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Verdi fa Shakespeare romantico
Una
sorta di manifesto di Verdi nella maturità, che, grazie al dramma creato da
Schiller, può mettere assieme l’amato Shakespeare, dei caratteri forti, la violenza
del potere, e il romanticismo d’obbligo – l’amore, l’amicizia, la sofferenza,
la morte. Per una messinscena che lo rende tutto, questo doppio binario: lo mostra, lo amplifica, cattura
lo spettatore. Il dramma fa commovente. Nelle arie, “Ella giammai m’amò”, i
duetti armonici, e di più nei numerosi passaggi concitati, irruenti, travolgenti,
anche in duo, o a tre, quattro e cinque voci, senza soverchiarsi l’un l’altro e
senza cancellarsi, nella giusta misura, ognuno per sé irato, perplesso,
commosso. Musica appassionante, di cui il maestro Chailly sembra non aver
disperso un accento.
Luis
Pasqual non ha imposto, ha servito una regia, monumentale e intimistica. Come,
osserva giustamente, è nel cliché di
Verdi, che alterna il kolossal all’intimistico – la personalizzazione
romantica ambienta nel grand opéra storico: masse statiche, solo mosse dalle luci, su
fondali cupi, come solo potevano essere. Di cui propone una chiave tanto
semplice quanto accattivante: l’Escurial, il palazzo-prigione di Filippo II,
a metà tra il conventuale e il carcerario. In armonia con i costumi in nero –
quante variazioni offre il nero - di Franca Squarciapino. Il “cast colossale” della
promozione ha dato il meglio di sé – anche se Netrebko, forse perché un po' matura
per fare la donzella (ma sono i librettisti che non distinguono, la fanno “madre”
per don Carlo, mentre è una giovine francese promessa sposa dal padre monarca al
monarca di Spagna), si spara all’ultimo atto tutto il colossale, amplissimo registro
di voce – per quanto soprano a volte delicata.
Giuseppe
Verdi, Don Carlo, Teatro alla Scala
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