi di
Pasolini, uno dei destinatari delle richieste di aiuto degli eranovesi contro
l’espianto - l’unico che rispose (gli altri destinatari erano il presidente
Leone e il papa Paolo VI) e avrebbe presenziato alla protesta, ma prima fu
ucciso. Un ricordo è di Pasolini alla libreria Laterza a Bari, incontro emozionante
per il giovane Abate. L’altro è di una sparatoria in una trattoria povera di
Lecce, a un cena cui Pasolini presiedeva
– una storia che gli è stata raccontata dal papas Giuseppe Faraco, “che ne è stato testimone oculare”. Il destino
di Eranova si decide nel 1978, praticamente lo stesso giorno dell’assassinio di
Aldo Moro.
Già il nome latineggiante introduce a
un’aura classica, esistenziale. E la data di nascita, 1896 – Fine Secolo. Molto
l’autore fa giustamente caso ai nomi delle famiglie fondatrici, Rombolà,
Pellicanò, nomi grecizzanti, che rimandano alle colonizzazioni della Magna Grecia.
E alla modalità: la decisione di affrancarsi dal marchese Nunziante di San
Ferdinando, mettendosi in proprio su terreni appropriabili del comune di Gioia
Tauro, un comune libero sotto i vecchi statuti, sotto i Borboni.
Alla storia del marchese invece Abate
rinuncia. Forse per venire dal Marchesato di Crotone, l’area in Calabria per antonomasia
a proprietà remota e abbandonata, salvo per le corvèes e i censi, a carico
di contadini sempre più immiseriti. Mentre è una storia altrettanto istruttiva.
Il geneale Vito Nunziante, che Ferdinando IV, Primo delle Due Sicilie, aveva
fatto marchese di Cirello (poco distante da Eranova), per i tanti servizi contro
i francesi, e soprattuto con la cattura di Murat sbarcato a Pizzo, era, si
direbbe oggi, un reazionario: dopo Murat diede la caccia ai “carbonari” in
Calabria – oltre che ai briganti. Ma fu anche un imprenditore acuto e di
successo. Mise a reddito le isole Eolie, di fronte a Eranova, con lo zolfo i
bagni termali a Vulcano e l’industria della pomice a Lipari. Mise in valore le
miniere di ferro in Calabria. E s’inventò l’agrumicultura nel vasto comprensorio
di Rosarno.
A questo Abate accenna. Ma la storia vera
è più attraente. Il neo marchese Nunziante si occupò anche delle aree malariche
(non “sassose”, come è nel racconto) in agro di Gioia Tauro. Che chiese al re
di bonificare. Il re riconobbe la richiesta legittima, ma rispose che il
governo non aveva i fondi necessari. Nunziante insistette, e si arrivò nel… al compromesso
cui la narazione accenna, ma con più particolari corposi. Il re Borbone dava in
perpetuità a Nunziante la proprietà di tre quarti dei terreni bonificati, a
condizione che la bonifica fosse realizzata in cinque anni. Nunziante s’impegnò,
e per realizzare l’impegno attirando lavoratori volontari (vanghieri e
coltivatori, “massari”), così come aveva già fatto a Vulcano, costruì l’abitato di San Ferdinando – così
chiamato in omaggio al re (la Calabria pullula di Ferdinandea e Ferrandina). Nel
mentre che incaricava il botanico Gugliemo Gasparrini di scegliere le colture da
impiantare – nacque così la coltura degli agrumi, che prosperano in zona umida,
e degli ulivi.
Gasparrini, giovane liberale, attivo nei
moti e del 1821 e del 1848, farà carriera accademica sotto la protezione del
conte d’Aquila, il fratello di Ferdinando II: sarà rettore di Pavia negli anni
a cavaliere dell’unità, tra il 1869 e il 1861, proposto e promosso dal conte, prima
di dirigere l’Orto Botanico di Napoli a unità conclusa. Vito Nunziante prese la
malaria a San Ferdinando nel 1832, e dopo un’agonia di quattro anni morì – dopo
aver fatto testamento a Napoli, nominando esecutore il generale Florestano Pepe,
difensore della Repubblica Partenopea del 1799, fratello di Gugliemo. Morì a
Torre Annunziata, ma si volle sepolto a San Ferdinando. Suo figlio Ferdinando s’illustrerà
nella repressione dei moti in Calabria Ulteriore, 1847-1848. Il figlio secondogenito
Alessandro, anche lui avviato alle armi, ebbe la fducia dei successori di
Ferndianndo I, ma in Sicilia nel 1860 proporrà di passare con l’esercito
sabaudo. Nei mesi precedenti Teano sarà a Teano l’uomo di Cavour, incaricato di
prevenire tentativi di autonomia di Garibaldi. Si definirà sempre cavouriano,
ma sarà parlamentare dal 1870 con la Sinistra storica – dal 1880 sarà senatore
del re.
La favola Abate racconta in chiave di
transizione, ecologica, verde. E anzi edenica: Eranova è un giardino fatato,
ricco di frutti, profumato di odori. In piccolo lo era, per i bagnanti del mese
di agosto, nei suoi due luoghi prospicienti il mare, due bagni – gli eranovesi erano
terragni, non marinari: un fondo granulare dava all’acqua trasparenza, dava
frescura già solo allo sguardo, con lo Stromboli all’orizzonte. Ma a petto di
una realtà per nulla edenica.
Non c’è nella storia, nemmeno una volta,
nemmeno per caso, Rosarno - San Ferdinando sì, molto, ma era allora, fino al
1977, “di Rosarno”. Nome che evoca la cronaca. E una realtà impoverita. Rosarno
era il centro dell’agrumicoltura in Calabria, gareggiava con la Sicilia, e di
una società articolata (si governava a sinistra), prima di diventare un paese
senz’anima.
San Ferdinando si è rifatto, con gli
indennizzi degli espropri. È una cittadina pulita, di case armonizzate
(finite), con un fronte mare dignitoso e
anzi attraente. Ma l’economia è a redditività prossima allo zero: la tengono in
vita gli africani della baraccopoli , e non con grande profitto, per nessuno. Era
problematica già cinquant’anni fa: l’agrumicoltura, che ne era stata a lungo la
ricchezza, non rendeva più, il trapasso a nuove specie (spesso a una nuova
coltura, quella del kiwi), ha richiesto investimenti onerosi, con poco e
ritardato profitto, e molti terreni si incontrano spiantati – abbandonati. È
vero invece che le case costruite a risarcimento, il rione Mazzagatti a Gioia
Tauro e Praia, sono state “costruite con ferro scadente, poco cemento, e molta
sabbia di mare”. Lo Stato è provvido e improvvido.
Il progetto di fare di una zona agricola fertile una
zona industriale, costruendovi un grande impianto siderurgico, oppure una
megacentrale a carbone (chissà perché a carbone), oppure infine un megaporto a pescaggio
profondo è narrativamente produttivo. Un’assurdità. Tanto più se si va a
guardare, anche senza l’occhio pasoliniano irridente vero il “moderno”, alla
funzione del porto. Che non ce l’aveva al momento della progettazione e dello
scavo. Gli fu trovata trent’anni fa dall’armatore ligure Ravano, il primo che
si era specializzato nel trasporto container. Un grande interporto per
container, un centro di scarico e carico di container di provenienza o
destinazione Asia, il grande mercato allora emergente, presto diventata la
grande fabbrica del mondo – un traffico
da grandi portacontainer a portacontainer più ridotti, per le destinazioni
finali. Dietro il porto, dove un tempo c’era il paradiso di Abate, un deserto
di alcuni kmq., la “zona industriale”. Per la quale si fanno periodicamente
progetti di collegamento con l’autostrada, lì accanto, e con la ferrovia, ogni paio d’anni, da acuni decenni.
Ma qual era l’alternativa? Quella
che c’è oggi, a Rosarno e in agro di San Ferdianndo. Di agrumeti intristiti,
spogli, secchi. Il porto qualche migliaio di stipendi li genera, dentro e
fuori. Non una gioia – ma ha già un certo carattere, anche guardato dalle balze
dell’Aspromonte.
leuzzi@antiit.eu
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