giovedì 21 dicembre 2023

Mafia a palazzo di Giustizia

“Nei giorni immediatamente successivi alla strage di via D’Amelio, un nucleo di polizia giudiziaria si presentò a casa di Borsellino con il mandato di perquisire lo studio del magistrato, in cerca di elementi utili alle indagini. La famiglia oppose resistenza a quella perquisizione. Alla domanda perplessa sul motivo di una così inaspettata mancanza di collaborazione, i familiari replicarono: «Perché Paolo si fidava solo dei carabinieri»”.
Un libro incredibile. Non tanto per quello che dice, i delitti dell’antimafia, quanto perché li documenta. Riesce a documentarli, malgrado riserve, segretezze e coperture su documenti che pure dovrebbero essere pubblici. I due autori, già alti ufficiali dei Carabinieri a capo del Ros di Palermo nel 1990, erano riusciti a costituire un dossier documentato sulla catena di appalti pubblici gestiti dalla mafia. Una documentazione “che vrebbe potuto cambiare l’Italia”, possono affermare nel sottotitolo. Dopo averne dato nel testo una delucidazione impressionante.
Assassinato Falcone nella strage di Capaci a fine maggio 1982, il dossier si voleva indirizzato a Borsellino. Ma la Procura di Palermo glielo tenne nascosto. Affidandolo a due sotituti Procuratori che poi avrebbero fatto eccelsa carriera, Guido Lo Forte e Roberto Spampinato (quest’ultimo, famoso per essere  teorico del “Dio mafioso”, è oggi anche senatore 5 Stelle, dopo essere stato Procuratore capo). Il 13 luglio Lo Forte e Spampinato archiviarono il dossier. Il giorno dopo, al pool antimafia riunito, non ne dissero nulla a Borsellino, che pure era intervenuto alla riunione allarmato. Il 19 luglio Borsellino saltava anche lui in aria. Una vicenda terrificante. E ai due autori manca il riferimento al diario di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio Istruzione che aveva inventato il pool antimafia e impiantato il maxi-processo storico, 1982-83, con centinaia di arresti poi convalidati, e a luglio 1983 era stato il primo a essere eliminato in una strage con con autobomba. Nel diario Chinnici dice chiaro che non c’era da fidarsi di Lo Forte e Spampinato.
L’elenco dele malefatte è sterminato - quello che si dice “un sistema”. L’archiviazione del dossier appalti decisa da Lo Forte e Scarpinato due mesi dopo l’assassinio di Falcone, senza dirne nulla a Borsellino, fu confermata pubblicamente poche ore dopo la strage di via D’Amelio, contro lo stesso Borsellino e gli uomini della scorta: che gli interessati ne venissero con certezza a conoscenza, sapessero di non aver e nulla da temere?
Il generone democristiano
Storie non di pizzo. Storie di grandi imprese, non siciliane, che lavoravano con la mafia per assicurarsi gli appalti pubblici, “dall’ideazione dell’opera all’istituzione della gara d’appalto, dal pilotare la gara stessa,e vincerla, al gravare sull’avanzamento dei lavori con sovracosti rispetto ai preventivi, con consulenze costosissime, con forniture a prezzi gonfiati, con ritardi pilotati nelle consegne ecc. Tutto questo (e con soddisfazione di tutti) ai danni delle casse dello Stato (attraverso quelle della Regione, delle Province, dei Comuni..”)”.  Una rete criminosa di impese, politici, tecnici e mafia.
Invischiato è il “generone” democristiano della migliore specie. Il sostituto procuratore Giuseppe Pignatone, che ebbe per un periodo assegnato il dossier insieme con Lo Forte e Spampinato, ora giudice del papa Francesco, dopo avere “esportato” la mafia a Roma, quando ne diresse la Procura della Repubblica, era figlio di Francesco Pignatone, insegnante di latino, deputato Dc a 25 anni, teorico del “milazzismo”, quindi caro anche al Pci, all’epoca dei fatti  presidente dell’Espi, Ente Sicilia per la Promozione Industriale, cerniera degli appalti. I maggiori contratti vedevano protagonista la Rizzani De Eccher, la ditta del geometra De Eccher subito dominante nelle opere pubbliche nelle province bianche di Udine e di Trento – in grado di “vincere anche tre gare in un giorno”, secondo la moglie del titolare, che curava l’amministrazine. Al centro della conventicola con la mafia la società romana Tor di Valle, di Paolo Catti De Gasperi, figlio di Maria Romana De Gasperi, coniugata Catti –  un ingegnere “vicino ai servizi segreti”, lo dirà il cassiere della mafia Siino, in uno dei processi in cui testimonierà da pentito. Ma più di tutti pesa il ruolo nefasto della magistratura.
Il procuratore capo di Palermo Giammanco aveva mandato in giro il dossier, che tutti sapessero, senza che la fuga di notizie fosse imputabile alla sua Procura. Dell’archiviazione, morto Falcone, si è detto. Pignatone, Lo Forte e Scarpinato si rifiuteranno di ascoltare il rappresenante della Rizzani De Eccher, il geometra Li Pera, il vero dominus degli appalti, quando questi, arrestato, comincerà a parlare. Brusca, il feroce luogotenente del feroce Riina, sentito successivamente dai sostituti Tescaroli e Di Matteo, dira chiaramente, a verbale, che Pignatone ha fatto “uscire notizie” del dossier, e niente succede. Tescaroli è uno che a Firenze, dove ora vice Procuratore Capo, lavora intensamente a dimostrare che le bombe del 1993 le ha messe Berlusconi, Di Matteo ha montato per vent’anni il processo Stato-mafia, ora finito nel nulla: sono giudici cioè molto anti-mafiosi, ma con perimetri.
Il capellone e il corrotto
Del verbale di Brusca, come di molte sedute del Csm, le trascrizioni sono state ottenute da Mori e De Donno solo di recente, attraverso strategie procedurali complesse, nel processo Stato-mafia, nel quale erano imputati, pur senza essere secretati. Erano, cioè, testimonianze e verbali protetti. Col “ministro dei alvori pubblici di Cosa nostra” A ngelo Siino, col quale De Donno aveva stabilito un rapporto confidenziale, in vista di un “pentimento”, a un certo punto il dialogo s’interrompe: “Non posso collaborare”, sibila Siino, col quale De Donno doveva limitarsi a incontri segreti di secondi, il tempo per il “ministro” di mingere, tornando dal Tribunale, dove veniva giudicato, al carcere, “la Procura ti ha venduto. I due che stanno in aula, il capellone non capisce nente, l’altro è corrotto. Non ti puoi fidare”. Il “capellone” è  Scarpinato, l’altro è Lo Forte. Vero o falso?
Il libro è in circolazione da un mese e mezzo, ma solo Caselli ha risposto. E non al libro, alla recensione che del libro ha fatto Carlo Vulpio. La p.151 è terribile – è sempre De Donno che parla: : Siino “mi riferì che – già prima del depositodel Dossier presso la Procura di Palermo - era stato informato dell’esistenza delle indagini. A suo dire, la fonte della notizia sarebbe stato Giuseppe Pignatone, che ne aveva informato alcuni ‘canali’ di cui non mi rivelò l’identità. Mi spiegò anche che Pignatone aveva un interesse personale in relazione a quelle indagini,in virtù sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo. Proseguì raccontandomi che, immediatamente dopo che il Dossier era stato depositato in Procura – nel febbraio del 1991 – Lo Forte, Pignatone e Giammanco, tramite fonti di cui non mi rivelò l’identità, ne diedero notizia ad ambienti mafiosi, comunicando anche il contenuto del Rapporto, tant’è che  lui stesso ricevette specifiche indicazioni sulle ultime pagine nelle quali era sintetizzato l’elenco delle persone e delle imprese coinvolte”.
Il Procuratore, di mafia, “ci capisce poco”
Qualche anno dopo Siino decide di collaborare con la Procura di Palermo, di cui è a capo Caselli. Che però affida il pentito, invece che ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza. Caselli sarà poi all’origine del processo Stato-mafia:  convoca Mori e De Donno a Torino, alla presenza di un folto gruppo di magistrati, li chiude in due stanze separate, e li interroga “con un atteggiamento molto duro, quasi accusatorio”. La vicenda prende parechie pagine. È Mori che racconta, che pure aveva, dice, un rapporto di fiducia con Caselli, dai tempi del terrorismo. De Donno accusa Caselli di essersi rifiutato di verbalizzare l’alterco intercorso fra di loro sulla prima testimonianza di Siino, che il dossier era stato diffuso dalla Procura di Palermo. Sull’alterno non verbalizzato De Donno ha mosso un procedimento di accusa alla Procra di Caltanissetta.  Che si è poi concluso con l’archiviazione delle sue accuse, a carico di Giammanco, Lo Forte, Pignatone. Ma con la notazione che Siino certamente aveva accusato la Procura di Palermo della diffusione del dossier, “in quanto documentato dal contenuto delle fonoregistrazioni”.
Caselli non ha risposto, nemmeno lui. Ha solo lamentato, del libro, “schizzi di fango di dubbia natura”. Forse aveva ragione il suo protetto Lo Forte, che del Procuratore venuto da Torino diceva , ammiccando, che “ci capisce poco”.
In uno degli ultimi capitoli Mori spiega lungamente che i rapporti col giudice Caselli, prima di  Palermo, erano buoni: “Risalivano agli anni della nostra collaborazione nella lotta al terrorismo”. E a Caselli Mori passò la possibile collaborazione di Vito Ciancimno: “In vista del suo nuovo incarico miaveva contattato per avere da me un quadro della situazione in S icilia  e io gli dissi dei nostril contatti con Cincimino. Lui si disse interessato e si fecec promettere di essere infrmato di eventuali  sviluppi”. Caselli per Mori è colpevole anche di non aver capito, con Ingroia, l’interesse del “pentimento” che Ciancimiono gli offriva – il suo progetto di diventare “il Buscetta di Caselli”. Due anni dopo lo trattava da delinquente – trattava Mori.   
E non c’è solo Palermo. A Palermo Mori non si sente ben visto, dice. Perché veniva dalla collaborazione con Domenico Sica, romano, Alto Commissario Antimafia - al posto di Falcone. Di Falcone dà non solo l’elogio di prammatica, ripetutamente, ma di più il quadro di un’intelligenza rapida. In particolare, subito, a naso, sul dossier appalti – “ci divertiremo”. Venendo però da una diffidenza generica verso i Carabinieri. Mori recupera il rapporto grazie a Ilda Boccassini, venuta apposta da Milano, dove collaborava proficuamente da qualche mese col capitano Sergio De Caprio, trasferito a Milano per collaborare all’inchiesta Duomo Connection. De Caprio chiede a Boccassini di mediare il rapporto con Falcone, e lei si presta, un giono, “all’improvviso”, piombando a Palermo. “Falcone ascoltò senza manifestare particolari reazioni”, ma Boccassini uscì dal breve incontro contena, e il rapporto partì. A questo punto è Sica che si vendica, smantellando il gruppo di De Donno a Bagheria, da cui tutto era partito, la verità degli appalti. Con una manovra semplice, spiega Mori: facendo ricredere il loro principale pentito, Giaccone, il professore, sindaco di Baucina, il piccolo comune dove il meccanismo degli appalti era per caso emerso. Giaccone, personalmente onesto, aveva spiegato il mecanismo in dettaglio, e dato i nomi. Sica lo convinse a ritrattare. Dopodiché “c’era, a questo punto, un fascicolo aperto contro me, Falcone, e l’avvocato Milio”, che aveva assistito Giaccone – “a distanza di tempo fummo tutti assolti, ma intanto c’erano state polemiche, articoli di giornali, interventi di personaggi pubblici: uno degli episodi – tipici nel corso delle indagini di mafia – in cui la diffusion di veleni finiva per favorire gli interessi dell’organizzazione”.
Cronache mafiose
Ce n’è anche per Leoluca Orlando, sindaco molte volte di Palermo, da destra e da sinistra. Orlando nel 1982, poco prima della strage di Capaci, accusava in tv, alla Rai, da Santoro, Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove di delitti eccellenti, mentre custodiva personalmente in cassaforte documenti di appalti a imprese mafiose. E quando il  giudice Alberto Di Pisa trovò quei documenti in una perquisizione al Municipio e si apprestava a incriminare Orlando, fu acusato sui giornali di essere il “Corvo”, autore cioè di lettere anonime contro Falcone. Era un falso, ma bastò per togliergli l’inchiesta su Orlando – dopo quattro anni d’“inchiesta” Di Pisa sarà prosciolto, ma non diventerà mai Procuratore Capo.
Si potrebbe continuare. Ma incredibile è soprattutto il silenzio che ha accolto, ormai da un mese e mezzo, questa denuncia. Che, si sarebbe pensato, doveva fare strage nelle cronache giudiziarie. Ne ha parlato solo Carlo Vulpio - già un “giustiziere” anche lui, candidato con Di Pietro - per essere prossimo di De Donno, sul “Corriere della sera”. In una recensione che il giornale ha annegato in un pagina di cronaca nera. Il silenzio è la riprova che le cronache giudiziarie sono eterodirette – cosa che sanno tutti nei giornali.
Mario Mori-Giuseppe De Donno, La verità sul dossier mafia-appalti, Piemme, pp.pp. 237, ril. € 19,90

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