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Conoscenza - Dovrebbe renderci virtuosi e virtuìsti,
nel sentire comune. Mentre si sa che può essere anche motore delle peggiori
follie, dall’iprite alla bomba atomica. Soprattutto la conoscenza scientifica,
che si ritiene autoassolvente, anche nelle peggiori infamie. In certe civiltà
in certe epoche è stata considerata pericolosa e proibita. C’è un limite a
tutto, come si suol dire, anche alla conoscenza.
Crisi – Non è un dato esterno, è
soggettiva. Anche in economia, dove più
è ricorrente. O in politica: si labella crisi, e si vive come crisi, uno stato
di pace, mentre in guerra si opera, con impegno, per la pace. Si vive in crisi
come condizione generale , continuativa - ricorrente. Perfino “sistematica”,
checché s’intenda con ciò dire: dei tempi, dell’epoca, più che del sistema
propriamente detto, di potere, economico - oggi entrambi sicuramente,
“oggettivamente”, migliori, più democratici, più affluenti, per il maggior
numero. Si direbbe una condizione generalizzata di depressione psichica, di
indebolimento delle difese per sovrabbondanza (l’abbondanza non è mai
eccessiva, ma sì nelle abitudini di consumo, oggi sicuramente eccessive: troppe
cose, troppo ricambio, troppo consumo - troppo nel senso del numero,
dell’effimero, dell’affastellamento, senza più alcun criterio di qualità,
durata, risparmio). Oppure un’ideologia.
Il
futuro è sempre speranza. Oggi è pauroso
ma per effetto della cultura della crisi, che ci attanaglia. Accompagnandosi,
ironicamente, all’ideologia del migliore dei mondi possibili. E non solo
all’ideologia, bisogna dire: curiosamente, si vuole senza futuro l’epoca del never had it so good, del mai stati così
bene, nella sanità, nel reddito, nella convivenza civile, dentro e fuori le
nazioni, nei diritti – perfino in Africa, niente a che vedere con quella di
trent’anni fa. Una cultura che, volendo razionalizzare, serve per tenere il
morso stretto, per tenere a bada queste masse sempre più enormi sempre più
affluenti. Anche sotto il profilo affaristico, bieco: per obbligarle a
spendere, anche a debito, per un “futuro migliore”. Il futuro migliore, cessato
ogni empito rivoluzionario, o illusione, è oggi una automobile elettrica, il
doppio dell’attuale, come ingombro e come costo. E coibentazioni che tolgano il
respiro ai muri e alle imposte, e agli inquilini.
Ennui – È la
bandiera dei letterati francesi a metà Ottocento, compreso lo storico Guizot.
Uno stato d’animo presunto più che vissuto o sofferto, condiviso da Baudelaire
e Flaubert, che ne farà il motore di “Madame Bovary” – entrambi processati , quasi
in contemporanea, nel 1857, per oscenità, quindi perché in qualche modo
stuzzicanti, e non annoiati e noiosi. “La noia dunque, la noia universale, ecco
il male, e per servirci di una parola noiosa, il male costituzionale, del XIXmo
secolo”, Barbey d’Aurevilly.
Baudelaire
progetta nel 1852, o 1853, un libretto d’opera,”La Fin de don Juan”, di cui dà
questa sinossi: “Il dramma si apre come il «Faust» di Goethe. Don Giovanni passeggia
nella città e nella campagna col suo domestico. È in vena di familiarità – e
parla della sua noia mortale e della difficoltà per lui insormontabile di
trovare un’occupazione o dei godimenti nuovi. E confessa che qualche volta gli capita
di invidiare la felicità spontanea degli esseri inferiori a lui”.
Ma
è piuttosto acedia che noia, come viene solitamente tradotto. Assenza di stimoli,
senso di solitudine anche in compagnia, di sconforto anche a feste, balli, pranzi,
e inerzia. Del genere più vasto delle malinconie di Burton, in realtà dell’insoddisfazione
di sé.
Ignoranza – Appare
la condizione iniziale, alla preluce dell’essere. Una tabula rasa. Sembra ovvio
ma non lo è. Per l’evidenza dell’esperienza. È un rifiuto. O accettazione passiva.
Un percorso umano per diminuzione invece che per incremento.
È
liberatoria quando è riconosciuta, si riconosce - “non so”, “so di non sapere”.
Ma in questo caso è già una forma di conoscenza, per di più raffinata,
socratica” - ironica, contestativa. Non lo è comunque nella pratica, quando è
opposta all’apprendimento, La conoscenza
è infatti sempre discriminatoria – complessa: riflessiva, congetturale, pratica
(comprovata) – e in continua trasformazione. Al contrario dell’ignoranza, che,
se non sempre è tirannica o punitiva, però si vuole assiomatica e quindi (potenzialmente)
dannosa (limitativa) – il so di non sapere è privilegio dell’intelligenza.
Quando
è segretezza, si vuole positiva – giusta, benefica. Si vuole giustizia, ben fatta:
il voto segreto, il confessionale muto – e anche Dio si vuole sia nascosto. Ma
in questi casi non per mancanza: per una speciale connotazione dell’essere-evento.
La conoscenza, come opposta all’ignoranza, è “sapere”, per dirla con Confucio,
“sia quel che si sa sia quel che non si sa”.
Opinione
pubblica – Ne fu studioso e analista Flaubert, in termini spregiativi,
come senso comune, o delle frasi fatte. “Bovary” e la vastissima corrispondenza,
nonché il “progetto di una vita”, delle “Idee ricevute” , o frasi fatte, in parte
traslato in “Bouvard e Pécuchet”, vertono sull’opinione. Il progetto di
“prefazione” del “Dizionario delle frasi fatte” Flaubert descriveva a Louis
Bouilhet in questi termini: “Sarebbe la glorificazione storica di tutto ciò che
si approva. Vi dimostrerei che le maggioranze hano sempre avuto ragione, le
minoranze sempre torto. Immolerei i grandi uomini a tutti gli imbecilli, i
martiri a tutti I boia”. Una strategia ironica, intesa a scombinare a l’impero
dell’ “opinione”. Antidemocratica: un svilimento ironico dello spazio pubblico
democratico, la grande invenzione politica dell’Ottocento. Di cui intende
mettere in rilievo i limiti, i vincoli, la “mediocrità”. E soprattutto il
conformismo, sotto la chiave della democrazia: della maggioranza che comanda,
dell’obbedienza alla maggioranza. Nel migliore dei casi, una eccentricità: “Questa
apologia della canaglieria umana su tutte le sue facce, ironica e urlante da un
capo all’altro, piena di citazioni, di prove (che proverebbero il contrario) e
di testi inquietanti (questo sarebbe facile), sarebbe al fine, direi, di
finirla una volta per tutte con le eccentricità, quali che siano”. Contro l’errore
dell’ugualitarismo: “Entrerei nell’idea moderna di eguaglianza, nel detto di
Fourier che “i grandi uomini sono inutili”.
Presepe – Quello
di san Francesco, delle origini, senza il Bambino Gesù, in una culla vuota e
due animali di contorno, il Bue (ebraismo) e l’asino (paganesimo), è la
rappresentazione della presenza-assenza della divinità. Quello in uso,
“napoletano”, delle tante e varie figurine, a cominciare da Maria, è invece una
rappresentazione dell’umanità.
Elisabetta Moro, “Il
Vangelo in dialetto”, ci vede la cifra dell’appropriazione particolare,
localizzata, della Natività e della religione: “”L’idea geniale di Francesco è
che ovunque ci sia una mangiatoia lì c’è
Betlemme.”. La Natività viene così trasportata nelle nostre terre e nelle nostre
case: “La sacra famiglia migra verso altri lidi e assume anche i tatti somatici
di altre genti”: in Sicilia dei pupi, in Tirolo è alpestre, in America Latina i
costumi sono andini, in Africa gli animali selvaggi fanno da sfondo, a Napoli
il Vesuvio e le rovine di Pompei: “Di fatto il presepe diventa un plastico del
dogma teologico della Natività”.
Storia - È
l’essere del tempo.
La storia procede (viene?)
mascherata. Non di suo, la storia è inerme - un palcoscenico aperto. Ma si
riflette negli occhi di chi la guarda - bramosi, concupiscenti, cinici, bari
(anche equanimi, rispettosi). È un corpo desiderato, arrendevole
zeulig@antiit.eu
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