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Macondo a Gioia Tauro
Una
storia felice e poi infelice. Di Eranova, un paese che non c’è più (c’è il porto
di Goia Tauro), e di un amore che avrebbe potuto essere, oltre l’infatuazione
giovanile.
Un
paese dal nome beneaugurante. In realtà un piccola comunità, minima, un casello
ferroviario tra Gioia Tauro e Rosarno, che distano fra loro nove chimlmeltri,
con un mare trasparente, grazie a un fondale di sabbia sassosa, o sassolini
minuti. Di fronte allo Stromboli – alla parete chiusa del vulcano. Sacrificata
una cinquantina d’anni fa, per fare posto a un grande centro siderurgico, progetto
poi soppiantato da una megacentrale elettrica a carbone, infine, non sapendosi
più che fare, al megaporto di Gioia Tauro. Abate ne fa una Macondo di Calabria,
la storia di un destino amaro calato su un borgo felice.
Una
fiaba veridica, di un villaggio edenico in riva al mare, abitato da vecchi misteriosi
e maghe buone, destinato a dissolversi sotto i colpi di ruspe e draghe. Un “paradiso
chjatto e improfumato”, il narratore lo fa dire al proprio padre, avvezzo ai
calanchi dirupati del “marchesato”, nel crotonese, dove vive, “dove ti diverti a
raccogliere arance, mandarini, limoni, uva, fichi, olive”. Sotto l’ombrello magico
dei “Cento anni di solitudine”, qui invece piuttosto vivaci, affollati, e di “Foglie
morte”.
Un
racconto di personaggi da presepe, il nonno, la nonna, coloro che a fine Ottocento
crearono Eranova, e larghe tentacolari famiglie. Con lettere e appelli dei
paesani, pochi (i più preferirono i lauti espropri), al presidente Leone, a
Andreotti, a Paolo VI e a Pasolini contro il megaprogetto industriale. Con gli
eventi di contorno, sul solco de “Gli anni” della Nobel Ernaux: la fuga di
Kappler dall’ospedale del Celio, dove Abate faceva il militare, il rapimento di
Moro, un incontro fugace a un firmacopie con Pasolini.
La
ricostruzione è precisa, nella toponomastica e nell’onomastica. . Con un “camilleresco”
minimo, di termini dialettali reinventati – per lo più italianizzati: pregnanti. Con
poche imprecisioni. Forse una sola: il “morsello” il narratore-autore non l’ha
mangiato a Eranova, forse a Catanzaro (che è molto più vicina al crotonese, l’area
familiare di Abate, ma in Calabria tutto è distante). O due: “Lina mostra a
Carluzzo il dito medio” succede nei film americani, qualche decennio dopo, in
Calabria ancora no. Alla lettura però è diseguale: molto l’episodico, e il bozzetto.
E anche il camilleresco, non sempre è significante – “l’epoca anticària” non
dice nulla.
E
i racconti sono finti di vecchi – sono di come si presume parlino i vecchi, che
si vorrebbero saggi e altruisti ma più spesso invece tacciono. Sull’esempio di
Marquez, ma senza l’inventiva, né il pathos. “Sì, mi attraggono le storie vere
come questa”, si dice il narratore, “compresi i tentativi di reinventare ad
arte per raccontare l’indicibile”. L’indicibile è la nostalgia, che abbellisce
anche l’orrido. Abate ci prova con l’abbandono, che vuole sofferto mentre più
spesso è di sollievo nella realtà – lo ha raccontato nelle opere precedenti,
dell’emigrazione, e del ritorno. L’impressione è che, rimontato, al modo che fu
di “Nuovo Cinema Paradiso”, Eranova meriterebbe il richiamo a Macondo.
Carmine Abate, Un paese felice, Mondadori, pp. 261, ril., €18,50
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