Mafia a palazzo di Giustizia
“Nei giorni immediatamente
successivi alla strage di via D’Amelio, un nucleo di polizia giudiziaria si
presentò a casa di Borsellino con il mandato di perquisire lo studio del
magistrato, in cerca di elementi utili alle indagini. La famiglia oppose
resistenza a quella perquisizione. Alla domanda perplessa sul motivo di una
così inaspettata mancanza di collaborazione, i familiari replicarono: «Perché Paolo
si fidava solo dei carabinieri»”.
Un
libro incredibile. Non tanto per quello che dice, i delitti dell’antimafia,
quanto perché li documenta. Riesce a documentarli, malgrado riserve, segretezze
e coperture su documenti che pure dovrebbero essere pubblici. I due autori, già
alti ufficiali dei Carabinieri a capo del Ros di Palermo nel 1990, erano
riusciti a costituire un dossier
documentato sulla catena di appalti pubblici gestiti dalla mafia. Una
documentazione “che vrebbe potuto cambiare l’Italia”, possono affermare nel
sottotitolo. Dopo averne dato nel testo una delucidazione impressionante.
Assassinato
Falcone nella strage di Capaci a fine maggio 1982, il dossier si voleva indirizzato a Borsellino. Ma la Procura di
Palermo glielo tenne nascosto. Affidandolo a due sotituti Procuratori che poi
avrebbero fatto eccelsa carriera, Guido Lo Forte e Roberto Spampinato
(quest’ultimo, famoso per essere teorico
del “Dio mafioso”, è oggi anche senatore 5 Stelle, dopo essere stato
Procuratore capo). Il 13 luglio Lo Forte e Spampinato archiviarono il dossier. Il giorno dopo, al pool antimafia riunito, non ne dissero
nulla a Borsellino, che pure era intervenuto alla riunione allarmato. Il 19
luglio Borsellino saltava anche lui in aria. Una vicenda terrificante. E ai due
autori manca il riferimento al diario di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio
Istruzione che aveva inventato il pool antimafia
e impiantato il maxi-processo storico, 1982-83, con centinaia di arresti poi
convalidati, e a luglio 1983 era stato il primo a essere eliminato in una
strage con con autobomba. Nel diario Chinnici dice chiaro che non c’era da
fidarsi di Lo Forte e Spampinato.
L’elenco
dele malefatte è sterminato - quello che si dice “un sistema”. L’archiviazione
del dossier appalti decisa da Lo
Forte e Scarpinato due mesi dopo l’assassinio di Falcone, senza dirne nulla a
Borsellino, fu confermata pubblicamente poche ore dopo la strage di via
D’Amelio, contro lo stesso Borsellino e gli uomini della scorta: che gli
interessati ne venissero con certezza a conoscenza, sapessero di non aver e
nulla da temere?
Il generone democristiano
Storie non di pizzo. Storie di
grandi imprese, non siciliane, che lavoravano con la mafia per assicurarsi gli
appalti pubblici, “dall’ideazione dell’opera all’istituzione della gara
d’appalto, dal pilotare la gara stessa,e vincerla, al gravare sull’avanzamento dei
lavori con sovracosti rispetto ai preventivi, con consulenze costosissime, con
forniture a prezzi gonfiati, con ritardi pilotati nelle consegne ecc. Tutto
questo (e con soddisfazione di tutti) ai danni delle casse dello Stato
(attraverso quelle della Regione, delle Province, dei Comuni..”)”. Una rete criminosa di impese, politici,
tecnici e mafia.
Invischiato è il “generone”
democristiano della migliore specie. Il sostituto procuratore Giuseppe
Pignatone, che ebbe per un periodo assegnato il dossier insieme con Lo Forte e Spampinato, ora giudice del papa
Francesco, dopo avere “esportato” la mafia a Roma, quando ne diresse la Procura
della Repubblica, era figlio di Francesco Pignatone, insegnante di latino,
deputato Dc a 25 anni, teorico del “milazzismo”, quindi caro anche al Pci,
all’epoca dei fatti presidente dell’Espi,
Ente Sicilia per la Promozione Industriale, cerniera degli appalti. I maggiori
contratti vedevano protagonista la Rizzani De Eccher, la ditta del geometra De
Eccher subito dominante nelle opere pubbliche nelle province bianche di Udine e
di Trento – in grado di “vincere anche tre gare in un giorno”, secondo la
moglie del titolare, che curava l’amministrazine. Al centro della conventicola
con la mafia la società romana Tor di Valle, di Paolo Catti De Gasperi, figlio
di Maria Romana De Gasperi, coniugata Catti – un ingegnere “vicino ai servizi segreti”, lo
dirà il cassiere della mafia Siino, in uno dei processi in cui testimonierà da
pentito. Ma più di tutti pesa il ruolo nefasto della magistratura.
Il procuratore capo di Palermo
Giammanco aveva mandato in giro il dossier,
che tutti sapessero, senza che la fuga di notizie fosse imputabile alla sua
Procura. Dell’archiviazione, morto Falcone, si è detto. Pignatone, Lo Forte e
Scarpinato si rifiuteranno di ascoltare il rappresenante della Rizzani De
Eccher, il geometra Li Pera, il vero dominus
degli appalti, quando questi, arrestato, comincerà a parlare. Brusca, il
feroce luogotenente del feroce Riina, sentito successivamente dai sostituti Tescaroli
e Di Matteo, dira chiaramente, a verbale, che Pignatone ha fatto “uscire notizie”
del dossier, e niente succede. Tescaroli
è uno che a Firenze, dove ora vice Procuratore Capo, lavora intensamente a
dimostrare che le bombe del 1993 le ha messe Berlusconi, Di Matteo ha montato per
vent’anni il processo Stato-mafia, ora finito nel nulla: sono giudici cioè molto
anti-mafiosi, ma con perimetri.
Il capellone e il corrotto
Del verbale di Brusca, come di
molte sedute del Csm, le trascrizioni sono state ottenute da Mori e De Donno
solo di recente, attraverso strategie procedurali complesse, nel processo
Stato-mafia, nel quale erano imputati, pur senza essere secretati. Erano, cioè,
testimonianze e verbali protetti. Col “ministro dei alvori pubblici di Cosa
nostra” A ngelo Siino, col quale De Donno aveva stabilito un rapporto
confidenziale, in vista di un “pentimento”, a un certo punto il dialogo
s’interrompe: “Non posso collaborare”, sibila Siino, col quale De Donno doveva
limitarsi a incontri segreti di secondi, il tempo per il “ministro” di mingere,
tornando dal Tribunale, dove veniva giudicato, al carcere, “la Procura ti ha venduto.
I due che stanno in aula, il capellone non capisce nente, l’altro è corrotto.
Non ti puoi fidare”. Il “capellone” è Scarpinato,
l’altro è Lo Forte. Vero o falso?
Il libro è in circolazione da
un mese e mezzo, ma solo Caselli ha risposto. E non al libro, alla recensione
che del libro ha fatto Carlo Vulpio. La p.151 è terribile – è sempre De Donno
che parla: : Siino “mi riferì che – già prima del depositodel Dossier presso la
Procura di Palermo - era stato informato dell’esistenza delle indagini. A suo
dire, la fonte della notizia sarebbe stato Giuseppe Pignatone, che ne aveva
informato alcuni ‘canali’ di cui non mi rivelò l’identità. Mi spiegò anche che
Pignatone aveva un interesse personale in relazione a quelle indagini,in virtù
sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato
e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo.
Proseguì raccontandomi che, immediatamente dopo che il Dossier era stato
depositato in Procura – nel febbraio del 1991 – Lo Forte, Pignatone e
Giammanco, tramite fonti di cui non mi rivelò l’identità, ne diedero notizia ad
ambienti mafiosi, comunicando anche il contenuto del Rapporto, tant’è che lui stesso ricevette specifiche indicazioni
sulle ultime pagine nelle quali era sintetizzato l’elenco delle persone e delle
imprese coinvolte”.
Il Procuratore, di mafia, “ci capisce poco”
Qualche anno dopo Siino decide
di collaborare con la Procura di Palermo, di cui è a capo Caselli. Che però affida
il pentito, invece che ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza. Caselli sarà poi
all’origine del processo Stato-mafia: convoca
Mori e De Donno a Torino, alla presenza di un folto gruppo di magistrati, li
chiude in due stanze separate, e li interroga “con un atteggiamento molto duro,
quasi accusatorio”. La vicenda prende parechie pagine. È Mori che racconta, che
pure aveva, dice, un rapporto di fiducia con Caselli, dai tempi del terrorismo.
De Donno accusa Caselli di essersi rifiutato di verbalizzare l’alterco intercorso
fra di loro sulla prima testimonianza di Siino, che il dossier era stato diffuso dalla Procura di Palermo. Sull’alterno
non verbalizzato De Donno ha mosso un procedimento di accusa alla Procra di
Caltanissetta. Che si è poi concluso con
l’archiviazione delle sue accuse, a carico di Giammanco, Lo Forte, Pignatone.
Ma con la notazione che Siino certamente aveva accusato la Procura di Palermo
della diffusione del dossier, “in
quanto documentato dal contenuto delle fonoregistrazioni”.
Caselli non ha risposto,
nemmeno lui. Ha solo lamentato, del libro, “schizzi di fango di dubbia natura”.
Forse aveva ragione il suo protetto Lo Forte, che del Procuratore venuto da Torino
diceva , ammiccando, che “ci capisce poco”.
In uno degli ultimi capitoli
Mori spiega lungamente che i rapporti col giudice Caselli, prima di Palermo, erano buoni: “Risalivano agli anni
della nostra collaborazione nella lotta al terrorismo”. E a Caselli Mori passò
la possibile collaborazione di Vito Ciancimno: “In vista del suo nuovo incarico
miaveva contattato per avere da me un quadro della situazione in S icilia e io gli dissi dei nostril contatti con
Cincimino. Lui si disse interessato e si fecec promettere di essere infrmato di
eventuali sviluppi”. Caselli per Mori è colpevole
anche di non aver capito, con Ingroia, l’interesse del “pentimento” che
Ciancimiono gli offriva – il suo progetto di diventare “il Buscetta di Caselli”.
Due anni dopo lo trattava da delinquente – trattava Mori.
E non c’è solo Palermo. A Palermo
Mori non si sente ben visto, dice. Perché veniva dalla collaborazione con Domenico
Sica, romano, Alto Commissario Antimafia - al posto di Falcone. Di Falcone dà
non solo l’elogio di prammatica, ripetutamente, ma di più il quadro di un’intelligenza
rapida. In particolare, subito, a naso, sul dossier
appalti – “ci divertiremo”. Venendo però da una diffidenza generica verso i Carabinieri.
Mori recupera il rapporto grazie a Ilda Boccassini, venuta apposta da Milano,
dove collaborava proficuamente da qualche mese col capitano Sergio De Caprio, trasferito
a Milano per collaborare all’inchiesta Duomo Connection. De Caprio chiede a
Boccassini di mediare il rapporto con Falcone, e lei si presta, un giono,
“all’improvviso”, piombando a Palermo. “Falcone ascoltò senza manifestare particolari
reazioni”, ma Boccassini uscì dal breve incontro contena, e il rapporto partì.
A questo punto è Sica che si vendica, smantellando il gruppo di De Donno a
Bagheria, da cui tutto era partito, la verità degli appalti. Con una manovra
semplice, spiega Mori: facendo ricredere il loro principale pentito, Giaccone,
il professore, sindaco di Baucina, il piccolo comune dove il meccanismo degli appalti
era per caso emerso. Giaccone, personalmente onesto, aveva spiegato il
mecanismo in dettaglio, e dato i nomi. Sica lo convinse a ritrattare. Dopodiché
“c’era, a questo punto, un fascicolo aperto contro me, Falcone, e l’avvocato
Milio”, che aveva assistito Giaccone – “a distanza di tempo fummo tutti
assolti, ma intanto c’erano state polemiche, articoli di giornali, interventi
di personaggi pubblici: uno degli episodi – tipici nel corso delle indagini di mafia
– in cui la diffusion di veleni finiva per favorire gli interessi dell’organizzazione”.
Cronache mafiose
Ce
n’è anche per Leoluca Orlando, sindaco molte volte di Palermo, da destra e da
sinistra. Orlando nel 1982, poco prima della strage di Capaci, accusava in tv,
alla Rai, da Santoro, Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove di
delitti eccellenti, mentre custodiva personalmente in cassaforte documenti di
appalti a imprese mafiose. E quando il
giudice Alberto Di Pisa trovò quei documenti in una perquisizione al
Municipio e si apprestava a incriminare Orlando, fu acusato sui giornali di
essere il “Corvo”, autore cioè di lettere anonime contro Falcone. Era un falso,
ma bastò per togliergli l’inchiesta su Orlando – dopo quattro anni
d’“inchiesta” Di Pisa sarà prosciolto, ma non diventerà mai Procuratore Capo.
Si
potrebbe continuare. Ma incredibile è soprattutto il silenzio che ha accolto,
ormai da un mese e mezzo, questa denuncia. Che, si sarebbe pensato, doveva fare
strage nelle cronache giudiziarie. Ne ha parlato solo Carlo Vulpio - già un “giustiziere”
anche lui, candidato con Di Pietro - per essere prossimo di De Donno, sul
“Corriere della sera”. In una recensione che il giornale ha annegato in un
pagina di cronaca nera. Il silenzio è la riprova che le cronache giudiziarie
sono eterodirette – cosa che sanno tutti nei giornali.
Mario
Mori-Giuseppe De Donno, La verità sul
dossier mafia-appalti, Piemme, pp.pp. 237, ril. € 19,90
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