venerdì 1 dicembre 2023

Macondo a Gioia Tauro

Una storia felice e poi infelice. Di Eranova, un paese che non c’è più (c’è il porto di Goia Tauro), e di un amore che avrebbe potuto essere, oltre l’infatuazione giovanile.
Un paese dal nome beneaugurante. In realtà un piccola comunità, minima, un casello ferroviario tra Gioia Tauro e Rosarno, che distano fra loro nove chimlmeltri, con un mare trasparente, grazie a un fondale di sabbia sassosa, o sassolini minuti. Di fronte allo Stromboli – alla parete chiusa del vulcano. Sacrificata una cinquantina d’anni fa, per fare posto a un grande centro siderurgico, progetto poi soppiantato da una megacentrale elettrica a carbone, infine, non sapendosi più che fare, al megaporto di Gioia Tauro. Abate ne fa una Macondo di Calabria, la storia di un destino amaro calato su un borgo felice.
Una fiaba veridica, di un villaggio edenico in riva al mare, abitato da vecchi misteriosi e maghe buone, destinato a dissolversi sotto i colpi di ruspe e draghe. Un “paradiso chjatto e improfumato”, il narratore lo fa dire al proprio padre, avvezzo ai calanchi dirupati del “marchesato”, nel crotonese, dove vive, “dove ti diverti a raccogliere arance, mandarini, limoni, uva, fichi, olive”. Sotto l’ombrello magico dei “Cento anni di solitudine”, qui invece piuttosto vivaci, affollati, e di “Foglie morte”.
Un racconto di personaggi da presepe, il nonno, la nonna, coloro che a fine Ottocento crearono Eranova, e larghe tentacolari famiglie. Con lettere e appelli dei paesani, pochi (i più preferirono i lauti espropri), al presidente Leone, a Andreotti, a Paolo VI e a Pasolini contro il megaprogetto industriale. Con gli eventi di contorno, sul solco de “Gli anni” della Nobel Ernaux: la fuga di Kappler dall’ospedale del Celio, dove Abate faceva il militare, il rapimento di Moro, un incontro fugace a un firmacopie con Pasolini.  
La ricostruzione è precisa, nella toponomastica e nell’onomastica. . Con un “camilleresco” minimo, di termini dialettali reinventati – per lo più italianizzati: pregnanti. Con poche imprecisioni. Forse una sola: il “morsello” il narratore-autore non l’ha mangiato a Eranova, forse a Catanzaro (che è molto più vicina al crotonese, l’area familiare di Abate, ma in Calabria tutto è distante). O due: “Lina mostra a Carluzzo il dito medio” succede nei film americani, qualche decennio dopo, in Calabria ancora no. Alla lettura però è diseguale: molto l’episodico, e il bozzetto. E anche il camilleresco, non sempre è significante – “l’epoca anticària” non dice nulla.

E i racconti sono finti di vecchi – sono di come si presume parlino i vecchi, che si vorrebbero saggi e altruisti ma più spesso invece tacciono. Sull’esempio di Marquez, ma senza l’inventiva, né il pathos. “Sì, mi attraggono le storie vere come questa”, si dice il narratore, “compresi i tentativi di reinventare ad arte per raccontare l’indicibile”. L’indicibile è la nostalgia, che abbellisce anche l’orrido. Abate ci prova con l’abbandono, che vuole sofferto mentre più spesso è di sollievo nella realtà – lo ha raccontato nelle opere precedenti, dell’emigrazione, e del ritorno. L’impressione è che, rimontato, al modo che fu di “Nuovo Cinema Paradiso”, Eranova meriterebbe il richiamo a Macondo.
Carmine Abate, Un paese felice, Mondadori, pp. 261, ril., €18,50

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