sabato 21 gennaio 2023
Le manone della Pd(c) sul calcio
Lascia a bocca aperta forse più i non juventini, che sono il rispettabile 70 per cento di tutti gli italiani, la sceneggiata fra Procura e Corte d’Appello del calcio, con la condanna della Juventus al doppio della penalità richiesta, e della sola Juventus per le plusvalenze fittizie. Come se la Juventus se le potesse fare da sola. E come se i calciatori avessero ciascuno l’etichetta col prezzo fisso.
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Vita sofferta degli agenti dei divi
La vita grama dei procuratori dela gente del cinema, che si contendono attori e registi, e ruoli e produzioni per gli stessi, l’uno contro l’altro armati. Una ripresa sul solco dell’ironia, con pochi effetti comici, della serie francese già di successo, più puntata sulla risata. Con molti comici imbalsamati, Di Mauro, Lastrico, Francesco Russo, la stessa Fanelli, che ha un ruolo comico ma solo per una scena, breve. Il ritmo è però accattivante, e le prime due puntate, “Paola” e “Paolo”, hanno guest-star d’eccezione, Cortellesi e Sorrentino.
Scritto da Lisa Nur Sultan, cui forse va la autorship.
Luca Ribuoli, Call
my agent – Italia, Sky Original
venerdì 20 gennaio 2023
Cronache dell’altro mondo – inquisitorie (243)
La Camera
dei Rappresentanti si caratterizza a Washington come un tribunale politico, con
le commissioni speciali d’inchiesta. La maggioranza uscente, Democratica, ha
passato due anni a indagare Trump per l’assalto al Congresso. I Repubblicani,
recenti vincitori alla Camera, si apprestano a varare quattro commisioni
anti-Biden.
Una commissione
indagherà sul figlio del presidente, Hunter Biden, già sotto processo penale nel Delaware, stato di residenza della famiglia, per gli affari che avrebbe fatto, specie in
Ucraina, più o meno fasulli, spendendo il nome del padre, allora vice-presidente
di Obama.
Una serie
di hearings sulla questione immigrazione potrebbe trasformarsi in atto d’accusa
(impeachment) contro il ministro del’Interno Mayorkas, per “negligenza”
sugli arrivi incontrollati di migranti alla frontiera col Messico – l’immigrazione
è risentita anche da alcune amministrazioni democratiche, come quella del sindaco
di New York, Adams.
Una commissione
certamente agirà il tema elettorale della “militarizzazione” (weaponization ,
ma pià corretto sarebbe dire politicizzazione, militantismo) del governo federale,
specie delle agenzie di polizia e di intelligence. Sull’uso ioè politico
di queste agenzie indipendenti, l’Fbi e la Cia, ma anche l’Irs, l’agenzia delle
entrate, e altri organismi della ventina che proteggono (sorvegliano) l’America.
Da
ultimo, un’inchiesta si preannuncia sulle carte “segretate” che sono state
rinvenute in un vecchio ufficio di Biden a Washington, e nella sua residenza
nel Delaware.
La scoperta della Magna Grecia
Archeologo figlio
di archeologo, l’egittologo Charles (e di Amélie Cyvoct, nipote e figlia
adottiva di madame Récamier), Lenormant fu in Italia una prima volta a 21 anni,
nel 1858, per una prima esplorazione della Magna Grecia, indirizzato dal padre.
Poi per otto anni in Grecia, col padre dapprima, che però morì di febbri
malariche poco dopo, nel 1859, poi con la madre, illustrandosi col recupero del
sito di Eleusi. Ritornò in Italia nel 1866, per una rilevazione accurata
dell’eredità greca, nel Salento e marginalmente in Lucania, la riva jonica. Del
1879 il terzo viaggio, tra Taranto e tutta la Calabria: una spedizione
archeologica, di quattro anni, al termine della quale morirà, di soli 47 anni,
a dicembre 1883, ritornato a Parigi, per un’infezione contratta negli scavi in
Calabria.
Dei due viaggi
scrisse accurate annotazioni in “Á travers l’Apulie et la Lucanie”, in due
volumi, 1883, e in questo “Magna Grecia”, in tre volumi, 1881-1884. Un repertorio
formidabile, di luoghi e manufatti, e del reticolo umano dietro alla ricerca e
la conservazione dell’antichità. A Taranto fu anche archeologo attivo e
fortunato, avendovi scoperto un sito importante di ceramiche. Ne derivò anche
una piccola fortuna: una collezione di 800 pezzi che vendette al Louvre,
cosiddetta del “Banchetto di Taranto”: figurine in terracotta dei tre secoli da
530 al 200 a.C. di personaggi adagiati, nella posizione classica dei banchetti
– metterà per iscritto le sue esperienze di viaggio, in Puglia e in Calabria,
dopo il il successo commerciale degli scavi a Taranto.
Morì con la fama
di specialista dell’area mesopotamica. Tra gli scavi in Grecia e quelli in
Magna Grecia si era infatti occupato degli Assiri. Innovando gli studi mesopotamici.
Fu il primo a individuare nella scrittura cuneiforme un linguaggio non
semitico, cui diede il nome di lingua accadica – ora sumera.
Questo voluminoso
“Magna Grecia” è un repertorio di documentazione, più che narrativo. Ma tuttora
utile, non solo per la storia: un primo repertorio dettagliato dell’eredità
classica, nell’Italia post-unitaria, umbratile, incerta. Anche nella protezione
dei reperti archeologici, la primissima testimonianza di quella eredità.
Un regalo
editoriale, della Rubbettino, e di Vittorio Cappelli, nella collana da lui
curata, di viaggiatori in Calabria, che già annovera una cinquantina di titoli.
François
Lenormant, La Magna Grecia – Paesaggi e storie, Rubbettino, 3 voll. ind.,
pp. 303, 547, 371 €22,50
giovedì 19 gennaio 2023
Problemi di base camusiani - 731
spock
“Gli unici paradisi
sono quelli perduti”, A. Camus?
“Non c’è amore
di vivere senza disperazione di vivere”, id.?
“Solo l’amore
ci restituisce a noi stessi”, id?
“Sì, forse è
questa la felicità, il sentimento pietoso
della nostra sofferenza”, id.?
“A un certo stadio
di nudità, nulla conduce più a nulla, né la speranza né la disperazione
appaiono fondate, e la vita intera si riassume in un’immagine”, id.?
“Viviamo
davvero solo per poche ore della nostra vita”, id.?
spock@antiit.eu
La scoperta della Tauride
L’imperialismo russo in due brevi saggi, per la Società
Italiana di Storia militare quello sul Tolstoj, di una studiosa russa. Su un territorio
di cui non si contesta probabilmente più, malgrado le residue resistenze ucraine,
il carattere russo, ma conquistato nel Settecento con una guerra lunga e feroce
contro il khanato indipendente, all’interno dell’impero ottomano. Polomochnykh
ricorda e contestualizza la conquista, ma soprattuto spiega come la Tauride, “come
si chiamava fino a un secolo fa”, entrò nel cuore dei russi.
La scoprì Puškin, che “vi passò tre incantevoli settimane di
vacanza nell’estate del 1820, durante il suo primo confino politico a
Ekaterinoslav”, oggi Dnipro. “Sotto la benevola sorveglianza del generale
Raevskij, padre di un suo compagno di liceo e di quattro bellissime fanciulle,
tutte intelligenti, colte e – tranne una – più giovani di lui”, che
naturalmente lo innamorarono – le prime due sposeranno dei “decabristi”, i
giovani nobili rivoluzionari del 1825. Ci scrisse il poema “La fontana di
Bachčisaraj”, “affresco romanntico dei fasti e degli intrighi dell’harem dei
khan di Crimea”, e il mito dilagò, “storico, multiculturale e multietnico della
Tauride”. Subito ci vennero Muravyev-Apostol, che la celebrò anche lui, l’amico
Griboedov, e il giovane Gogol’.
“Nel
Jurzuf”, centro balneare, Puškin ricorderà anni dopo, “vivevo sedentario,
facevo il bagno nel mare e mi abbuffavo d’uva; mi sono abituato immediatamente
alla natura del mezzogiorno, della quale godevo con tutta l’indifferenza e la
noncuranza del lazzarone (in italiano, n.d.r.) napoletano. Mi piaceva
camminare di notte e ascoltare per ore lo sciabordio delle onde. Vicino a casa
cresceva un giovane cipresso; ogni mattina andavo a trovarlo e mi legai a lui
con un sentimento simile ad amicizia”. Un idillio, per profonde ragioni, spiega
Polomochnykh, oltre che per l’identificazione con Ovidio, anche lui
esliato sul Mar Nero: “Il
clima caldo e la natura gli parlavano della tanto agognata Italia, dove non poté mai recarsi.
Non lontano si trovavano gli antichi insediamenti genovesi e veneziani, che
aumentavano il fascino della Tauride cosmopolita, dove si mescolavano i resti
delle colonie greche e romane, le moschee e le cupole cristiane. Col suo sangue
africano, Puškin doveva sentirsi qui a suo agio”.
Tolstoj
ci fece la guerra del 1853-1856, quella di Sebastopoli, della carica dei
Seicento, e dei bersaglieri di Cavour – di cui la realtà, sotto il mito, è
questa, nota Polomochnykh: “La guerra e il colera immolano un quarto
di milione di russi e sessantamila inglesi, francesi e piemontesi”. Tolstoj ci arriva ventisettenne, ufficiale d’artiglieria,
reduce dal Caucaso, ancora “incantato dalla guerra” - “l’anno prima, esasperato
dalla vita di guarnigione in uno sperduto villaggio, aveva chiesto il congedo”;
non avendolo ottenuto, “aveva fatto domanda per Sebastopoli”. Nel diario si annota
incantato dalla guerra. I commilitoni lo ricordano “insubordianto, sarcastico,
scontroso, trascurato nel servizio, unicamente interessato alla letteratura, a
parte il gioco d’azzardo”. Un vero principe, si direbbe – non batte ciglio
perdendo al gioco anche la cas a di Jasnaya Poliana. Ma anche perché, operando
nella zona più difficile, è bravo, “dimostra capacità di comando”.
Poi
ritorna a San Pietroburgo, scrive i tre “Racconti di Sebastopoli”, e passa dall’ammirazione
per la vita militare, per la generosità e la dedizione dei singoli del primo
racconto, quello che ne crea la fama, lo zar in testa, al rifiuto della guerra.
Non proclamato, non ancora, ma vissuto, rappresentato. Di grande impatto sul
publico. I racconti lo consacrano scrittore, “Guerra e pace” ne germinerà. Sarà stato un ultimo
miracolo della Tauride, si voglia russa opure tatara (tartara).
Tatiana Polomochnykh, Tolstoj in Tauride, limesonline,
free
Id., La Crimea di Puškin, ib.
mercoledì 18 gennaio 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (513)
Giuseppe Leuzzi
Tante cronache, rievocazioni e ricostruzioni ma nessuna ricorda che Messina Denaro ha avuto una gioventù “in” nella migliore società palermitana – fino ai trent’anni, quando dovette cominciare a nascondersi. Gigolò – oggi toyboy - con altri coetanei di ricche signore di mezza età di Palermo. Con molte amanti giovani strafiche, tra esse un’impiegata austriaca dell’Hotel Paradise Beach, di cui farà uccidere il mite gestore, che scherzava sulle sue imprese amatorie.
Il “pentito” Salvatore Baiardo sapeva che
Messina Denaro era in cura ma in fin di vita. L’ha detto in tv, convocando
Giletti - è un “pentito” socialite, che si diverte a comparire. Cosa che
il primario che aveva il bandito in cura aveva dovuto dirgli. Certo, è possibile
che Baiardo l’abbia saputo da qualcuno del personale ospedaliero. Ma è più
probabile che lo abbia saputo dallo stesso Messina Denaro, teatrante in fin di
vita, per un teatrale preannuncio, direttamente o indirettamente (il
prestanome, i tanti familiari Guttadauro). Questi “pentiti” sarebbero la parte
più succosa, volendo raccontare la mafia – ma non alla Enzo Biagi: da “traggediatori”
senza freni.
“L’autonomia prova a ripartire, 1.904
giorni dopo il referendum”, titola “Il Sole 24 Ore”. Senza più. Un titolo minaccioso,
senza ricordare che il referendum è stato proposto e tenuto dalle regioni
Lombardia e Veneto. In effetti, non c’è altra Italia.
Una pittrice finlandese, bella donna ma di poco
nome, si stabilisce con la famiglia a Siracusa nel mese di agosto. A ottobre se
ne torna in Spagna, scandalizzata, dice, dalle scuole cui aveva iscritto i
figli. Dov’è la notizia? Nella mezza pagina che il “Corriere della sera” le
dedica.
Il giornale le fa anche lamentare “la vita
sempre di corsa e il traffico a Siracusa”. La vita di corsa a Siracusa? Il
traffico? Sembra Bonacelli in “Johnny Stecchino”, che però era fumato.
“Colpo ai clan di Ostia: un’armeria nei box Ater". Ater
sono le case comunali. “Sequestrati 75 locali occupati abusivamente dai clan
Fasciani e Spada da anni”. Da vent’anni, da trenta. Settantacinque box: ma
quante case ha, avrebbe, l’Ater a Ostia?
“Scoperti” dalla Dda, nientedimeno, i 75 (settantacinque)
box, “usati come basi operative e depositi per pistole e altre armi. Ritrovate
pistole usate per alcuni agguati". A volte basta poco. Bastano i
Carabinieri.
Il tifo dell’odio
“Messaggi cifrati e prestanome: patto di sangue
in Europa per dare la caccia ai romanisti”, ai tifosi della Roma. Tra bergamaschi,
soprattutto, i tifosi dell’Atalanta, e napoletani. Ma con code ovunque la Roma gioca:
a Parigi (Paris Saint Germain), in Germania (Monaco 1860 e Borussia Dortmund),
in Serbia (Stella Rossa di Belgardo), in Bulagria (Plovdiv). Con contatti
personali e regole comuni. Preferibilmente: “Su e giù per lo Stivale. Vestiti
di nero. Felpe con il cappuccio, anche d’estate. Bastoni, rinforzati come se
fossero di ferro. Scarpe leggere, con suole scavate per i lacrimogeni” (?). Una
mappa degli autogrill dove è possibile intercettare i romanisti, e nascondersi.
E “codici di riconoscimento”: un gomito fuori dal finestrino, “luce accesa nel vano,
viaggio al centro corsia, sportello della benzina aperto, zainetti sul cruscotto”.
Tutto questo senza interesse, solo per odio. Un odio senza fondamento, solo un
gol non digerito qualche anno o decennio fa.
Il male nasce e si diffonde senza ragione.
E senza giustificazione – anche quando potrebbe averla. Non va analizzato, va contrastato.
La fortuna tenta il Nord
Non è il Sud a tentare la fortuna, non con
la lotteria – o la fortuna non tenta il Sud. Si fa un rendiconto localizzato
dei biglietti venduti della Lotteria Italia, e il Lazio, 5,9 milioni di abitanti,
risulta la regione che compra più biglietti, 1.118.160, uno su sei del totale
venduto. Di cui 871.430 nella capitale Roma, 2,9 milioni di abitanti – un
romano su tre ci ha provato. La Campania, che si penserebbe la più proclive, viene
molto dopo, con 583.840 tagliandi venduti, per una popolazione di 5,8 milioni,
più o meno quella del Lazio.
Se ne sono venduti molti di più in
Lombardia, 959.400, anche se va considerato che la popolazione residente vi è
quasi il doppio della Campania, 10 milioni.
In Campania Napoli non fa eccezione allo scarso appeal
del gioco. A Napoli e provincia, 3,1 milioni di abitanti, sono stati
venduti 295.280 tagliandi, uno in media ogni dieci persone, o undici. Lo stesso
più o meno a Caserta, 87.460 biglietti per 923 mila abitanti, e a Benevento,
20.120 biglietti per 280 mila abitanti. Ne sono stati venduti di più,
mediamente, ad Avellino, 53.660 per 400 mila abitanti, uno ogni sette-otto persone,
e a Salerno e provincia, 127.320 biglietti per 1,1 milioni di persone, uno ogni
nove.
Non si può fare il Sud al Nord
“Elena Ferrante”
immagina in “La figlia oscura” una “professoressa di università”, così si
dichiara a chi va a riceverla, che fa una vacanza al Sud, dove incontra una famiglia
che la riporta ai ricordi di giovane madre: uscita da una famiglia “oscura”, se
non degradata, madre applicata di due bambine, finché, di colpo, non si mette in
carriera, e soprattutto si “libera” sessualmente, si libera dal marito. Un racconto
persuasivo. Al Sud – al Sud Italia. Che diventa incongruente al cinema, nell’adattamento
che ne ha fatto Maggie Gyllenhaal, l’attrice che la storia ha sedotto tanto da
volerne fare la regia.
Gyllenhaal ha
spostato la vacanza in un’isola greca, e ancora poteva andare. Ma facendo la protagonista
americana, tra americani. E tutto diventa strano, e ridicolo. La “professoressa
d’università”. Lo studente bagnino d’estate, anche lui “americano in Grecia”. La
“famiglia” che apre la professoressa ai ricordi, sorelle con figli, sorella maggiore
con sorella minore, e relativi mariti. Che sono anche “gente brutta, non c’è da
fidarsi”, secondo lo studente-bagnino. Con uno dei mariti – il capo-cosca? –
che va e viene nei fine settimana. Tutte caratterizzazioni che vanno bene in una
storia al Sud Italia, ma tra americani? Tra americani ci sono anche le bevute,
che non vanno bene al Sud. E le coordinate geografiche – chi sa cos’è e cosa
significa il Queens, o anche l’Arizona?
I luoghi hanno una
personalità. Sulla quale “La figlia oscura” è costruito. Le ambiguità del Sud
italiano sono difficili da trasporre in America. Suonano anche male – incomprensibili.
Ci sono – ci sono
stati in passato - film americani di ambientazione southern, nelle vite,
i caratteri, le atmosfere, i tempi, della Georgia, delle Carolina, dello stesso
Arizona, che rimandano a tempi e modi mediterranei, del Sud Italia. Ma non, per
dire, a Milano o Torino.
Sicilia
Philippe
Daverio, pronipote del mazziniano e garibaldino Francesco Daverio, estremo
difensore della Repubblica Romana al Gianicolo, odiava la Sicilia. Così disse in
tv, a “Le Iene”, nell’ultima intervista forse prima di morire, dopo avere
paragonato la forma del cannolo siciliano a quella del fucile a canne mozze:
“Non amo la Sicilia”. Dieci anni prima era stato consulente del Comune di
Palermo per i festeggiamenti di santa Rosalia, la patrona della città.
Daverio era
intervistato dalla Iene per il suo ruolo poco equanime, come giurato, insieme
con l’ex schermitrice Granbassi, triestina, e il divulgatore scientifico Mario
Tozzi, romano, alla finale del concorso Rai “Il borgo dei borghi”, tra
Palazzolo Acreide e Bobbio. Daverio e Granbassi rovesciarono il voto popolare e
assegnarono la palma al “borgo” piacentino, invece che a quello
siracusano. Poi si seppe che Daverio era
stato insignito della cittadinanza onoraria di Bobbio un anno prima. La Sicilia
non può competere con la Lombardia.
Molti che non c’entrano e non sanno dicono,
per “uscire” in tv, quello che l’intervistatore gli vuole far dire: che sì, che
ci vuoi fare, Messina Denaro magari procurava lavoro, un affare, un beneficio, aiutava
a campare. Che non è vero e non può essere vero. Ma la Sicilia ormai vive nella
bolla, alla “Truman Show”: sa parlare come la fanno parlare.
Salvatore Mugno, scrittore di molte storie
antimafia, ha costruito quindici anni fa un falso su Messina Denaro che scrive
lettere a “Svetonio” firmandosi “Alessio”, in cui parla di Toni Negri, di Jorge
Amado e del Malaussène di Pennac, nonché di “assiomi”, attorno a un personaggio
vero. “Svetonio” era infatti un personaggio di
Castelvetrano, compaesano quindi del latitante, e noto eccentrico: Tonino Vaccarino.
Il quale si diceva “professore”, ora di Filosofia, ora di Lettere,
e non lo era (lo era la moglie), e aveva una spessa fedina penale. Ma aveva fatto
il sindaco per un anno – e aveva una moglie. Ultimamente accreditandosi come
spia dell’Aisi, il servizio di intelligence. La fantasia non difetta, ma da
ultimo corrusca - a celebrazione di assassini.
Messina Denaro è stato uno scrittore compulsivo
di lettere: i suoi “pizzini” al capomafia Provenzano erano lunghi pagine,
dettagliati e prolissi. Di tale natura che Camilleri ebbe a dirlo nel 2007, nel
libro “Voi non sapete”, “il latinista del gruppo”.
Virgilio Titone, lo storico e critico
letterario, più noto come polemista sull’“Espresso”, voleva la mafia (la
violenza, il raggiro) una questione di “sangue”. Se non che era anche lui di
Castelvetrano.
Messina Denaro, latitante dal ‘93, da quando
infine era stato “scoperto”, dopo una vita da beniamino dei salotti paermitani,
si sa che è stato in una clinica oftalmica in Spagna, e in vacanza con gli
amici ipermafiosi Graviano al Forte dei Marmi, assiduo del bagno “Rossella”.
I due Graviano si sa che sono mafiosi privilegiati. In carcere, al 41-bis, si sono potuti sposare, e anche fare dei figli, uno ciascuno. Come incentivo a parlare di Berlusconi? Che ne sarebbe della mafia senza l’antimafia?
Il padre di Matteo Messina Denaro, Francesco,
mafioso accertato in più procedimenti dal giudice Borsellino, percepiva
l’assegno di disoccupazione dell’Inps, e poi la pensione – fu condannato e
carcerato in tarda età. Scherzando, naturalmente, non si può affermare che i
Denaro si nascondessero.
Francesco Messina Denaro la famiglia - la moglie
finché è vissuta, una Guttadauro, della dinastia dei professionisti della mafia,
i figli, i nipoti - ogni anno onora sul “Giornale di Sicilia” con un necrologio
molto sentito. Per un paio d’anni con estratti di Lucrezio in latino.
gleuzzi@gmail.com
Il falso, ma non troppo, Messina Denaro
“Svetonio”
è il destinatario, lo scrivente “Alessio” è Matteo Messina Denaro. Un falso d’autore,
pubblicato quindici ani fa da Stampa Alternativa, di cui l’autore dovrebbe essere
lo scrittore Michele Magno, che ne figura il curatore. Oppure un Tonino
Vaccarino, personaggio vero, lo Svetonio destinatario. Le “lettere” prendono una trentina di pagine, Salvatore Mugno
provvede al resto. Una corposa introduzione e una lunga vita del personaggio,
circostanziata, che si legge come un romanzo, anche se è personaggio a
una sola dimensione, il sangue degli altri (una vita ripresa e ampliata nel
2011, pubblicata come biografia del mafioso latitante).
Mugno
dubitava dell’autenticità delle lettere – come ogni lettore. Ma non diceva
l’ovvio: che le avesse scritte il destinatario. Destinatario figurando un “professore”,
forse di Filosofia, forse di Lettere, che però non lo era, lo era la moglie, ma
si compiaceva di esserlo, il Vaccarino, noto
eccentrico di Castelvetrano, di cui pure è stato sindaco per un anno, con una fedina
penale spessa. Da ultimo qualificandosi come informatore dei servizi
segreti, dell’Aisi. Da cui “Alessio”, nome con cui si firma Messina Denaro, ovvio
anagramma dell’Aisi stessa. Nonché di “assioma”, termine che “Alessio” usa
spesso, spesso non congruamente. Oltre che all’assioma il latitante si compiace
di riferirsi a Malaussène-Pennac, Toni Negri e Jorge Amado.
Insomma,
uno scherzo. Ma impiantato su un fatto: Messina Denaro è stato uno scrittore
compulsivo di lettere, i suoi “pizzini” al capomafia Provenzano erano lunghi
pagine, dettagliati e prolissi. Di tale natura che Camilleri ebbe a dirlo nel
2007, nel libro “Voi non sapete”, “il
latinista del gruppo”. Uno scherzo però avallato da molti. Da La Licata variamente sulla
“Stampa”. Massimo Onofri ne attestò la veridicità.
Un dramma
siculo, alla Pirandello, in cui ognuno è non si sa chi. Lo stesso Mugno, buon
siciliano, non si priva di evocare Cellini, Caravaggio, Stradella come
precedenti in fatto di “binomio artista-criminale” – come se ci fosse qui un
artista – e Villon, Genet, Gregory Corso, “fino a certi nostri autori contemporanei
coinvolti in vicende omicidiarie: Massimo Carlotto, Adriano Sofri, Cesare
Battisti….”. E qui è evidente che in Sicilia qualcosa non funziona.
Ma non
solo in Sicilia, anche nell’antimafia, con altrettanta evidenza – La Licata e Onofri non
sono stati errori casuali e isolati.
Il ridicolo avrebbe dovuto svuotare il
terribilismo della mafia. Che è terribile solo nel tiro a segno, o nel
plastico, a tradimento, mai a viso aperto, per il resto è sopraffazione,
furfanteria e stupidità. E sicurezza di sé, soprattutto, quasi in regime
d’impunità. Il superlatitante che si dice un perseguitato, vittima della
mafia, a suo modo, anche lui, è un topos ricorrente, ma in questo caso – sapienza
di Mugno-Vaccarino - perfino argomentato. O “Alessio” stava trattando la resa,
con i beni – una parte dei beni – in libero uso ai familiari, come già avvenuto
con i familiari di Provenzano”.
La
vita-romanzo di Denaro prima della lunga latitanza, ormai di venticinque anni,
è semplice e fantastica. È figlio di un mafioso, conosciuto per tale, ma onorato fino ai trenta anni da tutta Palermo. È autore\mandante di almeno cinquanta
omicidi, a partire dai diciotto anni – e probabilmente dei dieci morti e
106 feriti degli attentati del 1993 sul continente, ai Georgofili e gli Uffizi,
a via Palestro a Milano, a san Giovanni in Laterano e a san Giorgio al Velabro.
Ma fino ai trenta sconosciuto, comunque non perseguito. A tempo perso faceva il
gigolò – oggi toyboy – con altri coetanei di ricche signore di mezza età di
Palermo. Con molte amanti giovani strafiche, tra esse un’impiegata austriaca
dell’Hotel Paradise Beach, di cui farà uccidere il mite gestore, che scherzava
sulle sue imprese amatorie.
Matteo
Messina Denaro, Lettere a
Svetonio
martedì 17 gennaio 2023
Letture - 509
letterautore
Baudelaire
– Pessimista? Lamentoso sì, ma strumentalmente: era
uno che lavorava tanto, anche alle traduzioni, e ai “salons” di pittura, nonché
alla cura delle relazioni, e naturalmente poeta curato, anche se non di molti
versi. In una lontana discussione accademica
all’università di Firenze, una esercitazione di francese con Nicole Milhaud, allora moglie di Nicolas Milhaud, il
pittore di Pietrasanta, figlio del compositore, allora
lettrice alla cattedra di Mario Luzi, si poté sostenere con vantaggio questa
ipotesi: che Baudelaire “ci marciasse”. Croce, nel breve scritto “La vita, la
morte, il dovere”, stabilisce che “il pessimismo è sfiducia dell’animo e
avvilimento”.
Castiglianità
- Camus chiama così l’orgoglio, con il quale è cresciuto
a Orano, benché in povertà – “che ho poi sviluppato e che mi ha molto
nuociuto…. E che ho tentato invano di correggere, finché non ho capito che esiste
una fatalità anche nella natura umana” (pref. a “Il diritto e il rovescio”).
Crimea
– Era per i russi la Tauride, “così si chiamava fino
a un secolo fa”, spiega Tatiana Polomochnykh in un breve saggio su “Limes” nel
2014, “La Crimea di Puškin”. Conquistata dalla Russia nel 1783, “dopo una
plurisecolare sanguinosa lotta con il Khanato di Crimea, insieme pedina
politica e indocile vassallo dell’impero Ottomano”. L’annessione si fece “con
una specie di referendum fra i nobili, che scelsero l’indipendenza da
Costantinopoli e la successiva richiesta a Caterina II di entrare nell’impero
russo”. Una “farsa, preparata mezzo secolo prima dal genocidio perpetrato dalle
armate russe”. I russi dopo i cosacchi: “Così si erano comportati tutti i
popoli predatori che provenivano dalla grande pianura russa”.
Dante
– Lo vuole “di destra” il ministro della Cultura
Sangiuliano, di destra: “La destra ha cultura, una grandissima cultura: il
fondatore del pensiero di destra nel nostro Paese è stato Dante Alighieri”. Per
un motivo? “Per la sua visione dell’umano e delle relazioni interpersonali, e
anche per la sua costruzione politica, profondamente di destra”. Scandalo
politico, ma non è una novità. Edoardo
Sanguineti fece nel 1992 un “Dante reazionario”, che ora si vende a caro prezzo
- mentre Federico, suo figlio, azionava e realizzava un’edizione critica della
“Commedia”. Umberto Eco tra tutti inaugurava la rivista “Alfabeta” con un
“Dante era un intellettuale di destra” – “pensate”, semplificava
caratteristicamente, “il ritorno dell’impero mentre stavano fiorendo i liberi
comuni!”. Di cui invece Dante parte dirigente, anche in uffici e ambascerie faticose
e dispendiose.
Dante era
ghibellino, per l’imperatore. Ma non in quanto dittatore, uomo forte, uomo solo
al comando, in quanto garante dell’unità politica.
Genova
– “Ci sono donne a Genova di cui ho amato il sorriso
per un’intera mattina” – A. Camus,
“Amore di vivere” – in “Il diritto e il rovescio”.
Houellebecq
– Si vuole onanista. Lo scrittore fa se stesso, nel
personaggio di un medico nel film di Dubosc, “Rumba Therapy”, ed è molto
riduttivo, i suoi tic provocatori riducendo a macchietta, da guitto, da “personaggio”
tv. Al protagonista, cui diagnostica un male terminale, consigliando il riparo
con un familiare, e l’onanismo – insistito.
Italia – “Entro in Italia”, nota Camus in “La morte nell’anima” (“Il diritto e
il rovescio”), “terra a misura della mia anima”. Di cui annota i segni: tetti a
squame, viti addossate al muro, “la biancheria stesa ad asciugare nei cortili,
il disordine delle cose, la sguaiatezza degli uomini”, il cipresso, l’ulivo, “il
fico polveroso”, e “le piazze ombrose” - “qui l’anima consuma le proprie
rivolte”, si pacifica con se stessa, si distende, “la passione si avvia piano
verso le lacrime”.
Machiavelli
- Sintetizza “i nostri vecchi storici”, nota Croce
(“La fine della civiltà”), dicendo che “le cose umane dipendono da due potenze,
la Fortuna e la Virtù” – la “dualità” “dell’impeto vitale e della creatività
morale, del duplice ordine delle forze, le vitali od organiche e le morali”.
Russia
di fuori – Molti scrittori russi sono di origine ucraina, non
per caso, e ne scrissero. Non solo i “classici”: Čechov, Gogol’, Babel’,
Bulgakov, Grossmann, lo scrittore dell’epopea di Stalingrado, Achmatova. E Prokof'ev.
Puškin fu felice
al confino in Crimea, e ne trasse il poema erotico “La fontana di Bachčisaraj”,
sui fasti e gli intrighi degli harem dei khan tartari. Sulla traccia di Puškin
vi soggiornarono e ne scrissero Muravyev-Apostol, Griboedov, il giovane
Gogol’.
Anche Conrad è nato in Ucraina, ma questa è un’altra
storia, tra Ucraina e Polonia, in passato piuttosto ostile. Nacque a Berdyczow,
allora polacca, oggi Berdyčiv – una città ebraica allora all’80 per cento, uno shtetl,
la seconda comunità ebrfaica nell’impero russo.
Altri grandi russi vengono dalla Georgia: Majakovskij, Kachaturian, Nina Makharova, e
naturalmente Stalin.
Michail
Saakashvili, il politico, nato georgiano, è stato presidente della Georgia dal
2004 al 2013, e poi per due anni governatore di Odessa, in Ucraina. In questo
caso conta l’anti-russismo.
Terre
rare – Le ritrovano oggi gli ingegneri svedesi, “il più
grande giacimento europeo di terre rare”, nei luoghi e nei modi descritti da
Hamsun un secolo fa in “Germogli della terra”, il romanzone che gli valse il
Nobel (poi proscritto perché elevato nella guerra incongruamente a “libro
nazista”). Allora senza successo – ma forse le terre oggi “rare” allora non lo
erano (l’uso limitato, se non nullo, non copriva i costi di estrazione).
Translitterazione – È curioso che i nomi nati in paesi colonizzati, in Africa, in Asia, con
la grafia quindi francese o inglese, mantengano in italiano l’ortografia della
lingua coloniale. Anche quando sono italiani magari da due generazioni,
comunque nazionalizzati. Come se l’identità fosse legata a quella grafia:
Soumahoro, Melaouh…
Vicenza – Il giovane Camus italianofilo ne fa la terra d’elezione, i colli dove soggiorna – i coli Berici evidentemente. Nel racconto-saggio “La morte nell’anima”, reduce dalla solitudine angosciosa di Praga. Tutto lo pacifica, e anzi lo entusiasma – come forse mai più gli avverrà, attanagliato dal nichilismo (l’assurdo): “Qui le giornate girano su se stesse, dal risveglio del giorno gonfio del grido delle galline fino a questa sera incomparabile, dolce e languida, setosa dietro i cipressi e ritmata dal canto dele cicale”. Cammina tutto il giorno: “Ogni persona che incontro, ogni odore di questa strada, ogni cosa è per me un pretesto per amare smisuratamente”. Tutto, le persone, gli odori, i mestieri, sono un organo di felicità - “Avanzo con passo lento, schiacciato da tanta ardente bellezza”, etc.….
letterautore@antiit.eu
L’Iliade dell’imperialismo sovietico
Ce n’è anche per Roma: “Sbigottirono i Romani.\ Tempesta sul
Tevere.\ Ma il Tevere,\ infuriato,\ tosò la testa al papa di Roma\ e andò da
Ivan attraverso il chiarore mattutino”, andò verso la Russia conquistatrice. Nel
1919-1920, cinque anni prima del viaggio in America e dell’“Ode americana”,
Majakovskij mette in marcia “Ivan”: folle, miriadi di “Ivan”, “150.0000.000” è
il numero di tutti i russi e gli operai del mondo all’assalto di Chicago. Contro
i quali il presidente Wilson nulla può, pur col suo sterminato arsenale – da ultimo
con “l’esercito velenoso delle idee:\ democratismo,\ umanitarismo,\ un continuo
andare\ di ismo in ismo!”.
1.500 versi. Un poema lasciato inizialmente aperto da Majakovskij
per aggiunte di chiunque volesse – “L’ho pubblicato in forma anonima, in modo
che tutti potessero aggiungere cose e migliorarlo”. Nessuno lo ha fatto, e
Majakovskij lo ha ripubblicato a suo nome. Rapportandosi all’ultimo a Omero: “È
per te\ la sanginosa Iliade delle rivoluzioni!\ L’Odissea degli anni di fame”.
È il poema dell’imperialismo “rivoluzionario”, sovietico – “la
Russia onnimondiale”. In versi tronchi, scattanti, militanti. Del canone
futurista come raffica, emistichi sparati a mitraglia.
Un poema di un secolo fa che si legge come scritto oggi: è
sempre “la Russia in marcia”. Come già, peraltro, Tocqueville profetava un
altro secolo prima. È l’anticipo della guerra fredda, del bipolarismo, delle
due potenze: “Tra i fatti minuti della melma quotidiana\ un fatto emerse:\ di
colpo\ cessarono tutte le cose di mezzo:\ non ce ne furono più sulla terra.\ Né
mezze tinte\ né sfumature,\ niente”.
Il poema non piacque a Lenin, che se ne lamentò con asprezza
col suo ministro della Cultura Lunačarski: “Una sciocchezza, una stupidità, una
stupidità madornale e pretenziosa”. Un poema incitatorio, senza una sola immagine.
Un proclama, come amavano i futuristi. Della Russia all’assalto del mondo. E dell’America
che sempre lascia perplesso il rivoluzionario poeta, anche prima del suo
ammirato viaggio: “Il mondo,\ adunando il quintetto\ delle sue cinque parti,\ l’ha
dotata di una potenza magica”. Ha dotato l’America. E “a Chicago\ 14 mila
strade:\ raggi solari sulle piazze.\ Da ciascuna: \700 vicoli,\ lunghi un anno
per un treno.\È bizzarra la vita dell’uomo a Chicago!” Con una possente immagine
del presidente Wilson. Attorniato da una corte superba: Adelina Patti, Walt Whitman,
Scialiapin, Meĉnikow, Longfellow.
A cura di Sergej Kirilov. Con nove disegni di Václava Maška.
In originale, con la vecchia traduzione di Ignazio Ambrogio, 1958, “corretta e
integrata”.
Vladimir Majakovskij, 150.000.000, La vita Felice,
pp. 147, ill. € 12
lunedì 16 gennaio 2023
Ombre - 650
Dunque, la prof delle
13 fotografie e due filmini di Renzi e Mancini in autostrada ha solo fatto da
tramite. A qualcuno nei servizi in competizione con Mancini. Non è una novità:
i servizi italiani sanno poco di traffici, uomini, e donne, di armi, di droghe,
o di Egitto, Libia, e altri inquietanti vicini, impegnati come sono a farsi le
scarpe l’uno con l’altro. Ma questa volta con copertura Pd. Di Elisabetta Belloni
che appone segreti di Stato, e della Procura di Roma che aspetta diciotto mesi,
sabato 24 novembre, quando il governo Meloni è definitivamente in carica, per dare
seguito alla querela di Renzi contro la professoressa.
“Dante era di destra”,
dice il seriosissimo Sangiuliano. E subito, come previsto, sberleffi progressisti.
Palla per uno smash micidiale del ministro della Cultura: tutti
quanti hanno saputo e detto che Dante coltiva la nazione, coltiva la città,
coltiva il popolo, mentre Edoardo Sanguineti, poeta, professore e deputato Pci,
ha scritto un “Dante reazionario”, e lo stesso Umberto Eco.
Ma poi, senza
essere dantisti, come non vedere, dietro la maschera tardosovietica del ministro,
che si è preso per sottosegretario Sgarbi?
Sostengono il Pd,
in questa campagna elettorale di partito, i grandi giornali dei grandi editori,
con molte pagine ogni giorno, riempite di niente. C’è qualcosa che non torna
nell’affidamento del Pd a Cairo e Elkann, i maggiori editori.
“I prezzi dei
carburanti sono oggi bassissimi; non oso pensare cosa potrebbe accadere quando
il prezzo del petrolio salirà, sono spaventato”. E perché? “Gli investimenti
sono pochi, la produzione cala, arriveranno gli effetti dell’embargo alla Russia,
ci sono problemi di raffinazione”. Davide Tabarelli dice l’ovvio, ma confinato
in poche righe in taglio basso: il “dibbattito” è sulle accise, se sono 47 o
49, e se vanno fiscalizzate (“lo ha fatto Draghi”, cioè lo dice il Vangelo).
Tabarelli dice altre
due cose note, ma trascurate, trascurabili:
1) “Il petrolio e
i suoi derivati rappresentano ancor a il 90 per cento della domanda di mobilità.
I biocarburanti sono appena il 3 per cento. E sull’elettrico siamo ancora indietro:
tropo poco diffuso e troppo caro”.
2) “L’auto elettrica
per ora è una cosa da ricchi ed è assurdo che vengano dati migliaia di euro in
incentivi ai ricchi che possono permettersela”.
Egitto, Somalia, Nigeria,
Congo, un po’ dappertutto in Africa, e Pakistan: è assordante il silenzio del
papa sui massacri islamici di cristiani, per lo più cattolici, anche solo di
una preghiera. Sembra quello della macchietta evangelica, del porgere l’altra guancia.
Un teologo
cattolico americano, George Weigel, a Mastrolilli su “la Repubblica”: “È improbabile
che il «dialogo» con Nerone o Diocleziano sarebbe stato efficace
nell’evangelizzare il mondo romano, ed è improbabile che il «dialogo» con Xi
Jinping sia efficace nell’evangelizzare la Cina del XXI secolo”.
Il Napoli che
tante squadre ultimamente avevano imparato a bloccare, il Lille e il Villareal
oltre l’Inter, l’Udinese, e perfino la Sampdoria finché ha giocato in undici, dilaga
contro la difesa più robusta del campionato, la Juventus. Rinforzata per l’occasione
con due attaccanti “puri”, Chiesa e Kostic. Disorientando i difensori di mestiere.
Errore non è, troppo grossolano. È che bisogna diffidare di chi gioca, anche
solo ai cavalli: quel 5-1 vale un tesoro.
I cinghiali a Roma
non fanno più ridere, dato che cominciano a provocare incidenti, anche mortali.
L’unico che non se ne preoccupa è il sindaco, quello che se ne dovrebbe
occupare, se non altro per igiene. Ma come non detto. Poi dice che il Pd, il partito
del sindaco, non prende più voti. Dovrebbe?
A dieci mesi della
“guerra preventiva” della Russia contro l’Ucraina il “Corriere della sera”
pubblica infine un parere diverso, scritto da Luciano Canfora. “La Repubblica”
corre ai ripari pubblicando Jeffrey Sachs, un economista di Harvard da tempo
critico di Biden, già da quando era vice di Obama, per la sua bellicosità. Canfora
non suscita reazioni, è un “vecchio” professore, come si mostra nei talk-show in
tv (si mostrava, dopo la guerra non lo ospita più nessuno). Contro Sachs invece
si riutilizzano i commenti critici del “New York Times” e del “Wall Street Journal”.
L’Italia vuol essere tutta d’un pezzo.
Nelle tabelle Ilo,
l’Organizzazione internazionale del lavoro, i salari reali sono diminuiti in Italia
del 12 per cento dal 2005 al 2020 - del 6 per cento solo nell’ultimo anno. Sono
diminuiti ovunque, ma solo di uno 0,9 per cento in tutto il mondo, contando paesi
come l’Italia. E del 2,4 nella Ue, che senza l’Italia forse sarebbe a zero. Poi
si dice che l’Italia vota a destra, per i populisti, i nazionalisti eccetera.
La democrazia è gli affari?
Muore a Roma il
cardinale Pell, che in Australia è stato imprigionato perché accusato di
pedofilia (assolto in Appello), dopo l’arrivo a Melbourne di 2,3 milioni di
dollari. Arrivati dal Vaticano. Dalla segreteria di Stato, che Peel, incaricato
di riformare le finanze vaticane, stava indagando.
I soldi per alimentare
il caso Pell in Australia li mandava il cardinale Becciu, sostituto della
Segreteria di Stato, poi sospeso dal cardinalato dal papa? Non si può provarlo.
Ma Becciu si opponeva ai controlli finanziari di cui Pell era stato incaricato.
Ed era solo una piccola parte dela segreteria di Stato, che per il resto è rimasta
intonsa.
L’inflazione fa
bene alle banche. Anche se la recessione incombe. Unicredit capitalizza in Borsa
quanto mai prima. Intesa, anche se ha un attivo di poco superiore a Unicredit,
e anzi un utile netto inferiore, capitalizza il doppio, 58 miliardi contro 29.
A costi ridotti al minimo, con le tante potature del post-2007 (dei dipendenti
e della clientela) e la remunerazione zero dei conti correnti, la corsa Bce all’aumento
dei tassi è tutta polpa per le banche.
L’economia è sempre
più fittizia. Si dice di servizi, ma in realtà è di aspettative – labili (si
creano e di distruggono a volontà).
Si dichiara osteria
e francescana, Osteria Francescana, il ristorante probabilmente più caro al
mondo, 500 euro solo per il menù degustazione. Il nome non fa il monaco.
Il menù francescano
è celebrato senza battere ciglio, nemmeno per scherzo, dai giornali progressisti,
di cui lo chef della “osteria” è personaggio e anche collaboratore. Poi si dice
che il Pd non “morde”: quanta gente da 500 euro a degustazione potrà votarlo?
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In viaggio col morto nel 1943, tra whisky e prostituzione
Nella rocca di
Scilla, in Calabria, il manipolo di guardia contro l’invasione alleata difende
la posizione come da istruzioni fino all’ultimo. Quando il tenente muore,
l’attendente Calusia, alpino, bergamasco, s’ingegna di condurlo a casa, come da
sua ultima volontà, “da mia madre, a palazzo Pignatelli, Monte di Dio, Napoli”.
Costruisce una specie di bara, copre la salma di carbonella e di fieno, sul
coperchio scrive con mano incerta l’indirizzo, la colloca su un asino sperduto
che gli viene incontro, e comincia il lungo viaggio. Nel quale si accompagnerà
a un’orfanella di Reggio Calabria in fuga dalle suore. E a una donna in lotta
contro gli accaparratori di grano, che è il contario dell’orfanella, solida e
squadrata, e quindi automaticamente “bergamasca”.
Nella collana
“Inediti e ritrovati” un racconto che è un “trattamento”, un abbozzo di
sceneggiatura, per un film che poi non si è fatto. Di scrittura semplice,
didascalica, che però sbalza l’Italia come si riesce a immaginarla in quei mesi
di sconfitta e abbandono. Specie negli incontri con i vari tipi di Alleati,
inglesi, inglesi della polizia militare, americani, americani neri. Tra fame,
ripari di fortuna, furti, e la borsa nera, con l’adescamento delle ragazze. Con
“l’istinto della libertà”, che era stato malgardo tutto il suo proprio fin dall’adolescenza,
volontario di guerra: lo celebra nelle vesti di un contadino “bergamasco”, e
alpino – una documentazione fotografica inedita lo mostra in varie età, più
spesso con la bustina da alpino. Col disincanto di sempre. “La guerra non l’hanno
vinta gli americani, l’hanno vinta i ladri”. E con lae celebrazione, forse
unica nella sua vasta narrativa, delle donne: “L’esodo femminile”, dopo la
rotta e la resa, “è forse il fenomeno più interessante e significativo di quel
riste periodo”, la liberazione delle donne.
Nella vena grottesca
che è la sua cifra, Malaparte mette qui molta bonomia. Un po’ ironico verso il
giovane tenente Cafero, il napoletano che molto presume di sé, e di ammirata
apologia della solidità “bergamasca”, fatta di devozione al tenente ma anche di
senso della giustizia e di impegno, fisico e morale.
Col lieto fine, la
bara giunge a destinazione. Ma con alcune sorprese. Anche qui Malaparte è
sbalordito, si direbbe ossessionato, dalla tranquilla deriva morale immortalata
nei racconti della “Pelle”, sotto l’occupazione Alleata.
Curzio Malaparte, Il
compagno di viaggio, Excelsior 1881, remainders, pp. 98 € 5,40
domenica 15 gennaio 2023
Secondi pensieri - 502
zeulig
Intelligenza – Camus la ipotizza venefica sulla bellezza. In un chiostro di Palma (di Maiorca), il “piccolo chiostro gotico di san Francisco”, con un pozzo, di acqua fresca, dove “il mondo perdurava, pudico, ironico e discreto (come certe forme dolci e riservate dell’amicizia femminile)”, si ritrova “inscritto per un breve istante nella durata del mondo”. E aggiunge: “E so perché allora pensavo agli occhi privi di sguardo degli Apollo dorici o ai personaggi ardenti e immobili di Giotto”. Aggiungendo in nota: “Con la comparsa del sorriso e dello sguardo iniziano la decadenza della scultura greca e la dispersone dell’arte italiana. Come se la bellezza cessasse dove comincia l’intelletto” – Amore di vivere”, racconto-saggio in “Il diritto e il rovescio”.
Ironia – “Il senso dell’ironia è una forte garanzia
di libertà”, Maurice Barrès. Propria, si può pensare, e altrui. Romain Gary ne
fa “una buona garanzia d’igiene mentale”.
Sainte-Beuve non l’apprezza e anzi la
disprezza – la teme: “Guardiamoci dall’ironia giudicando. D i tutte le
disposizioni dello spirito è la meno intelligente”.
È tema esclusivamente letterario, si direbbe dalle citazioni e dall’uso,
specie in lingua tedesca, di Thomas Mann, di Musil – e in italiano dei
siciliani, Pirandello, Sciascia (“Il razionalismo
genera sempre il distacco dell’ironia. Perché la realtà non corrisponde alla
ragione”), Tomasi di Lampedusa, Camilleri. L’unica riflessione è di Jankélévitch – dopo l’uso consigliato da Lord
Shaftesbury nella “Lettera sull’entusiasmo”, come rimedio al fanatismo, specie quello
religioso (e analogamente poi in Hegel, che ne fa il perno dell’aborrito
idealismo di Fichte, “soggettività che riconosce se stessa come cosa suprema”).
Ma non è all’origine del pensiero razionale – Socrate?
Libertà – È individuale, al fondo e nella durata (vita). È la fonte della creatività, Benedetto Croce: “La virtù creatrice si svolge in libertà” - “L’Anticristo che è in noi”. Nelle pagine in cui contesta il Behemot, la tirannia, che poi è lo Stato - ma Croce, hegeliano (poco) pentito, non può dirlo: gli ideali sono gli stessi per tutti, il vero, il bello, il bene, e solo con l’apporto di tutti e di ognuno si realizzano, il poco che se ne può realizzare.
Si può poetare, sognare, creare anche in cattività, ma con la mente
libera, se non con il corpo.
Natura – È più celebrata, e più per la sua capacità di
distruzione, nello storicismo integrale. È “la Forza vitale”, luogo e meccanismo
della vitalità: così la intende Croce. A lungo, benché la sua propria esistenza
ne sia stata condizionata, dal terremoto - ma non sempre, non alla fine, dopo
la seconda guerra mondiale. Insindacabile anche nei suoi effetti nefasti: “Possiamo
noi forse biasimare e condannare i modi e le operazioni con le quali si è formato
e si conserva e di volta in volta si riassetta, mercé di terremoti e di
eruzioni vulcaniche e d’inondazioni e di diluvî, questo globo terracqueo, senza del quale né la civiltà umana né l’uomo
stesso sarebbe?” Nel saggio che intitola “La fine della civiltà”, ma ancora
compassionevole, verso gli agenti della fine - tra essi la forza bruta, purché
vincente: “E possiamo noi biasimare e condannare i modi con cui si formano
i grandi organismi dei popoli e dei loro
Stati, che sono guerre e distruzioni e conquiste e dominazioni del più forte?”
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto,
meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non
possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla
religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei
popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche
invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste
islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla
storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è
cosa che non dà luogo a obiezione”.
Una sorta di panteismo naturalistico s’impone anche al liberalismo più aperto,
meno astringente, meno ideologizzato, qual è quello dell’autore del “Perché non
possiamo non dirci cristiani”, ma astretto al solipsismo morale, estraneo alla
religione. Fino, curiosamente, al problema di oggi: “Che alle forze vitali dei
popoli, da quelle che spinsero dalle preistoriche immigrazioni e alla storiche
invasioni barbariche dei primi secoli dell’evo medio, e alle conquiste
islamitiche, fino alle ultime a cui si è testé assistito e si assiste, sia dalla
storia riconosciuto il diritto di attuarsi seminando sangue e desolazione, è
cosa che non dà luogo a obiezione”.
Forze vitali,
dunque, ingovernabili e incontestabili, la guerra motore della storia, lo
hegeliano rimedio all’“infiacchimento dei popoli”, solo un gradino più basso
della guerra igiene dell’umanità. Al “pessimista Leopardi con amaro sarcasmo”
Croce oppone – continua a opporre dopo la seconda guerra mondiale che pure lo
aveva terrorizzato – Hegel, “lo Hegel della possanza della natura” e “lo Hegel
della potenza dello Stato”, con “la congiunta morale lezione della guerra che
restaura la sanità morale dei popoli facendo sperimentare l’indifferenza verso
le sussistenti determinazioni finite e salvandole così dall’impigrire e
corrompersi nella troppo lunga pace o
nella pace perfetta, come il soffiare dei venti salva le acque
dall’imputridire”. La guerra come il soffio dell’aria. Con la curiosa imputazione
alla chiesa cattolica: “La stessa religione vieta di ribellarsi alla
provvidenza del creatore del mondo, che ha creato il mondo, cioè, solo nel suo
consiglio, ossia logicamente, poteva, e perciò nel crearlo ha approvato per
buona l’opera sua”.
Lo
stesso Croce opina per il male: “Gli stessi dolori e strazî che le azioni che essi (gli Stati, n.d.r.)
perseguono arrecano alle genti umane, o l’una all’altra gente umana, sono pur
la condizione senza la quale non sorgerebbero al mondo virtù, bontà,
sacrificio, eroismo, libertà, tutto quanto sulla terra amiamo come celeste,
veneriamo come divino, e a cui essi offrono la materia che la nuova forma
idealizza e supera”. E se ci fossero dubbi: “Tutto quanto ci commuove e ci
sublima nella poesia, sin dalla prima grande poesia della nostra civiltà europea,
i canti omerici e le tragedie elleniche, così pieni di affanni ed errori…”.
Irrinunciabili,
imprescindibili, le forze della natura vanno appropriate (secondate),
confrontarle non si può – oggi, per esempio, con le immigrazioni? Una sorta di
fatalismo nella libertà. Nella dottrina, e anzi nell’ideologia, della libertà.
“La
guerra e la politica e l’economia” lo storicista integrale Croce considera “le leggi
della forze vitali dell’uomo”. Una natura estesa.
Risentimento – L’artista ne è hanté, per definizione?
Per Camus “due pericoli contrapposti minacciano ogni artista, il risentimento e
la soddisfazione”.
È qualcosa, dice anche (senza
dirlo), di analogo all’invidia, “il difetto tra noi più diffuso, vero cancro
delle società e delle dottrine” – tra “noi” intellettuali. Più diffusa dell’invidia
sociale: “La povertà non implica necessariamente l’invidia”, attesta sulla base
dell’esperienza personale, familiare.
Storia - “La storia trova il suo senso nell’etica”, B. Croce,
storicista assoluto pentito - “La fine della civiltà”. Che subito poi ha però “lo
spettacolo della storia”?
“Il sole m’insegnò che la storia non è tutto”,
riflette Camus nel 1958, presentando la riedizione dei suoi primi racconti-saggi,
1935-36, “Il diritto e il rovescio”: “La miseria mi impedì di credere che tutto
è bene sotto il sole e nella storia: il sole mi insegnò….”.
Viaggio – “Un paese in cui non mi annoio è un paese che
non mi insegna niente”, A. Camus, “La morte nell’anima” (in “Il diritto e il
rovescio”): è una realtà “priva di fondale”. Ma subito dopo racconta di Vicenza,
dove sta cinque giorni, fuori città, in collina, e non c’è momento che non
ricordi con commozione, sebbene non faccia nulla tutto il giorno e nulla abbia
da fare: si emoziona a un cambio impercettibile di luce, al taglio della collina,
di un cipresso. Quello che intende è forse che nello spaesamento “il velo delle
abitudini, la trama rassicurante delle parole e dei gesti, nei quali il cuore
si assopisce piano, si solleva per mostrare finalmente il volto livido
dell’inquietudine. L’uomo è faccia a faccia con se stesso”. Il che, per la
verità, può accadere anche nella stanza di casa.
Sta nello spaesamento il fascino del viaggio,
nell’incognito, nel diverso che emerge, in una scoperta riflessa – non
progettata ma immanente nello spostamento stesso, fisico, materiale. Camus
stesso lo dice in altro racconto, nella stessa raccolta, “Amore di vivere”. In
una diversa situazione, di piacere e non di angustia: “Sta proprio nella paura
tutto il valore del viaggio. Esso distrugge in noi una specie di scenario
interiore”. Perlomeno cambia le quinte.
zeulig@antiit.eu
La favola del genio e dei genitori – uniti e divisi
Da vero favolista (Fabelman)
Spielberg scioglie questa volta la tensione catastrofista di cui è maestro nel
racconto della vita amorevole e difficile in famgilia e tra i genitori. Il papà
“ingegnere”, informatico della prima ora, geniale ma positivo (la posizione, la
carriera). La madre, di quattro figli, artista incompiuta, innamorata del
miglior amico del marito. Su un fondo storico per una volta non “americano” -
vero, verosimile: il deserto in Arizona, l’isolamento nella California del Nord
(che pure dovrebbe esseere Seattle, ma allora fuori dalla leggenda), dove non
hanno mai visto una famiglia di ebrei.
Una serie di immagini
tutte per qualche verso notevoli. La prima è sulla predestinazione al cinema, al
primo film visto, a sei anni, alla vigilia di Natale. Che non si celebra perché
la famiglia è ebrea. La nonna paterna, ebrea di New Yor, quindi sprezzante. I boy-scout
e i “brevetti”: la fotografia, il salvataggio in acqua. Il liceo con i compagni
dell’Alta California alti come i sequoia. Il primo amore con una ragazza che ama
Gesù e lo prega. La vita solitaria col papà single, spedendo soggetti e
progetti, cui enssuno risponde.
Su tutto la sua propria
vocazione al primo film che vede, del dimenticato Cecil DeMille, “Lo spettacolo
più grande del mondo”. Con i banditi inchiodati al passaggio a livello, che un treno
manda per aria, per poi proseguire cieco alla distruzione di tutto ciò che
incontra. Una passione che coltiverà ingegnoso con tutti i mezzi, i trenini da
collezione, le macchine fotografiche di famiglia, anche di poco conto, la prima
cinepresa. Il western con gli scout. La festa di fine anno al liceo – una celebrazione
della fisicità “americana” - non della propria famiglia. L’incontro con John
Ford, che lo ammette per cinque minuti, forse uno.
Un fim d’epoca con
molta Storia che altrove non si trova, non al cinema. E una storia personale,
familiare, semplice e emozionante. Non si ride, e non si piange, ma le tante
scene, una dopo l’altra, sono tutte memorabili. È per lo spettatore come lo
stesso Spielberg dice in un ringraziamento prima del film: “Noi ci siamo
divertiti”.
Steven Spielberg, I Fabelmans
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