sabato 7 gennaio 2023
Eurodiktat(ura)
Richiesto di un parere sulle critiche alla Bce per il caro denaro Mario Monti lascia giustamente presumere di peggio, poiché i tassi d’interesse sono ancora ben al di sotto dell’inflazione, ma nel merito consiglia il silenzio. È meglio non criticare apertamente, dice, si sollevano dubbi e timori sull’Italia.
La guerra di Putin fa grande Erdogan
Una
politica economica sbagliata, l’inflazione al 100 per cento, o poco meno, la
lira turca allo sbando, in un anno ha perso l’85-90 per cento del valore contro
l’euro, il voto presidenziale di giugno non si presentava bene per Erdogan. La
guerra di Putin potrebbe averlo salvato: ha rilanciato gli affari, e la figura
dello stesso presidente, l’unico politico che in qualche modo può proporsi a
mediatore nel conflitto – può provarcisi con qualche carta in mano.
La
Turchia è naturalmente coinvolta nel conflitto, come paese rivierasco con interessi
sensibili nel Mar Nero. Pur facendo parte della Nato, non ha adottato le
sanzioni contro Mosca. Ma si attiene al principio delle sanzioni, evitando le
triangolazioni, almeno per i prototti sensibili, i materiali high-rtech (semiconduttori,
transistor, parti di aerei o altri armamenti). Ma dall’inizio della guerra ha
potuto fruire per i consuimi interni di prodotti petroliferi e di gas dalla
Russia a prezzi di realizzo, portando Mosca al primo posto come fornitore nella
bilancia commerciale. E pur rispettando le sanzioni euroamericane, ha accresciuto
l’export verso la Russia di circa il 50 per cento.
Cronache dell’altro mondo – censorie (240)
La Harvard Kennedy School ha prima dato una cattedra all’ex capo
di Human Rights Watch, Kenneth Roth, che l’osservatorio ha creato e presieduto per trent’anni,
e poi gliel’ha ritirata. Senza un motivo. Che però si sa essere stato le pressioni dei finanziatori
di Harvard più legati a Israele: Roth ha criticato in passato Israele in occasione di alcune
attività contro i Palestinesi.
“Abbiamo discusso per una mezz’ora col decano della scuola”, ha
detto Roth, e alla fine mi ha chiesto se ho dei nemici. Ma non ha voluto sapere come e quando
sono stato attaccato dalla Cina,
dalla Russia, dal Ruanda o dall’Arabia Saudita, voleva solo
sapere: qual è la mia posizione su Israele”.
La Kennedy School annovera fra gli allievi più capi di Stato e di
governo di organizzazioni consimili, o ministri, alti ufficiali o parlamentari.
“The Nation” e “The Guardian” elenacno alcuni grossi finanziatori
della scuola legati a Israele.
Altre importanti università hanno bloccato in passato nomine e
riconoscimenti ad accademici critici delle politiche israeliane verso i Palestinesi. Tra esse la City
University di New York, che ha cancellato un premio al drammaturgo ebreo Tony Kushner dopo che fu
accusato di essere anti-Israele.
Così nacquero le “Cosmicomiche”
Poco comiche, molto fantasy. Così Calvino ne spiegava genesi e impianto, seppure ancora molto vago, per lettera alla futura moglie Esther Judith Singer, “Chichita”, in una lettera dell’11 novembre 1963, pubblicata oggi sul “Robinson”, da casa dei suoi, a San Remo: “In questi giorni a San Remo mi sono rimesso a scrivere quel racconto che mi porto in testa da moltissimi anni e che ho cominciato a scrivere solo il giorno del mio 40° compleanno a casa tua (un mese prima, il 15 ottobre, n.d.r). Veniva fuori abbastanza, anche se le mie idee sono abbastanza vaghe, ma ci mancava qualcosa che volevo dargli e che non so bene cos’è: qualcosa come una dimensione cosmica. Per farmi venire questa dimensione cosmica mi sono messo a sfogliare un libretto di divulgazione astronomica, poi a leggere le voci Cosmogony e Cosmology dell’Encyclopedia Britannica. Così mi sono venute delle altre immagini, delle altre idee e allora – messa da parte l’idea di quel racconto – mi sono messo a studiare un altro progetto: una serie di storie cosmicomiche, un nuovo genere letterario, “comicosmic” in inglese, “série comicosmique” in francese, che sta tra le comics di Popeye, Beckett, la science-fiction, Landolfi, Jules Verne, Borges e Lewis Carroll. Ma devo ancora provare a vedere come vengono”. Vissuto per quaranta anni nella natura, con un padre agronomo, la madre botanica, in una grande villa, Calvino aveva bisogno di astrazione - fino alla concettosità.
Italo Calvino, Le
cosmicomiche
venerdì 6 gennaio 2023
Cretinismo governativo
Un giorno
un ministro, poniamo Crosetto, si bea a criticare la Banca centrale europea in
un’intervista col massimo giornale di opposizione, “la Repubblica”. Che il giorno
dopo naturalmente riempie le pagine di critiche e sberleffi alle sue
esternazioni. Ma Crosetto insiste, e il giorno successivo, cioè oggi, vanta sul
“Corriere dela sera”, pur essendo un mite, il diritto del governo a usare il machete
tra i funzionari pubblici alti in grado. Facile prevedere gli sberleffi
domani al senso dello Stato del ministro della Difesa.
E non si
capisce. Non si capisce perché un ministro s’impantani in giornali di opposizione.
Si affatichi per aprire loro varchi e anzi autostrade di critica. Quale può
essere la ragione?
Usa per i
deputati - usava, quando si citava Marx – la categoria del “cretinismo
parlamentare”, “malattia che relega chi ne è colpito in un mondo immaginario,
togliendo ogni senso, ogni ricordo, ogni comprensione del rozzo mondo esterno”.
Sarà così anche per i ministri?
Si trova
la categoria di Marx nel saggio “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”, 1852.
Crosetto ha in mente un 18 Brumaio (il 18 Brumaio, 9 novembre 1799, Napoleone
fece il colpo di Stato contro il Direttorio)? Questo è da escludere, Crosetto essendo, oltre che un mite, il patrono, e un fedelissimo, del presidente del consiglio. Ma allora?
Cronache dell’altro mondo – giudiziarie (239)
A due
anni dall’assalto al Congresso, l’Fbi non ha determinato se l’attacco fu
organizzato, e da chi.
Per
l’assalto al Congresso un migliaio di persone, 964, sono state arrestate. La
metà delle quali avrebbe ammesso di aver partecipato all’irruzione.
Un
documento parlamentare denuncia l’ex presidente Trump di avere organizzato e
ordinato l’assalto. Un documento della Camera dei Rappresentanti della legislatura
conclusa il 5 novembre, quando ancora la maggioranza era Democratica, cioè
anti-Trump. Un documento politico, senza valenza giurisdizionale. Ora si cerca
un giudice che faccia proprie le conclusioni del documento Democratico.
Il deserto sul mare – una parabola del Sud
Una pioggia di
sabbia provoca una curiosa situazione di isolamento, fisica e psicologica.
Curiosa perché, leggendone adesso, è una sorta di prequel del covid: un
evento subito mortale, che molte coscienze travia, e al fondo inspiegato,
malgrado le tante spiegazioni. Con fenomeni analoghi: le fughe in massa, con i
treni, le automobili, l’incetta di beni di consumo, la mobilitazione dell’esercito
a mo’ di cordone sanitario, e anche un po’ di malvivenza – qui parecchia.
“L’assedio” è il
terzo romanzo di Rocco Carbone, già affermato critico letterario, destinato a
una morte prematura da incidente in motorino, pubblicato venticinque ani fa.
Ambientato nella “città di R.”, Reggio Calabria. Un thriller - malgrado
il titolo enunciativo - letterario. Duro, sebbene su un fondo di speranza:
l’orizzonte è ristretto, anzi chiuso, cupo, il tempo fermo. Ma giocato con
maestria.
“Non ci resta che
aspettare”: la sopravvivenza cambia con gli umori anche i registri. La speranza
è del futuro, ma per questo bisogna sopravvivere: “Quando la nostra vita di
ogni giorno, le nostre piccole convinzioni morali, i nostri affetti familiari e
le abitudini non servono più a farci sopravvivere, tra non fare il bene e fare
il male c’è una differenza sempre più sottile, che può annullarsi del tutto”,
ammonisce Retez, il prete. Dal mondo che si trasforma in una prigione, naturale
e umana – i banditi hano preso il controllo della città. Ma non bisogna
disperare: Retez, tra i più colpiti dall’evento, continua a pregare.
Un “conte
philosophique” sul solco di Camus, “La peste”, più che di Buzzati, cui è stato
avvicinato, “Il deserto dei tartari”, o di Kafka – “L’assedio” è un racconto di
personaggi umani, che interagiscono, non un racconto di visioni o di
situazioni. Con lo stesso passo ordinario-straordinario della “Peste” di Camus.
Anche se di senso anti-Camus, contro il Camus de “La speranza”, che la
nega.
Il richiamo è
anche nell’ambientazione: la “città di R.” è come Orano, digradante sul mare. E
delle due città il racconto è anche, indirettamente, di un ritorno. La
geografia della “città di R.” è quella di Reggio Calabria, dove Carbone, nato e
cresciuto in un paesino dell’entroterra, Cosoleto, fece gli studi da
adolescente. Un’ambientazione come un’immedesimazione. Totale, malgrado la
formazione cosmopolita (Carbone si era addottorato alla Sorbona), dell’autore
con le origini. Un “ritorno” qui rafforzato dal linguaggio: dalle cadenze, e da
alcuni idiomatismi. “Nel Dio che non può vedere la violenza”, p. 19, usa vedere
nel senso locale, dialettale, di sopportare, accettare. O: “Che vuol dire?” nel
senso di “Che vuole dire?”.
Lo stesso che in
Camus, parigino da oltre un decennio, che nel 1947 ritorna con “La Peste” a
Orano. in Algeria, la città
dell’infanzia e della fanciullezza. Altra città occlusa benché di mare, come
R.. Con figure analoghe, il prete e il dottore. E con l’incertezza, e il
timore, di qualcosa sempre di peggio. Con un di più, in Carbone, che l’assedio
può configurare realisticamente: come è, o è stato, della “città di R.” avvinta
sotto la sabbia e anzi governata dai “banditi”, dalla mafia. Nel racconto come
di fatto avviene – è avvenuto: l’esercito (le forze della repressione) in
attesa, fuori città, la città controllata dai violenti armati, con soprusi di
ogni genere – basterà un raggio di sole per disperderli, e così probabilmente
potrebbe essere.
“La peste”,
romanzo postbellico, fu letto come una prefigurazione della guerra appena
conclusa, un po’ come oggi si può dire de “L’assedio” rispetto alla pandemia –
o, localmente, all’assedio della malavita (una sorta di parabola del Sud se ne
potrebbe trarre). Ma più forte l’eco viene dal senso di claustrofobia che la
narrazione suscita, che segna la città dal vivo, dal vero, malgrado l’apertura
digradante, caratteristica delle città di mare, e le fondamenta solide,
post-terremoto, delle abitazioni. Come di un destino solitario, chiuso
piuttosto che aperto dall’orizzonte vasto, le spalle al resto del mondo. In
questo caso, della “città di R.”, il senso di claustrofobia che la narrazione
sviluppa, a prima vista incongruo in una città aperta sul mare, corrisponde al
modo d’essere della città, come chiusa in se stessa, voltando le spalle al
retroterra – effetto forse della storia della “città”, fino a pochi decenni fa
ancora agglomerato di paesi e comunità di piccola consistenza.
Un racconto allo
stesso modo che in Camus “filosofico”, benché non astratto. L’aneddoto
ispiratore è semplice: piove sabbia sullo Jonio occidentale e il basso Tirreno
nei giorni di scirocco (termine usato impropriamente: lo scirocco è vento di
Sud-Est, “siriaco”, mentre la sabbia sulle coste italiane tra Jonio e Tirreno -
qualche anno fa anche a Roma - è estensione del ghibli, il vento del deserto
libico). Come quando c’è la peste, che non si sa da dove viene – né quando e
come finirà. Sulla traccia - inavvertita?
- di Nicola Pugliese “Malacqua”, di Napoli sommersa dalla pioggia.
Rocco Carbone, L’assedio,
Rubbettino, pp. 197 € 18
giovedì 5 gennaio 2023
Problemi di base - 329
spock
“Può
un uomo, senza volerlo e senza saperlo, essere delittuoso e andare quindi
soggetto a tutte le conseguenze del delitto”, Domenico Comparetti, “Edipo e la
mitologia comparata”?
“Una
fatale combinazione può, indipendentemente dalla volontà, spingere a commettere
delitti gravissimi”, id.?
Indipendentemente
dalla responsabilità? Anche legale, giuridica?
“Si può anche commettere un omicidio senza fare nulla”, Elisa
Grimi, “The Dragon lady”, p. 41?
“L’amore è di solito una faccenda uno a
uno, e mortale”, Joshua Chen, “I Netanyahu”, p. 68?
spock@antiit.eu
I dolori della maternità
Un film teso,
benché troppo lungo, e alla fine inconcludente. Il racconto lungo di “Elena
Ferrante” dallo stesso titolo è di una “professoressa d’università” che in
vacanza nel Sud Italia, guardando le famiglie che la attorniano sotto gli ombrelloni,
rivede a sprazzi il suo passato di madre, amorevole e non, e di donna con
ambizioni e voglia di coltivarle, compresa quella del piacere fisico, sessuale.
Una ambizione più che giustificata in quanto esito di dura applicazione, per
uscire da un ambiente familiare di origine degradato – i personaggi femminili
di “Elena Ferrante” hanno questo stigma. Si giustifica così il titolo, “oscura”
(“lost” nella traduzione americana), e il personaggio al centro della
narrazione come figlia, non come madre, quale invece il racconto ce la propone.
Maggie Gyllenhaal,
della “famiglia Gyllenhaal”, gente di cinema, una famiglia unita, con i figli
spesso attori nei film del padre Stephen, a lungo attrice premiata, all’esordio
alla regia si dà un compito forse eccessivo, benché coadiuvata da interpreti
eccezionali, Olivia Colman, Dakota Johnson, Jessie Buckley - e da caratterizzazioni
felici, Ed Harris l’affittacamere, Paul Mescal lo studente bagino, e lo steso marito
della regista, Peter Sarsgaard, professore rubacuori. L’esito è pasticciato. Un
incontro molto italiano fra madri e figlie, fra Nord e Sud d’Italia, diventa
un incontro tra americani, dell’Arizona, del Queens newyorchese, di altre
provenienze remote, in un’isola greca. Il racconto drammatico
della maternità schiacciata fra i doveri e la fatica, e le ambizioni (la
carriera) e il piacere proprio, scivola in un’opposizione di caratteri. Non è un riesame di coscienza, fra ricordi belli e brutti,
la donna più padrona di sé era e resta confusa. Per una sceneggiatura (cui “Elena
Ferrante” non ha partecipato) e un montaggio affastellati - di scene anche belle ma poco congruenti. Poco congruenti soprattutto
i contorni americani. La camminatrice per diporto (Alba Rohrwacher) finita a bussare
alla sua casa sperduta nell’Arizona, che nel tempo di un breve pasto diventa musa
e ispiratrice della protagonista giovane. Di cui niente lascia presumere una
famiglia d’origine “divorante”. Il seminario-pranzo all’università che la converte
frenetica al letto del suo estimatore. I vicini di ombrellone nell’isola greca,
greci del Queens, “gente poco raccomandabile”, che sono invece amabili e di
mondo. Le ambiguità del Sud italiano sono difficili da trasporre in America.
Maggie Gyllenhaal,
La figlia oscura, Sky Cinema
mercoledì 4 gennaio 2023
Secondi pensieri - 501
zeulig
Inferno – “Lei non sapeva che l’Inferno è l’assenza”, Paul Verlaine, “Jadis et naguère”. Questa che sembra una agudeza, immaginare il castigo eterno come un’assenza, un vuoto, è però ciò che di infernale si sperimenta in vita, di ansia, paura, dispetto – il dolore fisico, la sofferenza, è altro che l’inferno inamovibile, è combattimento, per quanto disperato.
Noia - Vecchio tema francese, di Baudelaire (spleen), Flaubert, Verlaine - non Balzac, non Zola. Letteratura, dei letterati che non sanno che fare nel tempo libero. Ripreso da Moravia, per il quale era caratteriale - era uno che s'annoiava subito, anche con le donne, che amava frequentare a preferenza degli uomini, anche con amicizie o relazioni stimolanti, Pasolini, compagno di vacanze e di cene, Gadda.
La noia come stanchezza psichica, anche morale,
malinconia vaga, nevrastenia, spleen, depressione, languore, tristezza,
debolezza. Sainte-Beuve la imputa a Chateaubriand – “Chateaubriand ha come
generato questa noia incurabile, malinconica, senza causa… il male di René”. Ma
è materia vecchia, patristica: accidia, acedia.
Si fa grande caso dell’ennui di Baudelaire e dell’ennui di Flaubert, che furono però autori
di molte migliaia di pagine. Moravia, autore de “La noia”, è forse il più prolisso
scrittore italiano. Infaticabile, giorno dopo giorno.
Politiche identitarie – “Politiche del risentimento” le
voleva Harold Bloom - Joshua Cohen, “I Netanyahu”,
p. 269. Cui però non dava senso negativo: “Trovo curioso”, diceva, “che tanti
dei nostri
autori migliori considerino il «risentimento» come intrinsecamente negativo”.
Risentimento – È forse il tema più pensato in
questo Millennio. Con un senso di angustia, essendo esso
soprattutto il rovescio – o l’esito - delle “magnifiche sorti e progressive”. Ma
Leopardi, due secoli fa,
ne era immune? È la cartina al tornasole dei limiti del Millennio, dell’incapacità
di pensarsi,
dopo la lunga stasi creativa del postmoderno che ha chiuso l’esuberante –
creativo\distruttivo
- Novecento.
La trattatistica sul risentimento è affollata sulla traccia di Girard. Ma
è il tema probabilmente più diffuso, se non pensato, da Omero in poi, nella
letteratura cioè oltre che nella vita – la prima violenza fra esseri umani
nasce dal risentimento.
Sinistra
– Quarant’anni
fa un lungo saggio in due puntate sul “New Yorker” lanciava la parola e il Concetto,
la globalizzazione, e apriva il mondo a un’economia senza più barriere. Niente
più dazi né contingenti,
e investimenti liberi di passare tutte le barriere, comprese quelle, ancora nobilmente in
vigore, del comunismo. Erano gli anni di Reagan e di Thatcher, e di Milton
Friedman, che
teorizzavano
e praticavano il liberismo senza limiti. E la ricetta si accettava come “più
produttiva” anche
dagli economisti keynesiani, sempre piuttosto sospettosi verso l’arricchitevi. Dalla
Cina Deng Hsiao
Ping rispose con le quattro modernizzazioni, dell’agricoltura, l’industria, la
tecnologia e la difesa, al
fondo e al capo delle quali stava il confronto internazionale dal Grande Balzo
maoista alla Grande
Apertura - al teorema ricardiano della maggiora ricchezza attraverso i maggiori
scambi.
L’organizzazione
“americana” del Wto, del commercio mondiale, fu subito aperta ai nuovi entranti – sola esclusa
la Russia. Gli investimenti in un fiat si delocalizzarono (metà del ciclo
produttivo
tedesco,
più o meno, si svolge oggi in Cina), quasi tutte le “catene di valore” (le reti
produttive) passarono
in capo alla Cina, ai grandi centri asiatici di produzione. La produzione e il
lavoro nelle aree già
industrializzate furono rivoluzionati. Nei soli anni 1990 l’Italia contò tre
milioni, almeno tre
milioni, di licenziamenti, tra i cinquantenni e più. All’insegna della
riduzione dei costi. Verso il basso, irraggiungibile, baricentro asiatico – si passò dal lavoro fisso al lavoro
mobile, esterno, a cottimo,
a ora.
Il mondo ha vissuto, sta
malgrado le tentazioni protezioniste ancora vivendo, un fatto politico
rivoluzionario. La globalizzazione è la rivoluzione che non si dice, mondiale,
radicale: ha portato due terzi dell’ex Terzo Mondo, povero e senza armi, tutta l’Asia
e due terzi dell’America Latina, tre, forse quattro, miliardi di persone, dalla
povertà all’affluenza, in pochi anni. Un evento senza precedenti. Su strategie
e a opera della politica più conservatrice e nell’ottica degli interessi monopolistici,
finanziari, industriali, commerciali, perfino delle professioni libere.
La sinistra non ha
ispirato questa rivoluzione. Non l’ha governata. Non ha saputo. Forse non se ne
è nemmeno accorta – l’opinione in Europa è sempre autoreferenziale. Ha solo
patrocinato, mosca cocchiera, le trasformazioni che i monopoli hanno imposto.
La disgregazione, anche legale, normativa, del mercato del lavoro –
specialmente radicale in Germania. La liberalizzazione del commercio e di ogni
altra attività secondo gli indirizzi e gli interessi delle forze monopolistiche
del mercato. Ha perfino, non richiesta dalla globalizzazione ma nell’ottica del
minor costo, indebolito, quando non liquidato, le politiche sociali, la
sanità, l’istruzione, la ricerca scientifica.
La rivoluzione mondiale, storica, della
globalizzazione, si è peraltro prodotta in un’ottica produttivistica del “minor
costo”, che di fatto è solo uno slogan, chiunque lo vede. Anche dal punto di
vista produttivista. Si riducono i salari e si aumentano i prezzi. L’inflazione
che oggi si registra contabilmente è stata forte anche negli anni passati, per
tutti i generi di prima necessità, e anche per le abitazioni e i trasporti – e per
i concerti, dirà uno scanzonato Gaber. “Destra e sinistra”, a scempi già compiuti,
nel 994: “Il concerto nello stadio è di sinistra,\ i prezzi sono un po’ di
destra”. La “crisi fiscale” dello Stato che in contemporanea col lancio della
globalizzazione fu teorizzata e decretata sembra non avere fine. Ma questo è
segno e colpa della sinistra politica, che lo Stato sociale ha teorizzato e
realizzato (lo ha realizzato per primo Bismarck, mezzo secolo prima del
laburismo inglese, ma incalzato da un forte partito Socialista - il cancelliere di ferro fece una elezione, nel 1878, e poi una serie di leggi eccezionali, contro i socialisti, i giornali, le manifestazioni, ma si approprio di buona parte del loro programma).
Bobbio voleva la coppia
destra-sinistra una sintesi di differenti assiologie. Di differenti, opposti, canoni
filosofici interpretativi della realtà - ma sarebbe meglio dire ordinativi della
realtà. Come se la politica fosse progettuale. Ma non per un fondo di idealismo?
La politica è progettuale per fatti concreti, di conquista e conservazione del
potere.
Questo tipo di alterità costringe anche a interminabili
acrobazie intellettuali – la lettura dei giornali ne è asfissiata – per fare le
parti politiche. Si può tuttavia accettare questa impostazione, se non altro
per motivi storici, per essere stata il nostro passato prossimo. La partizione
sintetizzando fra una destra individualista che coltiva e impone l’interesse
proprio, di classe, e una sinistra di classe che invece cura quello sociale, la
solidarietà cercando nella perequazione. Una partizione ambigua, fra interesse
e solidarietà, e rovesciata, fra individuo e classe,
Si tralascia il rovesciamento di fronti tra
sfera privata e libertà di giudizio. In troppi casi la sinistra avendo fatto
proprie le inquisizioni, anche di interessi e ambienti squalificati come le cronache
giornalistiche di nera e giudici malavitosi, con le tipologie del terrore di Rrobespierre:
le voci (intercettazioni, indiscrezioni), la denuncia, il falso processo, l’esecuzione.
Con vittime martiri, come il giudice Falcone – per non dire del “fascista”
Borsellino.
Questa è debolezza mentale. Culturale ma perché
è mentale. Anche se si radica in una cultura politica del tanto peggio tanto
meglio, e del “popolo eletto” berlingueriano. Che politicamente si è stato un
suicidio di massa. È una deriva, cioè, molto circoscritta al caso Italia, alla
vita politica avventurosa della Repubblica, che per cinquant’anni è stata
confrontata da un partito Comunista fortissimo, e ferreo, che alimentava la
cultura del sospetto. Sul modello sovietico. Dalla quale l’Italia non riesce a
liberarsi, benché il sovietismo sia morto e sepolto.
Ma è una deriva attiva, e anzi crescente, anche
negli Stati niti, senza nessuna ombra di sovietismo. Nel nome di “diritti” di ogni
specie, intolleranti benché limitati e limitatissimi. Quasi sempre superati dalla
realtà – non c’è “diritto” non riconosciuto e applicato. Ma alimentati da una
cultura curiale, avvocatesca – del patrocinio gratuito, a percentuale. Parte della
deriva generale che l’ideologia del mercato (globalizzazione) ha impresso a quella
che si può dire una prima forma di “cultura mondiale”.
(fine)
zeulig@antiit.eu
Camilleri riedito
Due inediti: “Samuele
detto Leli” è il compagno ebreo di scuola, che a un certo punto scompare. “La prova” sono le
pene d’amore di Nené al liceo, con una compagna che gli dà tutto, ma poi si dà
a tutti. E quattro racconti sparsi: “L’uomo è forte”, “I quattro Natali di
Tridicino”, “La tripla vita di Michele Sparacino”, e “La targa”. Gli ultimi due
in realtà già pubblicati in volume, da Rizzoli, il primo con Camilleri in gustoso
dialogo con Francesco Piccolo, che prendeva la buona parte del volume, il
secondo in dialogo con Giuseppina Torregrossa. La quale voleva, nientemeno,
convincere il Maestro che non è vero che le donne eccitano gli uomini, gli
uomini sono porci senza bisogno di allettamenti. Ma, bisogna dire, Camilleri, prono
a ogni correzione politica, su questo non si è piegato.
“La targa” è un apologo, ghino, ino ino, sull’Italiano
pusillanime: imbroglione, violento, voltagabbana, e sempre fascista. Su fondo
boccaccesco, la donna non è da meno: la “biddrizza da fari spavento”,
venticinquenne vedova, vedova due volte, riceve in casa, ogni amante un giorno.
La “tripla vita” è quella che Sparacino, il
signor Nessuno, non ha avuto, non ha potuto avere, per la
stupidità e l’insolenza dell’“Italia”: colpevole di ogni misfatto quand’era in
fasce, insolentito e minacciato quando in guerra obbediva da eroe, Milite
Ignoto al Vittoriano esumato dalla sepoltura anonima. Un “timpuluni”, avrebbe
detto Montalbano-Camilleri, una sberla all’Italia che allora si celebrava, nel
2011, quando il racconto fu pubblicato.
Il racconto
del titolo è più scontato, ma più articolato. È l’anno scolastico 1937-38, al liceo di Camilleri l’insegnante di
religione e quella di scienze insolentiscono Samuele Di Porto, che
individuano come ebreo. Il quale, dapprima incredulo, non sapendo di essere
“ebreo”, si prende poi raffinate vendette. Finché l’anno dopo le leggi di
Mussolini non lo escludono da scuola, il papà capostazione perde l’impiego e la
famiglia scompare, forse in Calabria, di cui il padre era originario.
Il racconto copre il buco delle leggi azziali,
nell’antifascismo di Camilleri a tutto campo. Ma gli serve anche per scagionare
l’amato padre, “fascista e marcia su Roma” ma per bene.
Andrea Camilleri, La guerra privata di Samuele e altre storie
di Vigata, Sellerio, pp. 272 € 15
martedì 3 gennaio 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (512)
Giuseppe Leuzzi
Ricorre nei film e in qualche racconto la
storia delle “buste” ai matrimoni, degli invitati che regalano agli sposi una
somma. Come un folklorismo, un esotismo. Ripreso tra il gioco e il disprezzo.
Ma è - era – l’uso del bar-mitzvah, la cerimonia della confermazione religiosa degli adolescenti ebrei. L’uso meridionale è derivato dall’uso ebraico?
“La noia è l’assenza di una città”, diceva Verlaine
in qualcuna delle lettere dall’esilio cui la madre lo aveva confinato, da una
zia in campagna. Non al Sud. Non, almeno, fino a qualche anno fa: la carenza di
spettacoli o altri diversivi urbani è – era – compensata dale parentela, dal
vicinato, dal calendario familiare e agricolo, e per i ragazzi dalla
stagionalità dei giochi, uno per ogni mese. La mancanza di conglomerati
metropolitani può – poteva – essere perfino benefica.
“Niente si fa per niente”, dicono le
montanare friulane nel film “Piccolo corpo”, e vogliono essere ricompensate,
dalla giovane mamma povera e sola che porta il cadaverino della figlia nata
morta in una scatola di legno a un “santuario del respiro” remoto su in montagna
- un racconto di derelizioni, povertà, fatica, fame, ignoranza, violenza,
seppure nella fede, opera di una regista triestina, Laura Samani. Una battuta
così al Sud sarebbe suonata stonata.
A Simenon occasionale cronista di nera nel
1933, “un pezzo grosso di Scotland Yard” spiega (“Dietro le quinte della
polizia”, p. 53) che la criminalità organizzata fiorisce perché è “protetta”
dalle leggi a “tutela della libertà individuale”. Così è negli Stati Uniti e nel
Regno Unito, e avverrà in Francia che nello stesso anno ha passato ai giudici
ogni indagine, anche un semplice perquisizione: “Con la vostra nuova legge
conoscerete anche in Francia il gangsterismo” (Simenon sottolinea). Mentre prima “la Francia aveva criminali che
lavoravano da soli – le bande organizzate erano rare, e timorose, perché la
legge consentiva una repressione repentina ed efficace”.
L’Italia è stata una nazione prima che uno
Stato. In Francia invece, per esempio, lo Stato precede di molto la nazione. Ma
l’effetto storico è incrociato: la Francia è una nazione salda, l’Italia una
debole, divisa, pericolante, al meglio burocratica (inefficace, incapace).
Lo Stato ha funzione costituente, anche del
sentito nazionale. Il ritardo dello Stato in Italia produce il leghismo
ricorrente. Ma è un problema soprattutto per il Sud: la questione meridionale è
la questione dello Stato – debole, incapace.
Il Parco
degli Ulivi
L’ulivo è dunque il mangiapolveri per
eccellenza. Almeno quello della Piana di Lucca. Uno “Studio per la Piana di
Lucca, 2021-2022”, della Fondazione Carilucca, su un’area maglia nera da molti
anni in Toscana per il PM10, il particolato atmosferico, insomma per
inquinamento dell’aria, individua un certo tipo di vegetazione come la più
adatta a “mangiarsi” le polveri: l’ulivo in prima posizione, con l’alloro,
l’oleandro, la magnolia e il lauroceraso. Questa la conclusione dello studio “Veg – Pm10 – Azioni
multidisciplinari e integrate per il monitoraggio e la riduzione del particolato
atmosferico nella piana lucchese”.
L’Airs, Agenzia Internazionale Ricerche sul
Cancro, denuncia l’inquinamento atmosferico nel Gruppo 1 delle sostanze
carcinogene per l’uomo. Come il più pericoloso. Gli alberi “pulitori” sarebbero
quindi da salvaguardare come patrimonio dell’umanità, terapeutico. La Piana di
Gioia Tauro, un’area da 30 per 40 km. di lato, il territorio di 31 Comuni, a
forte densità arborea, è un “mare di ulivi”, della specie di alto fusto e ampia
e folta chioma. Un paradiso naturale quindi per i residenti, e un polmone
importante per la Calabria e la finitima Sicilia. Perché non si penserebbe la
Piana di Gioia Tauro, che da troppo tempo si vuole centro di mafia, un parco
unico al mondo: naturalistico, produttivo, e terapeutico insieme? L’idea non è
balzana.
“Porto degli Ulivi” è oggi, in territorio
di Gioia Tauro anche se nel comune di Rizziconi, un centro commerciale,
ovviamente ripulito degli ulivi, per esigenze di accessi, parcheggi, megaempori. In
amministrazione fiduciaria perché sequestrato, o confiscato, per mafia. Se il
miracolo si è fatto per un centro commerciale ideato da mafiosi, perché un
Parco degli Ulivi non si saprebbe fare dagli onesti? L’area a più alta
intensità di produzione di olio d’oliva quale è oggi che diventa anche in parco
naturalistico d’attrazione – vivo e produttivo anche nella lunga estate, di
sei-sette mesi, che è la sua stagione morta.
Milano portata dal Sud
“Quello che oggi pensa
Milano, domani lo penserà l’Italia” non l’ha detto un milanese ma Salvemini. Lo
ha detto e scritto, licenziando la sua prima opera, “I partiti politici
milanesi nel secolo XIX”: “Le lotte amministrative milanesi non sono se non
episodi o meglio i prodromi delle lotte politiche italiane. Quello che oggi
pensa Milano, domani lo penserà l’Italia.”
Nel 1899, a 26 anni,
già collaboratore di “Critica Sociale”, il periodico del riformismo socialista,
può pubblicare questo studio. Anche dettagliato, di circa duecento pagine. Salvemini
visse tra Lodi e Milano per tre anni soltanto – nel 1901 ebbe la cattedra di
Storia Moderna all’università di Messina. Che però ricorderà come fra “i più
belli” della sua vita.
Salvemini, di Molfetta,
aveva studiato a Firenze, in particolare sintonia con Pasquale Villari. Si
interessò dapprima di Medio Evo, poi della Rivoluzione francese e del Risorgimento.
Suo interesse principale già nei suoi primi incarichi di insegnante, di Storia e
Geografia nel liceo Torricelli di Faenza per due anni, dal 1896, e al classico
di Lodi “Pietro Verri” dal 1898 – dopo un breve esperienza a Palermo, insegnate
di latino in una scuola media. Arrivava a Milano – a Lodi – già socialista, e
studioso ed estimatore di Cattaneo, nella variopinta (e non sempre concorde,
spiega nel suo saggio) politica milanese nei confronti dell’Austria.
Un secolo dopo un altro molfettese di grande qualità, Riccardo
Muti, che pure a Milano era cresciuto professionalmente e artisticamente,
veniva espulso dalla Scala, dal teatro cittadino. Dall’orchestra della Scala, ma
poi dal teatro nel suo insieme. Senza una ragione, non una argomentabile.
Come al maestro Muti così è capitato a molti. A sorpresa. A
tanti che sapevano tutto di Milano, anche la programmazione del Pasquirolo (era
un cinema), ma non l’essenziale. Il leghismo è stata una scoperta tardiva. Ancora
oggi uno fatica ad imputarlo a Milano, ma era la dottrina politica di Milano 1,
presto diffusa nel popolo milanese, non di un pazzerellone Bossi qualsiasi,
medico mancato e vagabondo.
La mafia non uccide
“Un assassino, si sa, uccide per rubare, o per un’eredità, o per l’indennizzo di un’assicurazione. Fa un lavoro ingrato, sporco e volgare: ascia, coltello o revolver, un lago di sangue, impronte, vestiti macchiati, biasimo generale”, e la certezza di una condanna a vita. Al contrario del truffatore, del criminale internazionale, che, benché violento, si arricchisce a danno degli altri senza uccidere. “Sicché possiamo affermare questo: «Un assassino intelligente deciderebbe di diventare un truffatore, un truffatore idiota finirebbe a fare l’assassino»”.
Queste mezza pagina di Simenon cronista di
nera (“Dietro le quinte della polizia”, p. 97) non è persuasiva. Il criminale
uccide e come. Anche se, certo, è difficile arrivare agli abissi di Riina, un minus
habens che ha fatto per trenta e più anni centinaia di assassinii, forse
qualche migliaio, per le tante stragi, o di Messina Denaro. Ma è vero che le mafie sono come i “criminali
internazionali”, non uccidono, “avvertono”, intimidiscono. Uccidono anche, ma
gli altri mafiosi. E se si trovano chiusa ogni via d’uscita, si pentono.
Nel caso della potente mafia dei terreni nella
Piana di Gioia Tauro il clan forse più spietato, quello dei Mammoliti di Castellace,
fu debellato per un omicidio, che forse il capoclan non aveva nemmeno ordinato –
ma era stato commesso da un ragazzo di poco lume suo affiliato. Di cui la
sorella della vittima, Teresa Cordopatri, tenne viva la memoria finché non
riuscì a imputare la responsabilità vera quando all’Interno arrivò un ministro
“non indifferente”, Maroni. Benché a viso scoperto, questa mafia aveva imperversato
per mezzo secolo senza alcun contrasto, evitando la violenza alla persona – la
proprietà non è roba da Carabinieri. L'antimafia fatica e recepire la semplice
constatazione di Simenon.
La mafia del pizzo, degli appalti, dei terreni,
agricoli e edificabili. Dovunque basta danneggiare gli altri per arricchirsi,
senza ucciderli.
Calabria
Calamitò
l’attenzione di Fëdor Sidorovič Brenson, un russo emigrato, pittore e incisore,
arrivato in Italia nel 1924, che ne fece 52 disegni, di luoghi per lo più, poi
raccolti, nel 1929, in “Visioni di Calabria”, con l’editore Vallecchi – dopo la
pubblicazione si trasferì a Parigi, e dal 1941, con la guerra e l’occupazione,
negli Stati Uniti, incisore e insegnante d’arte in vari college della costa
Est. Attratto dalla Calabria, spiega Antonella D’Amelia (“La Russia
oltreconfine”, 82) “sia per la fisionomia mediterranea (il clima, la natura),
correlata a una vita spensierata e solare, sia per le tracce dell’antico
passato (greco, romano, bizantino)”.
Ricordando sul
“Venerdì di Repubblica” Alessandro Bozzo, il giornalista morto suicida a
Cosenza dieci anni fa a 40 anni, Giuseppe Baldessarro e Alessia Candito accusano
la Calabria, dove Bozzo viveva e lavorava, a “Calabria Ora”. Senza un motivo specifico.
“Una vita da cronista senza tutele né stipendio” è del settanta, anche ottanta,
anche novanta per cento del giornalismo italiano: un tanto a riga, o pochi
centesimi a parola, una miseria, paghe come rimborsi spese, forfait da fame,
ritardi, contestazioni, abusi d’ogni sorta. Anche di testate nazionali non
ignote a Baldessarro e Candito. Però la Calabria si vuole diversa.
Baldessarro e
Candito non si chiedono perché in Calabria non si legga. Non i giornali locali
– le due testate locali vendono meno, complessivamente, delle testate nazionali,
che non hanno le cronache paesane.
“I calabresi sono letteralmente attaccati a
tutto”, secondo Filosa e Zurlo, “Cosma&Mito, L’assedio dei pruppi”: “Non
importa che si tratti di affascino e malocchi affini, allucinazioni da alcol,
divinità o spiriti, ambizioni esagerate, o gelosie e invidie senza limiti…. C’è
una sola certezza: ogni cosa creata da uomo, tempo e natura, è animata e ci
parla”. Nello sconforto o scontento generale, abissale, c’è chi ci crede e si
crede. Non male, è il principio dell’essere. Anche dell’esistere.
Giuseppe Bono, il manager di Pizzoni, Vibo
Valentia, che ha risanato e rilanciato Fincantieri, ora gruppo mondiale, era molto
religioso. L’aneddotica vuole che abbia lasciato il varo di una grande nave per
non perdersi la processione della Madonna a Tagliacozzo, in Abruzzo, dove aveva
acquistato l’abitazione di famiglia, una villetta a schiera.
A vedere, campagne ricche e ricchissime,
montagne verdi, mare cristallino, si direbbe il paradiso. Leggendo il giornale
si scopre che viene ultima o quasi per qualità della vita, ogni anno perdendo
posizioni invece di guadagnarle. A viverci si soffre la mancanza di mentalità
del servizio – un primo contatto va bene, al bar, al ristorante, dal macellaio,
all’alimentari, anche coi vecchi amici, ma non di più, l’interesse scema
presto, anche il garbo. Non c’è il bisogno – escludendo l’appannamento
dell’amicizia, inevitabile con gli anni? È una teoria. Ma allora perché vi si sta
così male, come dice il giornale? No, è che il guadagno dev’essere tutto subito – il “bene” più apprezzato sono i contributi pubblici, subito
e senza fatica. Ecco, manca l’applicazione. Di gente che per secoli
aveva accumulato nomea di cocciutaggine, testardaggine.
Ci sono i morti di ogni dove, nei due giornali
della Calabria, “Gazzetta del Sud” e “Il Quotidiano del Sud”. Anche incidentali,
anche in posti remoti, Poggibonsi o Crevalcore. Anche non di particolare gravità,
o modalità. Un vezzo delle cronache locali, che non si sanno riempire d’altro?
C’è effettivamente una propensione al mortuario, qualcuno le legge? È anche vero
che i giornali non sono molto letti in Calabria – Totò Delfino ricordava che
Feltri, direttore del “Giornale”, gli era affezionato perché, diceva, “mi fa
vendere 400 copie”. Per due milioni di persone.
Entrando in Calabria sull’autostrada Salerno-Reggio,
la prima stazione di servizio si trova a 102 km. dall’ultima in Campania (Sala
Consilina), a Frascineto. Da Frascineto a Lamezia gli intervalli sono normali,
30-40 km. – è la provincia di Cosenza. Dopo Lamezia bisogna aspettare altri 84 km.,
fino a Rosarno. E da Rosarno ancora 50 km., fino a Villa San Giovanni. Non si guadagna
abbastanza per mettere su una stazione di servizio? Non in Calabria rispetto
ala Campania, dove invece il servizio è regolare? Non vi si guadagna tutto
subito.
“Camici bianchi allo stremo. A Vibo un
dottore sviene e si rompe una costola. È successo al pronto soccorso”. Dove sono
rimasti in sei, la metà dell’organico. Effetto del lungo commissariamento della
sanità, oltre un decennio, nelle mani di pensionati dei partiti al governo a
caccia di un lauto nonfarniene. I medici calabresi che si formano a Roma
rimangono nella capitale, quelli che si laureano, e si specializzano, in
Calabria se ne vanno in Lombardia, perché per lavorare in Calabria bisogna
avere già medici in famiglia, che “aprano le porte”. La Regione deve assumere medici
cubani per riempire i buchi, e questi non le sono perdonati. Si potrebbe dire:
la Calabria deve morire – sembra un (buon) titolo per la sanità.
Il dottor Mangialavori di Vibo Valentia,
già senatore di Forza Italia e ora deputato, candidato a vice-ministro, anche per
dare un minimo di rappresentanza nel governo Meloni alla regione, viene seppellito
sotto voci di ‘ndranghetismo. Forse. Forse non lui, forse la moglie. No, forse
il suocero. Mah, non si sa. Il “Corriere della sera” evita la querela con
un’intervistina dopo il fattaccio. Ma è facile fare fuori un calabrese. Mafia?
leuzzi@antiit.eu
Che spasso il matrimonio, per lo spettatore
Un titolo molto
gettonato al cinema, ennesimo rifacimento del fortunuto “C’est la vie –
Prendila come viene” di Nakache e Toledano cinque anni fa, con l’handicap quindi
che lo spettatore poco poco cinefilo sa di che si tratta, la traccia è
frequentata. Ma Zalone al suo primo film se la cava egregiamente, per i
“numeri” imprevisti del suo wedding planning, fantasiosi, e per il ritmo.
Coadiuvato da attori, specie le attrici, Violante Placido, Valeria Bilello,
Fiammetta Cicogna tra le tante, e da caratterizzazioni maschili molto felici –
non si ride solo con i comici affermati, Bizzarri e Kessisoglu.
Una commedia
grottesca, nell’ordinarietà. Una critica nel fondo, non detta, della trasformazione
della festa di nozze, una riunione di parenti e amici, in un “evento”. Balordo
spesso, oltre che sprecone.
Andrea Zalone, Il
giorno più bello, Sky Cinema
lunedì 2 gennaio 2023
Ombre - 648
“La Chiesa non è
un’organizzazione per il miglioramento del mondo”, diceva Benedetto XVI. Sembra
ovvio. Ma come si fa ad andare sui social?
Si fa la cronaca
di una giornata cosi: “60 (80, 90) missili russi su Kiev e\o Zaporizhia, colpiti
un grande albergo e una grande scuola, una vittima, i servizi britannici avevano
ammonito di un attacco missilistico russo”. Che si produce ogni giorno. Con
danni gravi, un missile non è una granata di artiglieria, diretti e indiretti. Previsione
di un servizio che in patria nessuno si fila, giusto in Italia – effetto regina
Elisabetta? Non ci sarebbe bisogno di mandare a Chiasso i giornalisti, dopo la
scorpacciata dei cronisti di nera?
L’“Economist” apre
la raccolta di articoli offerti online per il Capodanno con l’Italia, “il Paese
può essere infuriatingly difficile da capire”. L’Italia? Colpa
dell’Italia o degli inglesi? Sull’“Economist” che pure ha avuto a lungo corrispondente
dall’Italia Ninetta Jucker, inventrice sullo stesso “Economist” del “miracolo
economico” – poi rilanciato dal “Financial Times”, con l’Oscar alla lira come
“migliore divisa dell’anno”.
Arrivano i cinesi
con il covid e l’Italia impone il tampone obbligatorio all’arrivo, anche se lo
hanno fatto alla partenza. Mentre l’Europa tentenna – la Germania dice no. Ma
il governo Meloni, dicono i media, smantella tutte le difese dal covid. Come
sarebbe a dire, per una volta che l’Italia fa i compiti meglio degli altri in
Europa?
Confondere l’informazione
con la propaganda politica è il virus dei media italiani, da Sky Tg 24 al
Corriere della sera”, “La Stampa”, “Il Messaggero”, “la Repubblica”, e non sembra
che faccia loro bene.
Trionfale il direttore
della Rai Fuortes annuncia record di ascolti su tutte le reti, a tutte le ore.
Anche con i canali “codificati” che hanno privato e privano metà pubblico della
visione – della visione dei maggiori eventi internazionali? Fuortes non sa che
la Rai passa da un digitale terrestre a un altro ogni poche settimane?
Nelle spassose filastrocche
sui 12 mesi che ci attendono, sul “Robinson”, il febbraio che Serra dedica al
Pd usa rime varie, -ente, -ale, -eta- -ario-, -uppo, ma non la terminazione in
-one che più si attaglia al partito, romana (antica): divisione, confusione, cospirazione,
corruzione.
“Il Pd è all’8
settembre”, Ugo Sposetti, vecchio politico, di parte comunista. Non a Livorno,
al 1921, dove lo rinviava enfatico Arturo Parisi, vecchio mentore politico di Romano
Prodi. In compenso (in compenso?) è scomparso, all’improvviso, del tutto, il Far-West
urbano delle cacce al cinghiale, le mamme preoccupate per i figli già al centro
delle sparatorie, e gli animalisti per gli animali. Ci sono parole d’ordine, centrali
uniche di parola, e di pensiero? Si ritiene il lettore-ascoltatore un cretino,
da imboccare come capita?
Come regalo di Capodanno
la Regione Lazio, Pd, aumenta le tasse in busta paga: raddoppia per tutti l’addizionale
Irpef, al massimo consentito per legge, il 3,33 per cento – aliquota finora
applicata solo ai redditi da 75 mila euro in su – e mantiene il 5 per mille di
contributo salute introdotto col commissariamento della sanità, anche se il commissariamento
si è concluso. Alla vigilia delle elezioni regionali.
Le cronache romane,
“la Repubblica”, “Il Messaggero”, “Corriere della sera”, minimizzano il
raddoppio dell’addizionale Regione Lazio. Pensano che il voto sia un esercizio
a prescindere? I redattori non pagano le tasse?
Pronta la conferenza
dei vescovi critica i limiti posti dal governo alle Ong sull’immigrazione. Si può
pensarlo un gesto politico, il cardinale Zuppi non apprezza la destra, e quindi
il governo di destra. Ma non lo è: è la difesa del business dell’accoglienza. Del
“terzo settore”, che al 90 per cento è curiale. Si finisce così per accettare la
tratta degli immigrati, anzi per monetizzarla.
La Chiesa sa come nasce
e si sviluppa il traffico. Ma non dice nulla.
Si fa scandalo
della sanatoria fiscale, dei crediti fino a mille euro, “dal 2000 al 2015”. Fingendo
di non sapere che la prima “pace fiscale” è del primo governo 5 stelle, 2019. E
che i crediti fino a 1.000 euro sono stato cancellati dal 2000 al 2010. Si finge di non sapere per pregiudizio
politico? O per imperizia – ignoranza?
Ora che gli archivi sono online e di accesso immediato. Forse non si sa
nemmeno digitare, fare una ricerca minima.
Moggi non ha
credibilità ma dice all’assemblea della Juventus una cosa inoppugnabile: “Una società
che non si è mai difesa”, in “Calciopoli”, nel 2006, “o non ha saputo
difendersi”. Non ha voluto: tutto, anche la serie B, pur di non avere un azionariato
diversificato, a opera del management.
Si “copre” giornalisticamente
la guerra d’Ucraina con molte, evidenti, “false notizie di guerra”, come lo storico
Marc Bloch chiamava la propaganda bellica. I russi hanno rapito cinquemila,
diecimila mimetica immacolata, e mitra di cartapesta, ogni girono i russi bombardano
la centrale nucleare di, ventimila bambini, la difesa ucraina è assicurata da
belle modelle di parrucchiere, con Zaporizhia, ma ormai da alcuni mesi. In dieci
mesi di bombe mai una analisi del perché la guerra, e come se ne potrebbe
uscire, una sola.
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Quanti sbadigli di notte in questura
A un certo punto,
alla fine, sembra oggi: “Non abbiamo forse distrutto i piccoli risparmi, e le
rendite non sono diventate ridicole? L’industrializzazione non impedisce a
migliaia di cinquantenni di trovare lavoro?”, basta sostituire globalizzazione a
industrializzazione. Dopo ottant’anni la storia è sempre la stessa? È molto
cambiata, in peggio: non c’è più limite all’arricchimento dei pochi, che anzi è
vangelo. Ma è l’unica pointe.
Simenon cronista di
nera non si annoia negli uffici della polizia di notte a Parigi. Lo stesso non
si può dire del lettore: il racconto non afferra, il primo caso in Simenon. La
riedizione (una raccolta di cinque articoli scritti nel 1932-1933 per
differenti riviste) si riscatta con una corposa appendice di foto d’epoca,
alcune scattate dallo stesso Simenon, quelle dell’imbarco dei criminali, grandi
e piccoli, ai lavori forzati alla Cayenna.
Georges Simenon, Dietro
le quinte della polizia, Adelphi, pp. 285 € 16
domenica 1 gennaio 2023
Letture - 507
letterautore
Edoardo
Bennato-Lucio Dalla - Ascoltando distrattamente “L’anno che verrà” in tv
negli spettacoli di fine anno si pensa di stare ascoltando una hit di
Edoardo Bennato. L’anno di composizione, 1978, lo consentirebbe, Bennato aveva
già una sua “cifra”. Ma anche Dalla: “Gesù Bambino” (“4\3\1943” all’anagrafe)
era da anni un successo planetario, rilanciata da Dalida e Chico Buarque de
Hollanda. E pure “Piazza Grande”: la “cifra” di Dalla è ben nota. Sono due cantautori,
entrambi strumentisti per caso, con esperienza di jazz: è questo background
che crea le somiglianze?
Dialetto
– “Non è assolutamente giusto considerare un
dialetto le espressioni linguistiche del Belli”,
Massimo
Popolizio, “quello del poeta non è dialetto, è una lingua fitta di lirismo e
intelligenza
teppistica. È
materia vibrante”. Cioè, è dialetto.
Don
Giovanni – C’è una tradizione russa, che sulla straccia di Puškin.
“Il convitato di pietra”, che lo fa “crudele, empio, scellerato, un senza Dio,
un seduttore senza scrupoli”, lo accosta alla Morte. “Don Giovanni sposo della
Morte” è un dramma di Pëtr Potëmkin e Solomon Poliakov, messo in scena da Potëmkin
nel 1926 a Roma, al Teatro degli Indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, in cui
don Giovanni in realtà corteggia, sotto le spoglie di Donna Anna, la Morte – “Ah,
Leporello, sapessi quanto è terribile la Morte nel sembiante della vita!”. Lo ricorda
Antonella D’Amelia nella sua ricostruzione dei russi in Italia, “La Russia
oltreconfine. Artisti e scrittori nell’Italia del Novecento”, pp. Y182-187.
Francese - Non solo bistrattato nella pronuncia, da quando è
fuoriuscito dall’insegnamento, paivot, desert, steig, se
ne è erasa ogni radice culturale e di massa. Jacques Brel? Piaf? Montand? Si fa
molto De André, e anche Conte, ma niente di Brassens.
Anche di narrativa e poesia si sa poco - Ernaux ha dovuto aspettare trenta o quaranta anni per essere tradotta, da un piccolo editore. Molto meno di quanto
si sappia in Francia di narrativa e poesia italiane – la Francia resta grande
lettrice.
Giornalismo – Umberto Eco ne ha dato definizione lusinghiera, perfino
esaltante: “Storiografia dell’istante”. Finendo però per scrivere “Numero zero”,
del giornale come covo di falsari – l’ultima sua “fatica” del genere romanzo
(più polemico in effetti che brillante). Aggravando l’accusa in un’intervista
demolitrice con Scalfari che si ascolta in rete.
Google - È
diventato il supporto della lettura. Gli autori non si fermano più a spiegare
un termine o un personaggio specifico, dimenticato o di rilievo limitato, il
sottinteso è che, se interessa, si può digitare la ricerca sul cellulare. Il
bestseller “I Netanyau” può dare per scontati gli ebrei “litvak e chassidici”.
Illeismo
- Sarebbe parlare di se stessi in terza persona in
letteratura - racconti, romanzi, poemi. Harold Bloom lo dava come un termine
ricorrente raccontando a Joshua Cohen (“I Netaniahu”, 268) di Gershom Scholem, il grande amico di
Walter Benjamin, presto emigrato a Gerusalemme, che appunto parlava di sé in
terza persona. Almeno in tarda età, quando Harold Bloom si recò a fargli visita
in Israele, come lo stesso Bloom ha raccontato a Joshua Cohen, che ne riferisce
appunto in appendice a “I Netanyahu”: “Quando andai a trovarlo nel suo appartamento
su Abravanel Street parlava invariantemente di se stesso in terza persona….
Quindi una sua frase tipica poteva essere: «Il giudizio di tal-dei-tali su
questo-e-quello è così-così, ma Scholem pensa che….»… In letteratura quando ci
si riferisce a se stesso in terza persona si dice illeismo”.
Harold Bloom
accreditava l’uso, italiano, del “lei” per l’interlocutore.
News
fatigue – Neologismo americano, su cui la rivista “The New
Yorker” fa ruotare la sua scelta di articoli online per la fine dell’anno. Dopo
il covid, la guerra in Europa, il rigetto da parte della Corte Suprema
americana della libertà di aborto, una “news fatigue” è stata rilevata, una sorta di indigestione, che ha
“colpito l’industria di settore”: una riduzione consistente delle attività
digitali, dei social.
I bilanci in
calo di Twitter e Facebook potrebbero esserne la riprova.
Papa
Ratzinger - Già G. Grass lo ricordava disappetente, nelle
memorie “Sbucciando la cipolla”, 2006. Reclutato a 16 anni, nel 1943, nella
contraerea della Luftwaffe, l’aviazione militare, coetaneo e compagno di dadi e
di filosofia durante la prigionia di guerra, entrambi diciottenni.
Pensare un
ragazzo così timido, gentile, umile, col roboante Grass, fa in
effetti molto teatro.
Ma “rivoluzionario”
per questo – non un debole come si vuole per le dimissioni.
Proust
– “Trovo bizzarro, per non dire inappropriato, che
scrittori come Kafka o Svevo passino per esponenti della letteratura ebraica
mentre si ignora Proust”, Alessandro Piperno, che pure a Proust ha dedicato
alcuni volumi, a Gnoli, “Robinson”, 31 dicembre. Ma Kafka e Joyce non hanno
personaggi “ebrei” negativi, mentre Proust ne ha. Il Proust “antisemita” del
primissimo saggio dello stesso Piperno, da neo francesista. Che in tutte le sue
opere, anche gli scritti più occasionali, fa stato delle pratiche religiose in
chiesa, o le racconta, commosso, come naturali.
Romanzo – Praz lo radica
nel Seicento (“Pittura di genere e romanzo”, in “La crisi dell’eroe nel romanzo
vittoriano”): nella pittura olandese del Seicento, della vita quotidiana. Che
ha aperto il gusto letterario, e anzi la pratica, della descrizione, di
ambienti e personaggi. E ha anticipato il romanzo di costume, fuori dal fiabesco
o dall’eroico.
Non in Carpaccio, nelle vedute minute di Venezia, tra Quattro e
Cinquecento? Era ancora epoca di gesta eroiche, fantastiche. Anche questo conta:
ci sono cicli, epoche, nella storia, nel gusto, nella sensibilità. “Don
Chisciotte”, coevo della pittura olandese di genere cui si riferisce Praz, si
può ritenere il controcanto a conclusione di un’era, delle grandi narrazioni
cavalleresche - non apre un ciclo o un genere.
Turchi – “Palestinese?
L’ultima cosa che sono stato era ottomano”, rispondeva un giovane pasticciere
arabo un sabato mattina in una Gerusalemme storica deserta. È l’accostamento
con cui Joshua Cohen chiude “I Netanyahu”. La famiglia Netanyahu, compreso “Bibi”
allora (1960) undicenne, l’antesignano e il leader delle politiche “identitarie”,
pivot politico di Israele da un quarto di secolo, ha messo a soqquadro in
America la casa del giovane professor Blum che la ospita. È dovuto intervenire
lo sceriffo. Che a un certo punto sbotta: “Che gente del cazzo. Mi scusi, professore
Blum, ma che gente del cazzo”. In risposta
il narratore Blum confida allo sceriffo: “Sono turchi, sa…. Cosa ci si può
aspettare dai turchi… giusto un branco di turchi fuori d testa”.
Witz
– Si dice in tedesco ma non sarà ebraico? Lo praticano gli scrittori dichiaratamente ebrei, è la cifra
ricorrente, dominante, della narrativa ebraica, yiddish e americana – della comicità
(Woody Allen), della filmografia. Anche di Svevo e, volendolo, di Kafka –
anche di Proust, ma non della “Ricerca”, che si vuole, tutto sommato, romantica,
e molto cattolica, della pietas.
Sarà stato uno
dei tanti prestiti dell’ebraismo alla Germania.
letterautore@antiit.eu
La mafia in libreria
Il primo volume di
“Mafie. Storia della criminalità organizzata”. Una serie di ben 40 volumi, quindi
da seimila pagine. Un’enciclopedia. E una consacrazione.
Un progetto che
Barbara Ricotti, giurista, spiega nell’introduzione come dovuto alle vittime della
mafia, “oltre mille”. No, oltre diecimila, oltre centomila, sono milioni:
vittime di mafia non sono soltanto gi assassinati, per lo più mafiosi o collusi,
quelli della “zona grigia”, ma le innumerevoli persone e famiglie colpite nella
casa, nei beni, nel lavoro. Per ingrassare le peggiori canaglie - non c’è un
solo mafioso che abbia una qualsiasi caratura, malgrado gli sforzi di Biagi e dell’editoria
in cerca di una copia a sensazione da vendere, che si ricordi per un aneddoto
intelligente, un gesto, una battuta. Farne la storia in quaranta volumi è fare
un monumento al niente. Al niente in questo senso: un monumento che fissa il Sud,
poiché questo sono “le mafie”, al niente. Al male nella sua espressione più
miserabile: al vizio, e all’appropriazione dei beni altrui. Alla distruzione di
ogni iniziativa. Delle fatiche altrui, di una vita, di due vite, di più vite.
Nella storia purtroppo già lunga della Repubblica, che per due terzi della sua esistenza,
fino alla riscossa imposta dal giudice Falcone, si è limitata – ha limitato i
Carabinieri – al lasciar fare, giacché la proprietà è un furto. La proprietà che non sia degli amici della parrocchietta - o dei compagni, c’era anche quella, sì.
La “roba” di Verga
c’entra, ma nel senso opposto a quello che la presentatrice riprende in avvio.
La mafia radicando nella “infinita brama di alcuni per la «roba»”. No, nell’infinita
brama di alcuni per la roba altrui. La mafia non è borghesia, e la roba non è
un peccato. Prima della Repubblica, i mafiosi erano ladri di polli (per dire:
di olio, farina, castagne, perfino pomodori), abigeatari, piccoli e
piccolissimi magnaccia, spacciatori di banconote false, contrabbandieri, e quando
lavoravano erano “guardiani”, garantivano dagli altrimenti inevitabili furti.
Sono diventati appaltatori con la Repubblica, soci dei compagnucci della parrocchietta,
grandi elettori di scambio, grandi contrabbandieri, di droga e di valuta (perfino
di prostitute, dall’Africa, cinquant’anni fa, quando venivano in aereo e col
visto….), gente di denaro (prestatori, finanziatori, riciclatori), e imprenditori, anche internazionali, con passaporto e visto, ove richiesto (è capitato di viaggiare in aereo una trentina di anni fa con Carmine Alfieri, camorrista ricercatissimo - in aereo di linea). Nell’impunibilità.
Di fatto, malgrado le tante antimafie. Ci sono così, per esempio in Calabria, mafie
di seconda e di terza generazione, mafie anche per i dossier dei Carabinieri (compilano
alberi genalogici enormi), ma tuttora a piede libero. Uno si dice, di fronte
all’univerale stigma contro le mafie: c’è qualcuno che le difende?, non è possibile.
Ma è come se.
La mafia non è “un
metodo di governo” - questa è la più grossa topica o bugia della “sociologia da
caserma”, più dell’omertà. Non governa il territorio, lo sfrutta. Nascondendosi, tramando nell’ombra, sempre più o meno incontrastata – provatevi
a fare una denuncia di estorsione mafiosa. Non nasce dalla sfiducia verso lo
Stato, lo Stato è ben presente e temuto nelle aree mafiose, con le tasse e
tutto. I controlli vi fa
La mafia non è “un
metodo di governo” - questa è la più grossa topica o bugia della “sociologia da
caserma”, più dell’omertà. Non governa il territorio, lo sfrutta. Nascondendosi, tramando nell’ombra, sempre più o meno incontrastata – provatevi
a fare una denuncia di estorsione mafiosa. Non nasce dalla sfiducia verso lo
Stato, lo Stato è ben presente e temuto nelle aree mafiose, con le tasse e
tutto. I controlli vi fa minuziosi, perfino ossessivi, e nessun si ribella.
Perché “lo Stato”, i Carabinieri, la Finanza, un po’ meno la Polizia, controllano
solo le persone che sanno oneste, con le quali certificare l’orario di lavoro
svolto, in tranquillità. C’è l’incapacità, questa sì, o l’indifferenza dello Stato,
grazie alla quale i mafiosi, gente di basso e bassissimo livello, non si ripete mai abbastanza, di
capacità limitatissime, possono spadroneggiare col mero agitare la violenza,
perché sanno tutto dello “Stato”, sanno dello Stato meglio del cittadino
onesto. Se i Carabinieri funzionassero come nel più modesto dei gialli i mafiosi
non esisterebbero. Non emergerebbero, fino a diventare enciclopedia - si dice Carabinieri
per dire l’apparato repressivo, la “polizia”, oggi le Procure della Repubblica.
Mentre abbiamo giudici che parlano di Osso, Mastrosso e Carcagnasso, o Carcagnosso.
Roba da non credere, ma di giudici in cattedra, in best-seller molto milanesi.
Con le “retate” di duecento e trecento mafiosi. Che faranno bene agli avvocati,
ma lasciano le strade ingombre come prima.
Landi, nella sua onesta
ricostruzione (partendo sempre dal delitto Notarbartolo, che però è già
politica, c’entra molto la politica anti-Crispi, e Crispi non c’entra
assolutamente nulla con l’assassinio del banchiere), lo rileva, arrivato ai
giorni nostri: “Cosa Nostra, ricordano giudici e studiosi, non è nata per
uccidere, anzi punisce la crudeltà fine a se stessa. Il delitto subentra
quando l’intimidazione non basta” – non ci può essere nemico vincente: “La mafia agisce e
vive per i soldi”.
Giovanni Landi, Cosa
Nostra, “La Gazzetta dello Sport”, pp. 158, gratuito
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