sabato 28 gennaio 2023

L’inflazione da banche centrali

È l’inflazione indotta dalle banche centrali, Federal Reserve e Banca centrale europea? In parte sì.
L’assunto è sorprendente, e anche arduo. Ma il Fondo Monetario Internazionale lo argomenta, nel bollettino week-end di “Finance&Development”, in una circostanziata disamina, “The Costs of Misreading Inflation”. Le banche centrali sono intervenute tardi, quando segnali inflattivi erano evidenti da tempo. E con aumenti a raffica del caro denaro ne hanno accentuato gli effetti mentre i sottostanti fattori inflattivi si indebolivano.
Il segnale trascurato è la moltiplicazione dei noli post-pandemia: “I banchieri centrali avrebbero potuto spegnere l’inflazione prima se avessero fatto attenzione alla spirale dei costi di un settore trascurato”, i noli marittimi. “A fine 2021, quando il presidente della Federal Reserve Powell e altre autorità monetarie insistevano che l’inflazione era soltanto transitoria”, i noli marittimi erano letteralmente esplosi. “A ottobre 2021 il nolo dei container era aumentato del 600 per cento rispetto ai livelli 
”. Quello delle merci alla rinfusa era triplicato. Con un impatto inflattivo, per il solo aumento dei noli, di 2 punti percentuali.

Cronache dell’altro mondo - immigratorie (245)

Cica 650 mila tecnici stranieri lavorano negli S tati Uniti con un visto speciale, l’H-B1. In posizioni loro riservate solo perché costano meno dei tecnici americani di analoga professionalità. È una delle ultime polemiche sollevate dal sito online di destra, Breitbart News.
L’H-B1 è un visto lavorativo speciale per personale con diploma di laurea. Va dai tre ai sei anni, ed è rinnovabile. Poco meno di 200 mila l’anno sono i nuovi visti H-B1.
La polemica è stata innescata dalla decisione delle autorità pubbliche di South Bend, nell’Indiana, di finanziare con 300 mila dollari un’agenzia di outsourcing, fornitrice di servizi alle industrie locali, per la ricerca di tecnici stranieri. Ma il più gran numero dei 650 mila lavorano per i grandi complessi tecnologici, Google, Apple, Microsoft, Amazon, Facebook, e per JP Morgan Chase. E costituiscono il settore di maggiore attività dei “body shop”, società per la ricerca di personale: Ibm, Cognizant, Accenture, Infosys, Tata Consulting, Capgemini.   
Breitbart sostiene che la ricerca di tecnici stranieri, in prevalenza indiani, si avvantaggia del loro minor costo, rispetto agli analoghi americani. E quindi restringe le opportunità di lavoro qualificato per gli americani: “Secondo le ricerche dell’Economic Policy Institute, la maggioranza delle aziende che importano tecnici col visto H-B1 lo fano per significativi risparmi di costo”.

Anna Frank è con noi, senza angosce

Kitty, l’amica immaginaria cui Anna Frank destinava il diario, prende vita nella stessa casa della sua “vecchia” amica. E si mette a cercarla qua e là per l’Europa.
Un artificio per sensibilizzare i ragazzi alla memoria dello sterminio. Gradevole. Ma con l’effetto di sdrammatizzare - come già di Benigni con La vita è bella”. Accentuato dall’animazione, tecnica comunqne lieve, perfino giocosa, anche nelle tenebre. Forse l’Olocausto non è per i bambini – si dovrebbe piuttosto impaurirli, e non è giusto.
Ari Folman, Anna Frank e il diario segreto, Sky Cinema

venerdì 27 gennaio 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (514)

Giuseppe Leuzzi

“La luce sugli ulivi in Italia” Camus trova, nella prefazione del 1958, poco prima della morte, a “Il diritto e il rovescio” tra “tutto ciò”, dice, “che a miei occhi testimonia la verità”. Con non molto altro: “una madre silenziosa, la povertà, l’amore solitario e popolato”.
 
“Striscia la notizia” può fare un collage di scemenze attorno a Messina Denaro. Specialmente vocali: chi lo chiama Mattia, e qualcuno perfino Mattea – parliamo delle tv. Un colonnello (o generale, ha tre stelle) dei Carabinieri ne parla come di Mattia Massina Denaro. C’è molta distrazione sui fatti di mafia.
 
“Carlo Nordio, da Treviso, in via Arenula (ministro della Giustizia, n.d.r.). Fabio Pinelli, da Padova, vice di Mattarella al Csm. Andrea Ostellari, da Padova anche lui, sottosegretario alla Giustizia. Ciro Maschio, da Verona, presidente della commissione Giustizia della Camera. Pierantonio Zanettin, da Treviso, capogruppo di Forza Italia alla commissione Giustizia del Senato. E per chiudere pure l’intraprendente Alberto Rizzo, da Vicenza, capo di gabinetto di Nordio”.
Stupendo colpo d’occhio di Liana Milella al plenum del Csm: “Da ieri la cordata veneta che domina la giustizia italiana è al completo”. Il tribalismo è forte, la Lega, il più atico prtito italiano e, con alti e bassi, il più robusto, è tribale. Il Nord è tribale.
 
Singolare inchiesta di Giulio Sensi sul “Corriere della sera”, sulla pratica sportiva in Italia, anche solo di una passeggiata. Risulta che un italiano su tre, poco meno, il 30 per cento, è sedentario, non pratica “nessuna attività fisica”. Ma di questo terzo il 43,2 per cento vive al Sud.
Degli enti di promozione dello sport, il Sud vanta il 26,9 per cento dei tesserati, il Nord il 24,4 per cento. Che però fanno poca attività: degli “eventi” sportivi promossi, per favorire visibilità (attrazione) e atletismo: solo il 18 per cento si organizza al Sud, contro un 73 per cento al Nord.
 
La migliore antimafia è dei “mafiosi”
Mercoledì Berlusconi può vantare a Paola Di Caro sul “Corriere della sera”: “L’idea che essere garantisti significhi essere meno fermi nella lotta alla mafia è semplicemente assurda. Glielo dice un uomo che dopo aver reso permanente nel 2002 il carcere duro, cioè il 41bis, per i mafiosi, nell'ultima esperienza da premier nel 2011 guidò un governo che sequestrò alle cosche beni per 18 miliardi di euro, e fece arrestare 6.754 mafiosi, compresi 29 dei 30 latitanti più pericolosi. Ne mancava uno e si chiamava Matteo Messina Denaro, caturato oltre 10 anni dopo”. È vero.
Sono di Berlusconi, dopo Andreotti, le norme antimafia più punitive, di maggiore impatto. Dei due capi di governo più collegati dalla giustizia a Cosa Nostra. Andreotti è stato processato come fiancheggiatore, cioè protettore. Di Berlusconi il miglior collaboratore e uno degli amici più stretti, Dell’Utri, è stato anche condannato. Dopo che è stata variamente tentata, col “pentito” Spatuzza, l’incriminazione di Berlusconi stesso - memorabile il processo-monstre in transferta, con centinaia di giornalisti allertati, del giudice Alfredo Montalto nel 2011 per ascoltare i mafiosi Graviano, o uno dei Graviano, che avrebbe dovuto accusare l’allora presidente del consiglio Berlusconi (Montalto poi si illustrerà al processo Stato-mafia per la condanna di Dell’Utri e gli ufficiali del Ros dei Carabinieri – che in Appello saranno assolti – con una sentenza di cinquemila pagine: non per scherzo).
Da sinistra si ricorda invece la messa nel mirino del giudice Falcone – ampiamene documentata su questo sito, più distesamente in:
http://www.antiit.com/2010/05/la-vera-storia-di-giovanni-falcone.html
Da Leoluca Orlando e Michele Santoro denigrato in tv, alla Rai. Dallo stesso Orlando, con Alfredo Galasso e Carmine Mancuso, mandato sotto processo al Csm nel 1991 – Falcone se la cavò spiegando che gli appalti si facevano a Palermo col sindaco Orlando allo stesso modo come col sindaco mafioso Ciancimino: lo fece  sorridendo, ironico, e sbagliò. Dal Pci, che gli preferì Cordova come candidato alla istituenda Superprocura Antimafia - “l’indipendenza politica di Cordova è comprovata per tabulas ed è più marcata che in Falcone”, di Cordova che era missino professo.
 
Sciascia meridionalista
Il burbero Sciascia così scriveva nel 1964 a Vito Laterza, l’editore, che lo stimolava a nuove collaborazioni dopo il successo del debutto, “Le parrocchie di Regalpetra”: “Laterza è il mio editore «naturale»: per la geografia, per la tradizione, per il rapporto personale e di collaborazione che si è stabilito fra noi (io ricordo sempre quanto Lei mi abbia aiutato per le ‘Parrocchie’, a scriverle, a darle - sic! - forma), Einaudi è invece irraggiungibile, dietro le sue barriere burocratiche (e di una burocrazia che non ha nemmeno il merito di essere ordinata): e Lei può immaginare quanto ciò sia irritante per un meridionale come me, abituato a risolvere tutto nel rapporto personale, di amicizia”.
L’amicizia restò forte in Sciascia – fino a indulgere a qualcuno del suo paese in odore di mafia. Ma per pubblicare continuò a pubblicare con Einaudi. In un certo senso, doppiamente meridionale.
 
Le grida antimafia
Si legge con sgomento il resoconto dell’arresto del collaboratore di Messina Denaro, Andrea Bonafede, a sei giorni dall’aresto del caponafia:
https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/23_gennaio_24/andrea-bonafede-arresto-messina-denaro-7643b905-3e2a-42c7-bb6a-e65be877bxlk.shtml
Mai tanto garantismo per un galantuomo. E un’indigenza investigativa da non credere: si arresta dopo sei giorni, e solo per supposizioni, presunzioni, deduzioni uno che lavorava a tempo pieno per il latitante e lo ha aiutato in mille modi.
Si capisce la debolezza dell’antimafia. Due secoli dopo la denuncia di Manzoni, che pure tutti leggiamo a scuola, della stupidità delle “grida”, delle leggi contro le mafie di allora. Senza bisogno di dare credito alle denunce di chi sapeva tutto del latitante e non è stato ascoltato.
Che meritano però di essere ricordate, almeno due, fra le tante “solite” – ogni fatto di cronaca eccita gli animi. Un dirigente della Polizia di frontiera, Antonio del Greco, che esibisce a “Striscia la notizia” un verbale da lui redatto dieci anni fa con l’indicazione di una persona, suo confidente, che a Trapani sapeva tutto del superlatitante, degli spostamenti e degli affari. E il “pentito” Pasquale De Filippo, pentito del 1995, che chiama Palazzolo per dirgli: “Due giorni dopo la mia cattura, nel giugno 1995, avrei dovuto avere un incontro con Bagarella e Messina Denaro, per i dettagli dell’operazione (l’assassinio dell’ex ministro della Giustizia Martelli, n.d.r.). Dissi alla Dia che ero pronto ad andarci, per farli arrestare, ma non vollero”.
L’antimafia dà spesso l’impressione di essere un baraccone da fiera. Perché, come operazione di legge, anti-violenza, sarebbe anche fattibile, non difficile.
 
I giustizieri del Sud
Si riprone con lo scandalo calcistico, in piccolo ma in certo senso più acuto, serpeggiante più che proclamato ma diffuso, anche tra i meridionali, il fastidio per la “giustizia del Sud”, di Mani Puilite, del duo Borrelli-Di Pietro. Che il Nord non denuncia ma di cui si risente. Nei social in questo caso, e anche alla Figc, l’organizzazione del calcio. Contro lo stesso presidente della Federazione, Gravina, d’improvviso diventato “l’apulo-abruzzese”, e contro il Procuratore Chiné, “il calabrese” - come già a Torino per il dandy Santoriello, il giudice napoletano e proclamato napolista. Per la selettività del procedimento, perché la Juventus e non la Lazio, per esempio, e anche per l’approssimazione, dietro i leguleismi, della requisitoria e della condanna.
Molta insofferenza contro la sentenza è agitata dai club, che temono un crollo commerciale, di credibilità e popolarità nel mercato mondiale e dei connessi diritti tv. Ma pure tra gli stessi club si diffonde, oltre che fra i tifosi, l’insofferenza verso la “giustizia meridionale”. Gravina viene collegato al suo (ex?) sponsor Lotito, a cui Chiné abbuonò i finti tamponi fatti fare alla Lazio, per poter schierare in campo la squadra al meglio. Mentre condannava sportivamente Agnelli, cioè sempre la Juventus, per un processo penale in cui lo stesso era parte lesa.
C’è sempre, non se ne parla per il politicamente corretto?, una diffidenza persistente tra Nord e Sud sulle attività istituzionali, la giustizia, l’amministrazione (la burocrazia). Prefetti e questori meridionali – e in prevalenza sono meridionali - da Firenze in su lamentano sempre l’isolamento sociale. C’è pregiudizio perfino nella storia, nella storiografia: accanto a storici meridionali equilibrati, da Croce a Rosario Romeo, una insofferenza del Nord, pervicace, è della storiografia radicale alla Salvemini (che pure aveva debuttato con un’apologia di Milano, della politica milanese), da Giolitti a Togliatti. E della contestazione, tutta meridionale, del processo unitario. Che ha a specchio la persistente lettura gladstoniana del regno di Napoli.
In questo caso, del processo di Chiné, la condanna si fa curiosamente di una squadra e di una proprietà che hanno al Sud probabilmente più tifosi, e più clienti affezionati. La quota Fiat nelle vendite di automobili è al 27 per cento in Italia, al 33 per cento al Sud. Oltre che gli investimenti maggiori.

leuzzi@antiit.eu

Romanzi russi all’indice

Sono Puškin, Dostoevskij e Tolstoj dei macellai? Il saggio nasce da questo sospetto.
Batuman, chiamata in causa come autrice di due libri intitolati “I demoni” e “L’idiota”, e inviata nel 2019 in Ucraina dal Dipartimento di Stato per una serie di incontri e conferenze, e ultimamente invitata in Georgia a dare una conferenza sulla letteratura russa, non se la sente di condannare gli scrittori russi come sanguinari. Disumani. Al contrario. Ma è colpita a Tbilisi dalla lavagna di un bar appena fuori la sala della sua conferenza: “VINO GRATIS per la “MORTE DI PUTIN” - 
ma gli organizzatori della conferenza fanno un briefing su come parlare russo senza innescare reazioni volente, e distribuiscono una lista di bar che accettano i russoparlanti . E dal linguaggio crudo di una scrittrice ucraina che stima, Oksana Zabuzkho. Se la cava introducendo Edward Said. Non quello di “Orientalismo”, quello del successivo “Cultura e imperialismo”, 1993, sottotitolo “Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Ottocento”. Del romanzo divenuto forma letteraria dominante nel secolo decimottavo in Gran Bretagna e in Francia, al servizio della Gran Bretagna diventata il più grande impero nella storia mondiale, e della Francia sua rivale.

Il romanzo va con l’imperialismo? E se un girono dovremo liberarci di Hollywood e dei romanzi americani perché la Cina – o l’India (o un terremoto)….?
Non siamo all’indice dei libri proibiti. Batuman, americana di famiglia turca, qualche dubbio ancora ce l’ha. Ma l’America ci crede? Il sottotitolo redazionale è “Come fare i conti con l’ideologia di ‘Anna Karenina’, ‘Eugen Onegin’ e altri libri amati”. L’imperialismo è insidioso.
Elif Batuman, Rereading Russian Classics in the Shadow of the Ukraine War, “The New Yorker”, 30 gennaio, free online

giovedì 26 gennaio 2023

Secondi pensieri - 503

zeulig

Islam - Radicale e non, non è una fortezza, un bastione compatto, coerente, ma un ammasso. Odia, ma a volte no, e comunque non gli basta, l’odio non unisce. Petromonarchie, primavere, fondamentalismo religioso, dall’Iran degli ayatollah colti alla Somalia e alla Nigeria selvagge - la Nigeria è la metà dell’Africa. Un Arco sempre delle Tempeste, ormai è un secolo, dalla dissoluzione dell’impero ottomano: di inabilità, instabilità, guerre, per lo più interne, intestine. Dall’Iran che le moschee schiavizzano all’Afghanistan in perpetua rivolta, al Pakistan che ammazza i suoi eletti, al Bangladesh sott’acqua, all’Indonesia militarizzata. Dalla Tunisia, che non sa per che cosa manifesta, all’Algeria, in guerra col Marocco, al Marocco, in guerra con l’Algeria, alla Libia, in guerra con se stessa, all’Egitto, da un secolo in attesa di diventare un paese normale, un mondo senza pace: Sudan, Somalia, Eritrea, la stessa Etiopia, lo Yemen, il Libano, la Siria, l’Irak, i Palestinesi – e non esclusa, incongruamente, Israele nella deriva teocratica.
 
Occidente – L’Unesco vota Odessa “patrimonio dell’umanità” dopo “una lunga e turbolenta discussione in seno al comitato direttivo”, con questa maggioranza: sei Paesi a favore, 14 astenuti, contraria la Russia. A favore I paesi impegnati nella Guerra contro la Russia, con armamenti e\o le sanzioni: Italia, Belgio, Grecia, Bulgaria, Thailandia e Giappone. Astenuti: Arabia Saudita, Argentina, Egitto, Etiopia, India, Mali, Messico, Nigeria, Oman, Qatar, Ruanda, St-Vincent and Grenadines, Sud Africa, Zambia. L’Occidente non sa in che mondo vive - il mondo globale, che ha creato per guadagnarci meglio, di cui ancora non percepisce che è – era – “inferiore” soltanto per il reddito.
 
Il trionfo era visto come la fine dell’Occidente da Benedetto Croce con singolare perspicuità alla fine della guerra: “Nel corso e al termine della seconda guerra mondiale si è fatta viva dappertutto la stringente inquietudine di una fine che si prepara, e che potrebbe nei prossimi tempi attuarsi, della civiltà o, per designarla col nome della sua rappresentante storica e del suo simbolo, della civiltà europea”. È l’attacco di un saggio, “La fine  della civiltà”, pubblicato nel 1846 nel secondo dei “Quaderni della Critica” – ora recuperato nel volumetto dallo stesso titolo, ed. Morcelliana.
Un trionfo che si è poi spinto fino alle guerre “umanitarie”, ancorché aeree (missilistiche), ad alto potenziale distruttivo e ad alta imprecisione, e ora, in Ucraina, alla guerra per procura, combattuta cioè sulla pelle degli ucraini per il bene dell’Occidente. Alla gestione armata dei diritti civili o umanitari, come esportare la democrazia, liberare le donne. Che non è logico, oltre che ineffettuale, ergersi a guardiani dei diritti con la violenza.
Il trionfo dell’Occidente nel 1989, la “fine della storia”, fu peraltro un incidente, provocato dal malaccorto Gorbaciov (lo fronteggiva un mediocre Reagan), che le politiche economiche non seppe allineare a quelle politiche, e finì per buttare anche il bambino insieme con l’acqua sporca. Fu cosiderato il trionfo del capitale su ogni altra ricetta produttiva, “definitivo”. Come se l’armamento non avesse pesato – la moltiplicazione degli armamenti – nel fallimento di Gorbaciov, dell’Unione Sovietica.
La globalizzazione, in clima trionfalistico, non estendeva il dominio occidentale all’Asia e all’Africa, al Terzo mondo, ma trasferiva il potere alla Cina e all’India, potenze demografiche, ingovernabili (imbattibili). Che ora sfidano gli Stati Uniti non colo alla Unesco ma perfino alla Wto, che gli stessi Stati Uniti hanno creato dopo “la fine della storia”, l’organizzazione mondiale del commercio.  
 
A lungo l’avamposto dell’Occidente fu Berlino, come di entità contrapposta agli Slavi e ai Balcani. Cioè la Germania, che sempre si vuole “altra”. Ogni popolazione tedesca che poco poco sia associata con altri popoli si dice sempre altra. I lombardi si aggrappano ai latini, e perfino agli slavi bizantini, i francesi ai galli, gli inglesi ai francesi. E quante radici celtiche non si scavano. Del resto i tedeschi, venendo a Occidente, non incontravano che welsch, tali erano per loro i romani, i latini, ma la lingua li direbbe celti, e insomma incontravano “europei” - Europa è toponimo greco del genere alberghiero, significando Belvedere o Bellavista.
A Salamina Temistocle salvò la libertà contro Serse e nacque l’Occidente
 
Il mito di Faust, così centrale all’identità dell’Occidente, è di un imbonitore da fiera.
 
La storia è occidentalista, degli orientalisti occidentali, che la vogliono inventata. A partire dal solito Schopenhauer, per il quale fanno la storia le risse europee. La storia e la cronologia sono scoperte occidentali, ribatte Borges, adepto di Schopenhauer e Budda. E come dargli torto: la storia è solo occidentale, la democrazia, il progresso, la costruzione del futuro. È cristiana, ma cominciò con l’essere ellenica, grazie ai barbari di Erodoto. La storia è dunque l’Occidente che viene dall’Oriente.
 
È l’affermazione di sé. Non in affari, tutti sono buoni. Nella storia, o la filosofia. È l’affermazione di sé, il Nord identifica in questo l’Occidente – che non va tanto a Ovest quanto a Nord, non ce n’è molto nel Brasile, né in Nord Africa. Una qualsiasi squinzia delle periferie britanniche, sformata, ignorante, le unghie sporche, diventa signora nell’India opulenta o in East Africa. Benché squinzia ponga un problema: essendo escuinca all’origine, messicano per ragazza sguaiata, bambinaccia, come ha fatto a penetrare il romanesco, c’è un Occidente retrogrado?
L’Europa cristiana e borghese, dice Hegel, è “la conclusione del grande giorno dello Spirito, che va da Oriente a Occidente”. Ma è il fine o la fine? Si vaga al centro dell’Europa respirando il vuoto, in tanta presunzione. Sembra ignoranza, pur tra le accademie, di come è e come va il mondo.
 
Per il vescovo Berkeley l’Occidente è “la via dell’impero”, che va a Oriente. Questo no, l’Occidente è fuga. Fisicamente è poca cosa: emerge allontanandosi dal ceppo originario, è un’inquietudine. L’Europa s’è messa a correre verso Occidente, l’Europa che Ercole strappò all’Asia, il precursore di Cristo. Così dice il mito dell’Occidente. E forse è arrivata. Ma ne aveva il presentimento. L’Iliade e l’Eneide, le epopee che la fondano, si nominano da una città e una famiglia sconfitte. L’Iliade, che Simone Weil vuole poema della forza, è pure il poema del vincitore-vinto. Se è vero ciò che dice Tucidide, che ottant’anni dopo aver battuto i troiani loro pari, loro pari in bellezza e intelligenza, gli achei furono soggiogati da rozzi barbari. Il canto di Omero ha la malinconia del vinto.
Che ne direbbe Pound giocoso: “L’Occidente si basa sul podere”? Un’eminente lettura della storia pone le origini del potere in Occidente nella pastorizia. Ma questo è il potere in Oriente, a Ovest col re e il prelato contano il giudice, il poliziotto, il padrone e il giornalista, e la famiglia, l’Azione Cattolica, la scuola, l’azienda, l’officina, il mercato rionale, e quello degli affari pubblici. Forza, potere e autorità, Passerin d’Entrèves lo spiega, fanno “la dottrina dello Stato”. La mafia, che non ha studiato, lo sa.
(continua)
 
Onore – “Virtù degli in giusti!” lo dice Camus, presentando “Il diritto e il rovescio”. Con l’appendice: “Ma è una parola, l’onore, che il nostro mondo reputa oscena: aristocratico è un insulto letterario e filosofico”. Detto in chiaro senso antifrastico. Nel senso comune essendo “retrospettivo”, di tradizione, lignaggio, superiorità non confrontabile. Mentre ha un senso attivo: di comportamento onorevole, come nelle battaglie personali, nei duelli, nei combattimenti.
 
Parole – Sono segni, sonori prima che grafici, che creano. Basti pesare ai segni (simboli) matematici. In divenire costante.
Suoni che articolano varie rappresentazioni del sistema sensoriale, fino a un assetto più o emo definito – non definitivo: essendo suoni creativi, le parole sono in divenire costante.

zeulig@antiit.eu

Cronache dell’altro mondo – didattiche (244)

Il consiglio d’istituto dele Public Schools di Newport News, Virginia, ha votato 55-1 per la destituzione del sovraintendente (direttore didattico), il dr. George Parker III, afroamericano, per avere ignorato il 6 gennaio, giorno in Italia festivo, della Befana, molteplici avvertimenti che un bambino della scuola elementare Richneck aveva una pistola e minacciava di usarla.
Il licenziamento è di fatto una separazione consensuale: il dottore Parker riceverà una buonuscita pari a due anni di stipendio, più benefits.
Il 6 gennaio almeno tre persone avevano avvisato la direzione che alla Richneck un bambino maneggiava una pistola. Il sovraintendente non aveva chiamato la polizia, né autorizzato il controllo dello zainetto del bambino. Che alle due del pomeriggio ha sparato a una maestra, ferendola al braccio e al petto.
Il bambino avrebbe preso la pistola, già carica, a casa. Comprata dalla madre.
La polizia non ha proceduto contro la famiglia del bambino per la mancata custodia dell’arma, e non ha attivato i servizi sociali.
A venti giorni dal fatto l’insegnante ferita, Abby Zwerner, ha promosso azione penale per querela di parte. Dopodiché il consiglio d’istituto ha cercato la separazione consensuale col sovraintendente, per non condividere le responsabilità civili.

Il cane che sfidò le SS, e gli ucraini

Presentato come film d’azione, si vuole una “storia vera”, di una giovane famiglia ebrea a Berlino negli anni 1930, con due bambini e molti cani, uno dei quali, il pastore tedesco Zack, sarà d’aiuto al figlio anni dopo per la fuga dal campo di sterminio. Dopo essere passato – quando le leggi hitleriane impedirono agli ebrei di tenere un cane - al servizio di un militare tedesco per l’addestramento alla caccia degli ebrei, nella quale è stato bravissimo e viene premiato, con cibo speciale e altri trattamenti.
Una storia “vera” come le tante in voga da alcuni anni su aspetti marginali del Reich hitleriano, della “vita normale” di Hitler, e della Germania – il cibo di Hitler, le serve di Hitler, eccetera. Per soddisfare un mercato sempre fiorente di morbosità, Hitler è sempre un’attrazione. Questa è più vera delle altre nel senso che non confonde le parti – anche se nella linea ambigua, del bene-male, che ha fatto il successo di Benigni, “La vita è bella”.
Riprogrammato dalla Rai per il Giorno della Memoria, è un film di “prima del diluvio”, del 2021. Dove con le SS si temono gli ucraini. Indistintamente, SS e non. Vederlo ora, che gli ucraini sono il baluardo dell’Occidente contro la barbarie russa fa una certa impressione.
È anche un film ungherese. Lynn Roth, americana, firma un film tutto ungherese: nell’Est Europa gli intrecci sono molti, e la storia non si dimentica.
Lynn Roth, Zack, cane eroe, Rai 1 e RaiPlay

mercoledì 25 gennaio 2023

C’è l’inflazione, e c’è il drenaggio fiscale

L’inflazione impoverisce e non arricchisce, se non pochi. Alla sommatoria danni\benefici la prima voce è di gran lunga preponderante: il reddito nazionale ci perde, e la moltitudine dei singoli, pensionati e percettori di reddito fisso, statali e privati. Per effetto del drenaggio fiscale.
In presenza d’inflazione l’imposta progressiva, se non è rimodellata nelle aliquote e le detrazioni, preleva una quota rapidamente crescente, in termini reali, del reddito nazionale. Riducendo il reddito fisso di pensionati e stipendiati, ma anche il reddito nazionale complessivo, quello spendibile, produttivo. A grande velocità, del 10, 20 per cento l’anno, quanto è l’inflazione.
Il drenaggio fiscale era nozione notoria in Scienza delle Finanze, la disciplina della tassazione, e probabilmente lo è ancora. Molto dibattuta negli anni successivi allo shock petrolifero del 1973. Oggi non più, gli stessi esperti di fisco si perdono in altro, l’impossibile flat tax, i lussi e le auto di Conte, ma solo perché tutto il dibattito pubblico è orientato su falsi scopi.
L’inflazione provoca recessione, in termini reali. E se la fiscalità non viene aggiustata provoca anche scompensi sociali a danno della stragrande maggioranza della popolazione.

Quanta russofilia, e russi in Italia

Molti socialisti, e molte donne ed ebrei, categorie cui l’accesso all’università era vietato in Russia, presero a fare gli studi a fine Ottocento in Italia, i più a Napoli, Torino e Pisa. Nel marzo del 1913 Gork’kij e gli altri russi di Napoli-Capri potevano ideare un “Primo congresso delle organizzazioni russe culturali, sociali ed economiche in Italia”, che si tenne a Roma, in una biblioteca russa, la “Leone Tolstoj”, che allora esisteva, in via Sistina. Molto poi si farà per gli esuli della rivoluzione d’Ottobre, isolati rispetto ai grandi centri dell’emigrazione, Berlino, Parigi, Londra, ma presto e bene inseriti.
Antonella D’Amelia, che ha coordinato una serie di progetti prin dedicati ai russi in Italia, e ha pubblicato a Mosca tre anni fa, insieme con Daniela Rizzi, l’enciclopedia “La presenza russa in Italia nella prima metà dell’Ottocento”, raccoglie qui nove ricerche, dettagliate e ottimamente raccontate, di grande lettura, su varie attività e vari personaggi della cultura russa attivi in Italia nel primo Novecento. Le esposiziono internazionali in voga a Fine Secolo, fine Ottocento, e i padiglioni russi nelle esposizioni italiane, fino alla rivoluzione d’Ottobre. Come Torino diventò la “capitale del cinema” italiano, attrazione irresistibile per i russi. Lo straordinario torinese Riccardo Gualino, artefice di mille iniziative, compresa una “Nuova Pietroburgo” in Russia prima delle fibre sintetiche in Italia – che Mussolini non eviterà di mandare al confino a Lipari. Il Sud come “cartografia fantastica”, specie Napoli, Capri, Sorrento e la Calabria. Le più ampie, e finora uniche, ricerche e ricostruzioni della scena teatrale italiana tra le due guerre, così vivace, e di interesse vasto, si direbbe popolare, sebbene innovativa, di ricerca. Soprattutto a Roma: attorno ai Bragaglia (la Casa d’arte e il Teatro degli Indipendenti), al Teatro d’Arte di Pirandello, a Rosso di San Secondo, e ai tanti artisti russi che hanno movimentato le scene: Pëtr Šarov, Tatiana Pavlova, Jia Ruskaja, Ivan Mozžuchin, i Pitoëff (una prima vindication dei Pitoëff, si può aggiungere, il regista e l’attrice, bizzarramente dimenticati belle storie del teatro, che tanto hanno fatto tra l’altro per il teatro italiano a Parigi nel dopoguerra, soprattutto Pirandello, e ancora negli anni 1960). Il pittore armeno Sciltian. Il Teatro Romantico Russo. I Sacharov – teatranti. Il teatro ebraico Habima. Nella russofilia tra le due guerre, specie negli anni 1920, prima che anche nella cultura Mussolini privilegiasse l’autarchia.
Una rappresentazione vivace di Torino, nel primissimo Novecento, e poi, dopo la Grande Guerra, di Roma. Di quando, nei decenni pur seclusi tra le due guerre, era centro d’attrazione della cultura europea, di letterati, musicisti, pittori, scultori, quale poi non è più stata. Soprattutto, si direbbe, dei russi, e per merito loro. Un incredibile innesto della cultura russa in Italia ne esce documentato, durante e dopo la Grande Guerra, per tutti gli anni 1920-1930, nel teatro, la danza, la musica. Dopo la rivoluzione bolscevica ma anche prima. Ci fu perfino una voga russa. Il comediografo Bonelli per maggior successo si finge russo.
Sorretta da una bibliografia sterminata, Antonella D’Amelia riesce a costruire in dettaglio e a condensare in poche pagine affascinanti le stagioni artistiche della prima metà del Novecento. Con molti à coté interessanti e importanti. Una circostanziata rivalutazione di Respighi, nelle sue attaches russe, e altre. Il ripescaggio di Ruggero Vasari e Vinicio Paladini. Le serali stagioni dell’Opera Italiana a Pietroburgo e a Mosca a cavaliere del 1900. Zarjan, il musicista armeno che musica la sua patria infelice. O l’avventura di Giuseppe Chiacigh, architetto e pittore, “figlio di commercianti veneziani trasferitisi nella seconda metà del XIX secolo nel Caucaso, dove fondarono una colonia veneta non lontano da Vladicavkaz”, la capitale oggi dell’Ossezia, che dopo la rivoluzione d’Ottobre ritorna con la famiglia nella Slavia friulana. Berlino capitale degli intellettuali russi, emigrati e non, nei primi anni 1920, gli esiliati sul “piroscafo dei filosofi”, ben risaltata in due pagine. L’influenza duratura di Šarov, regista e animatore, a partire dal fantasmagorico “Gruppo praghese” di artisti del Teatro d’arte moscovita, ammirato in tutta Europa negli anni 1920, poi stabilitosi in Italia – molto attivo ancora nel dopoguerra, con Gino Cervi, Franca Valeri e altri nomi dispicco della scena. E ua miriade di personaggi delo spettacolo: Idel’son, Strunke, Benua, registi, scenografi, coreografi, danzatori, mimi.
Una ricerca è dedicata alla diaspora ebraica dopo la rivoluzione, a Trieste e altrove. Una al ruolo della Casa d’arte Bragaglia e del Teatro degli Indipendenti, sempre targato Bragaglia, una storia di cui capita di sentire parlare ma della cui proiezione, nella capitale e in Italia, non c’era ancora una rappresentazione altrettanto significativa. Più in generale un quadro diverso emerge dalla storia culturale della Repubblica, o delle “due culture”, la confessionale e la comunista. Con la ripresa di figure italiane seppellite dal compromesso repubblicano: Respighi, Rosso di San Secondo, i futuristi. Soprattutto questi: il futurismo a teatro, negli anni 1920, nelle regie, le scenografie, i costumi. La rivalutazione è decisa del futurismo in medias res, a teatro come in musica e nei testi. Dell’impatto che Marinetti aveva avuto sulla giovane cultura russa, poetica, pittorica e musicale.
L’arte russa in Italia è anche, di scorcio, una rassegna degli eventi artistici delle città italiane che ne videro la partecipazione, a Fine Secolo e primo Novecento. A Torino in particolare, ancora un po’ capitale, e a Roma. Ancora in piena guerra, fino al 1917, Stravinskij annota nelle “Cronache della mia vita” una concentrazione a Roma di artisti russi “sbalorditiva” – compreso lui stesso, a Roma per collaborare alla lunga tournée dei Balletti Russi di Djagilev, che il 7 maggio al Teatro Costanzi, l’Opera di Roma, a una festa per il coreografo Leonide Massin, dirigeva brani dei suoi “Petroushka” e “Oiseau de feu”, e il poema “Fuochi d’artificio”.
“Artisti e scrittori nell’Italia del Novecento” è il sottotitolo. Una ricostruzuione letteraria (artistica), e insieme da social scientist, da critico culturale. Un omaggio anche alla cultura italiana, viva, e di notevole attrazione internazionale, negli anni fino alla seconda guerra mondiale. Attorno al futurismo e non solo – aperta a molte innovazioni. Un recupero corposo e prezioso di personalità e epoche perdute o trascurate nelle storie del Novecento italiano. Per la russofilia, “un altro aspetto dominante nella cultura dei primi anni Venti, quando artisti, danzatori, musicisti, registi e attori russi invadono non solo le ribalte dei grandi teatri (Costanzi, Quirino, Valle), ma anche i teatrini di varietà e i cabaret (Apollo, Salone Margherita), immettendo nel teatro italiano echi e suggestioni delle coeeve esperienze russe”. E per la vivacità dell’innovazione, non ancora per un pubblico d’eccezione come ora avviene, ma come “fatto di cronaca”, di discussione, di seguito largo. 
Una ricerca che gli eventi hanno reso controcorrente – tutto ciò che è russo essendo bandito. Ma di una realtà, la forte attrazione che Roma e l’Italia ha esercitato su artisti e letterati russi, che ha trasceso altri epocali eventi.
Con molti “quadri” dell’Italia stessa negli stessi anni, vivacemente rappresentati. Di Roma agli inizi del Novecento, di Torino che diventa la capitale dell’innovazione (cinema, radio, telefono), della passoione per le Expo. Le meraviglie del palazzo Stroganov, all’incrocio di via Sistina e via Gregoriana a Roma, di una collezione orientale che fu famosissima – col romanzo del conte Stroganov, “che possedeva miniere d’oro negli Urali, grandi latifondi, e fabbrche di vodca”, ed “era il mecenate della colonia russa romana”. Molto D’Amelia ricava dalle memorie del principe Volkonskij, centrali per la storia di Roma, bizzarramente non tradotte. Il “romanzo” di Gor’kij, a Capri e a Sorento, con personaggi altrettanto fantasmagorici, il poeta Zubakin, rosacruciano (della sua loggia “Stella” a Minsk faceva parte Ejzenštejn). Il romanzo di Gualino. Lo sucltore Konënkov, la cui moglie è una spia sovietica, e nella successiva emigrazione in America innamorerà Einstein e Oppenheimer, per carpire segreti sulla bomba atomica. La spia “Elena Ferrari”, al secolo Ol’ga Fedorovna Revzina, ufficiale combattente contro la controrivoluzione in Russia, mutilata in guerra di un dito della mano sinistra, già in missione in Turchia e a Berlino, che a Roma innamora mezzo futurismo. Oltre ai personaggi più noti, Jia Ruskaja, Tatiana Pavlova, Šarov, riproposti a figura intiera.
Una serie di racconti mirabolanti, ma di una realtà che era essa stessa mirabolante – inconsueta, innovativa. Registro anche, e testimonianza, delle radici europee della Russia, quella zarista e quella sovietica. Una raccolta insieme storica e, si spera, seminale. Di innumerevoli figure e filoni in larga parte ancora da arare. Di un mondo molto colto, molto europeo. Molto presente per almeno un secolo nella cultura italiana, direttamente e indirettamente.
Con una documentazione fotografica ricchissima, e “inedita”: di persoanggi, scene e costumi teatrali, pitture e sculture. L’indice dei nomi va su due colonne per oltre venti pagine.
Antonella D’Amelia, La Russia oltreconfine, Carocci, pp. 375 € 39

martedì 24 gennaio 2023

L’islam al femminile

Si è potuto rivedere su Sky Documentaries - si può rivedere in streaming – un documentario americano in più puntate sulla “crisi degli ostaggi” in Iran nel 1980-81, “Hostages”. Sull’assalto all’ambasciata americana a Teheran da parte degli “studenti della rivoluzione”, e la presa dei diplomatici e dipendenti in ostaggio per quattordici mesi, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Una vicenda che ha segnato il destino dell’Occidente, poiché ha portato Reagan, uno sconosciuto attore di terzo piano, alla presidenza degli Stati Uniti, che ha imposto il liberismo suicida nel quale l’Occidente è impigliato.
Si è potuto vedere nel documentario che la più determinata del commando (in realtà una folla, disordinata) era una donna, Masumeh Ebtekar. E lo è tuttora. Un altro personaggio del documentario, Ebrahim Asgharzadeh, si è detto il capo del commando e la mente del rapimento, ma Ebtekar, sotto i pepli, ne sapeva di più. Non per nulla è stata vice-presidente del governo, dal 2017 al 2021, dopo essere stata più volte ministro. Era un capo anche nelle immagini dell’epoca, quando ventenne inventava e coordinava informazioni e immagini per tenere sulla corda l’America, per 444 o più giorni.
Quella dell’ancella di Khomeiny è la stessa determinazione che ora, da due mesi, porta l’Iran in piazza contro il regime degli ayatollah. Del quale fu a suo tempo il fondamento: Khomeiny era un personaggio poco conosciuto e poco apprezzato (soprattutto a Qom, la superscuola teologica degli ayatollah) fra gli oppositori dello scià. Fu “creato” dai servizi segreti francesi, che lo pescarono dall’esilio isolato a Kerbala, in Iraq -  con la probabile collaborazione americana. Ma divenne il padrone dell’Iran per la massa d’urto delle donne coperte di nero che occuparono letteralmente le città iraniane il venerdì, per manifestare contro lo scià, e poi ogni altro giorno della settimana. Una massa d’urto contro la quale la polizia e l’esercito dello scià erano inermi.
Come Ebtekar, centinaia di altre giovani come lei, vestite di nero e incappucciate, si potevano vedere nei mesi e anni prima della rivolta, lungo i sentieri di passeggiata festiva sulle montagne sopra Teheran, addestrarsi in formazioni quadrate paramilitari, con la scusa dell’esercitazione fisica. Erano giovani donne le animatrici del movimento degli studenti filo-khomeinisti dei due anni di trapasso del regime, sotto la presidenza dell’economista Abol-Hassan Banisadr. E poi dei fidayn del popolo, la formazione islamista anti-Khomeiny.
Erano donne in età, massicce e ululanti, che occupavano per gli ayatollah i viali i Teheran nella transizione. Che presidiavano i primi tribunali politici, fuori e dentro il supercarcere di Evin. Che presidiarono ogni mattina gli ingressi e le tribune del Majlis, il Parlamento, nel lungo dibattito sul destino degli ostaggi americani, quasi tutti semplici impiegati.
Oggi fanno notizia, e rivoluzione, in Iran le donne giovani che protestano contro l’obbligo del velo. Ma sono la borghesia urbana, numerosa e affluente a Teheran – dislocata nei quartieri anche  mofolologicaente elevati (Teheran è una capitale di montagna, in salita, dai 1.100 ai 1.700 metri di altitudine), tante ricche e ricchissime cittadelle: Shemiran, “luogo fresco”, dove anche il probo Khomeiny aveva casa, Zafaraniyeh, Elahiyeh, Velenjak, Gheytarieh, Farmanieh, Kamranieh, Darband, Jamaran, Niavaran. Con i social queste rivoluzionarie sono dappertutto, ma non sono”tutte”. L’Iran era e resta – come anche la Turchia, di recente reislamizzazione – un paese rurale. Di una ruralità (tradizionalismo) che pesa anche nelle città, anche a Teheran Sud, attorno al bazar e ai bazarì, ai commercianti grandi e piccoli. Un mondo che soffre l’adozione di modi di vita diversi come una forzatura. Anche se modernizzante. E chiede alla politica quello che gli ayatollah danno: una legittimazione della tradizione, anche se sotto la forma del velo, e con la forca e lo scudiscio. Forse anche negli apparati commerciali e industriali più moderni è più alto il numero delle donne che si sentono protette dagli ayatollah, seppure con l’obbligo del velo – riconosciute, “portate” (un’analisi dell’“ayatollismo”, del radicamento sociale del regime islamico iraniano, resta ancora da fare, ma alcune cose sono chiare: senza le donne non ci sarebbe stato, e non ci sarebbe, il khomeinismo.  
Nell’ignoranza globale dei fatti mondiali, ce n’è una speciale sulle donne nell’islam. Diversa è la loro condizione – la loro mentalità e il loro status - fra l’islam desertico, nomadico ancora fino a cinquant’anni fa (Kuwait, Abu Dhabi, gli altri emirati minori, e la stessa Arabia Saudita davano premi per le tribù che si sedentarizzavano: la casa, l’automobile, le cure mediche), e quello urbano. In questo caso in Iran, civiltà da millenni urbana. Dove le donne sono al comando, seppure in casa - recluse peraltro volontarie. Tra i motivi che hanno perduto lo scià, la modernizzazione imposta alle donne è stato uno dei più diffusi, e anche determinante. Furono subiti come un abuso sia l’obbligo della coabitazione al lavoro e in società (la stretta di mano, per non dire dell’abbraccio), sia l’occidentalizzazione quasi forzata, sui modelli femminili occidentali, dal nudo alla libertà sessuale – che la donna iraniana esercita da tempo immemorabile con il sighè, matrimonio a tempo, ma senza esibizione.

La scoperta dell’Africa o la mangiatoia del gas

La scoperta dell’Africa con Giorgia Meloni sembra una barzelletta, e lo è. Come quella del “modello Mattei”, che non c’è – e che comunque l’Eni stella di Borsa si guarda dal praticare.
La scoperta è una barzelletta perché l’Italia è un paese senza memoria. O un Paese adulto analfabeta, che impara con difficoltà. Ma non senza rischi, anzi: il dubbio c’è, se Meloni si è accorta della “scoperta” che le fanno fare.
Il modello Mattei, che non era un modello, era cercare spazi negli interstizi internazionali fra le grandi potenze, o anche non grandi ma che di se lo presumevano, Gran Bretagna e Francia. L’Italia hub europeo del gas era la novità dell’Eni pre-Borsa, degli anni 1970: un progetto tecnico-economico, elaborato in una cultura internazionale, contro venti e tempeste politiche e giornalistiche, tanto provinciali quanto aggressive. Quell’Eni fece dell’Italia l’epicentro (hub) di una serie di condotte dalla Russia, dall’Algeria, dalla Libia, dall’Olanda, e volendolo anche dall’Egitto - il canone di ogni approvvigionamento è la diversificazione, la non dipendenza, per i prezzi prima che per la sicirezza. Ma contro la politica: già allora gli Stati Uniti non volevano che il gas russo arrivasse all’Europa, era un vantaggio competitivo. Al meglio nella distrazione della politica. Fino a quando la politica non fu armata dalla coorte vorace, e corrotta, dei grossisti - tragici quelli che poi si aggrapparono a Berlusconi, “l’amico di Putin”. Suonando le campane del mercato. Per avere, d’obbligo, “una fetta” del mercato, guadagnare cioè di rendita, solo per fatturare, senza investimenti né rischi. Al punto che la Russia (Gazprom) ha poi scelto come partner privilegiato la Germania.

Poesia della memoria per immagini

Composizioni brevi, spesso di distici accostati, per semplice casuale insorgenza di immagini. Di storie. Di cose. Una plaquette che condensa, si direbbe, una vita. Di ricordi e di scoperte, di viaggio soprattutto. Ma come di una presenza immemore – del passare del tempo, del tempo come fuga. Di esperienze e sensazioni le più disparate, molteplici, e mai trapassate, ancora vive. 
Maria Teresa, che di mestiere fa la regista e l’attrice di teatro, ha lasciato fuori qui i trucchi del mestiere. Per una poesia pulita, limpida. Di impressioni fisiche, materiali. Suggestive nella semplice occorrenza. Per il solo fatto di emergere, come di sorpresa. Una scoperta, incidentale (ingenua), o riflessiva (concentrata), ma sempre meravigliata. Di eventi, cose, immagini, ricordi, personaggi che emergono naturaliter, evocati come flusso spontaneo di coscienza.
Maria Teresa Di Clemente, Sono arrivata al mare, gattomerlino, pp. 37 € 10


lunedì 23 gennaio 2023

L’imperialismo russo

L’imperialismo è inteso come dominio oltremare. E fenomeno ottocentesco, e protonovecentesco, legato al colonialismo. Nel caso della Russia, poco studiato, è invece continentale, in Europa orientale e in Asia. Proiettato, oltre che in Siberia, terra nullius, verso il Caucaso e il Caspio, Persia inclusa, con lunghe guerre contro l’impero ottomano, fino all’avventura tardosovietica dell’Afghanistan occupato. E duraturo, fino al crollo dell’impero sovietico, 1989, e poi ancora dopo.
Lo stesso sovietismo è stato una maniera dell’imperialismo russo, in Europa Orientale e in Centro Asia. Stalin semplicemente occupò Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Ucraina, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Jugoslavia, Albania, e ci provò anche con la Grecia. E il Centro-Asia, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan. Sotto una copertura ideologica ma con la forza - con la violenza acquisì l’impero sovietico e con la forza lo mantenne.
È stata russa anche la Finlandia quando si liberò dal giogo svedese, granducato dell’impero russo, dal 1809 al 1917 – divenne indipendente dopo una guerra civile tra “rossi” filorussi e indipendentisti.   
Dell’Ucraina si sa. Fu il ceppo della Stato russo, un migliaio di anni fa, la Rus’ di Kiev. Poi preda di diversi khan locali. Finché non finì in parte sotto i re polacchi della Confederazione polacco-lituana, o Res Publica delle due Nazioni, e in parte entro l’impero russo. Fu indipendente nel 1922, ma come membro dell’Unione Sovietica, integrata alla Russia – pienamente indipendente dalla Russia solo nel 1991.

Ombre - 651

In copertina su “L’Economia” Ferruccio de Bortoli celebra il digitale nel nome del globale - “locale e piccolo non è bello”. Alla pagina dopo lo stesso giornale celebra “il sorpasso”: “Le aziende familiari corrono più delle altre”. Digitalizzate?

Singolare la condanna della Juventus e non degli altri club che hanno praticato le stesse plusvalenze. La condanna, si dice, è in questo caso suffragata dalle intercettazioni. Che però non sono andate a processo, e finché non vanno a processo non sono contestabili. Singolare che, per odio magari da tifosi, si dia ragione al ministro che si contesta, perché vuole regolare le intercettazioni.
 
Come la Juventus hanno agito gli altri club italiani ma, si dice, dice il giudice sportivo Chiné, non sono stati intercettati. E perché no? Per odio contro la Juventus? Perché contro altri club il colonnello della Guardia di Finanza di Torino e i sostituti Procuratori non avrebbero avuto l’onore delle cronache e non avrebbero fatto un balzo in carriera?
C’è del marcio in Danimarca. Molto.
 
C’è, è vero, del marcio non per la solita citazione: le indiscrezioni non sono opera, più spesso, delle Procure della Repubblica, come dice il ministro, ma degli inquirenti. Nel lasso di tempo che intercorre fra la “notizia di reato” e la presa d’atto da parte degli inquisiti. Uno-due giorni prima: bastano per suscitare l’onda d’urto, contro la quale poi sarà difficile difendersi. Basta vedere gli avanzamenti di carriera degli ufficiali che hanno comandato le indagini – ma la cosa è notoria, tutti i giornalisti lo sanno.
 
Il fronte delle intercettazioni è molto ampio. I giornali le difendono ma forse più perché temono gli intercettatori, non per la questione di libertà, come dicono: è un fronte comune tra furbi che si fronteggiano – non c’entra la democrazia.
 
La Consob ha censurato il bilancio della Juventus ma non quello, analogo, della Lazio, che è anch’essa in Borsa. E il motivo si sa ma non si può dire: la Lazio è gestita da Lotito, magna pars del potere “bianco”, nel calcio, e anche un po’ fuori.
 
Letta si congeda da capo del Pd citando San Paolo. Che però era un vincente. E uno, anche, che tollerava poco i “ventri molli”: affarucci, “combinazioni”, correnti.
 
Il Pd si presenta alle regionali con la possibilità di vincerle in Lombardia ma solo perché ha il sostegno dei grillini, e perché il centro e la destra si sono divisi su due concorrenti. Ma non è sicuro, nemmeno con i grillini. Nel Lazio, dove ha governato per dieci anni, esibisce un sindaco fantasma, Gualtieri, e un’eredità del governatore di dieci anni Zingaretti fatta di tasse e nomine di amici.
 
Zingaretti ha optato per la pensione alla Camera lasciando la Regione Lazio a una campagna elettorale con questi handicap per il suo partito – per il povero candidato D’Amato, che pure ha gestito benissimo la sanità, specie durante il covid: la regione col maggior numero di disoccupati dietro la Sicilia, peggio della Campania, che ha analoga popolazione; le addizionali Irpef più alte, fino al 3,33 per cento, il massimo consentito per legge (la Lombardia si attesta alla metà, 1,74 per cento); lo stesso l’addizionale comunale, il massimo consentito per legge, 0,9 per cento; sull’Imu seconda casa Roma ha il record italiano del prelievo; il pil regionale aumentato nei dieci anni di 2 mila euro, contro una media nazionale, Sud compreso, di 2.200. Oltre all’immondizia, tormentone laziale e romano di una decina d’anni.
 
Il sindaco-fantasma della capitale, il professor Gualtieri addottorato a San Marino, è pure lui ex Fgci-Pci, come Zingaretti. E dunque il Pci non era nemmeno una scuola di buoni amministratori come ci hanno raccontato? Sì, Bologna, ma Bologna si amministrava bene anche col papa.
 
Ma forse l’equivoco è del Pd – almeno a Roma: Zingaretti per dieci anni, e ora Gualtieri da un anno e mezzo, sono stati e sono morsi alle caviglie, azzannato, dalla famelica costituency bianca della capitale.
 
Il simpaticissimo Gnonto, ala sinistra a 18 anni della Nazionale, approda in Premier League e viene per questo osannato dalla “Gazzetta dello sport” con due pagine. Viene cioè osannato il campionato inglese, “i giocatori più forti”, “si gioca a viso aperto”, “un’intensità altissima!”, per forza che i giovani se ne vano, vanno in Inghilterra. Poi si scopre che il Leeds, la squadra che ha preso Gnonto, è penultima in classifica. Anche l’ultimo dell’Inghilterra è meglio di Milano.
 
Napoli-Juventus 5-1, Napoli-Cremonese 2-2 (poi 4-5). Non è impossibile, quando si vuole giocare. C’è qualcosa (molto) di non chiaro nel calcio italiano: la Juventus è seconda, dietro il Napoli (era prima di Chiné), con la migliore difesa del campionato, prima dei cinque in una ventina di partite ne aveva presi sette – la Cremonese ultima o penultima.
 
La Cina ha accresciuto le importazioni dalla Russia del 44 per cento nel 2022 – di solo l’1 per cento dal resto del mondo – per un totale di 114 miliardi di dollari. Ha aumentato gli acquisti di gas del 50 per cento e di petrolio del 10. Le importazioni russe dalla Cina sono invece cresciute solo del 13 per cento, a 76 miliardi. Le sanzioni occidentali contro la Russia sono state un regalo alla Cina, che ha potuto rifornirsi di gas e petrolio a prezzi di realizzo.
 
“Nell’area cittadina si calcola che circolino 16.400 cinghiali”, serafica spiega di Roma Lidia Alfonsi, che della capitale è l’assessora all’Ambiente. Una medaglia al merito, il cinghiale libero in città? Abbatterli no, “è pericoloso per i bambini”. Il cinghiale libero invece non è pericoloso, non per l’igiene e nemmeno per i bambini.

Le convergenze parallele – o l’amore tangente

“Sarà buffo paragonare una donna a una tangente, ma tant’è”, è l’ultima riga dei tre racconti. Che non sono geometrici o algebrici come bisognerebbe supporli, insorge anche un minimo di passione, di coinvolgimento emotivo, ma sono organizzati e raccontati come se.
Un pedofilo assassino in attesa dell’esecuzione ricorda come ha circuito una ragazzina, che poi si rivela muta, da cui il titolo del racconto, “La muta”, e infine l’ha uccisa, senza un motivo. Uno strip poker, da titolo poviano, “Mano rubata”, dove il perdente, una lei in questo caso, può optare per il suicidio in alternativa al denudamento. E un incontro, una curiosità, un’attrazione fra due persone sole, di sguardi più che altro, che s’incrociano senza incontrarsi, come le “convergenze parallele” di Aldo Moro – il racconto della donna tangente finale, ma su un fondo realista in questo caso, dello stesso scrittore che a periodi si allontanava dalla famiglia, senza rancori, senza rifiuti, per un oscuro bisogno di stare solo.
Un racconto horror, dichiaratamente – il narratore si proclama assassino, in attesa dell’esecuzione, della condanna a morte. Ma procede verso la fine annunciata senza commozione, né paura o indignazione. Senza pietà: la vittima è fatta vivere con lo stesso algore del suo assassino. Protagonisti di un evento del destino – non si dice “muta come il destino”?
Un racconto della Necessità, attraverso il gioco, il poker a denudamento. “Ora ella era mia eternamente”, riflette l’organizzzatore del gioco, quando infine il caso mette la sconociuta che lo avvince di fronte all’alternativa: o denudarsi oppure perire. Che sembra senza senso, e lo è, ma non nell’economia del racconto – la Necessità è senza senso: è il solo che si svolge con terminologie e fra personaggi comuni, correnti. Col lieto fine, seppure incerto: “Ti amavo e nondimeno ero vuota”.
Un racconto dela realtà irreale. Irreale l’uomo che rifiuta la famiglia e se ne occupa in continuazione. Irreale la sconoscuta che lo intriga – senza motivo. E tuttavia tutto ben solido, pratico, reale, nel lingauiggio, le supposizioni, le considerazioni.
Uno scrittore di testa, si sa, più algido forse di Italo Calvino. E riflessivo, nei canoni dell’“assurdo”, quale allora si teorizzava, negli anni 1950-1060. Racconti filosofici – molto (troppo? non c’è catarsi) - come allora usava, in Francia, che si misurano vantaggiosamente con gli analoghi di Sartre o di Camus. Tre racconti, tre stroie diverse, ma con l’impressione per il lettore di continuare l’una nell’altra. Come tre momenti, o situazioni diverse, di un medesimo svolgimento. Insieme preciso e anche inafferrabile, inappagabile. Di tensione angosciosa formidabile, più e meglio (meno diluita) che negli specialisti contemporanei del genere, Ammanniti, Carrisi. È questo che ha isoalto Landolfi, nella emperie culturale dei suoi anni, neo-realista o comuqnue politicamente corretta dell’epoca. Poi dimenticato, se non per le cure della figlia Idolina, e di Adelphi.
Il risvolto presenta i racconti come storie d’amore, inconcluse, per l’inafferrabilità del femminino: “Tre donne (e una quarta nell’ombra) sono al centro di questi racconti in vario modo d’amore, usciti per la prima volta nel 1964. Tre destini eccentrici, accomunati dal segno di un’anomalia palese o profonda”. Ma sono tre racconti in prima persona maschile, molto ragionati sui “temi”, la necessità, l’incomunicabilità, il caso. L’occasionale, fortuito, combinando cn l’Evento, il destino, l’imponderabile. Tutt’e tre regolati dalla “cifra” di Landolfi, la suspense, “la sospensione” nella terminologia del suo più acuto compagno di merende a Firenze e poi critico, Carlo Bo, “al gioco dell’intelligenza”. L’analogo, si può dire, di Kafka, solo un po’ più argomentato, verboso – una forma espressiva che sarà celebrata da Dürrenmatt.
Landolfi si considerava (voleva) poeta, attesta Bo: “Gli equilibrismi irreali dell’immaginazione” gli costavano fatica, “si spiega quel suo ripiegare alla fine sul dato del «diario» e sull’altro delle sue esercitazioni poetiche che a suo giudizio richiudevano la parte più alta del suo lavoro”. Ma, alla fine, “il più puro e sincero profeta del nulla assoluto”.
Tommaso Landolfi, Tre racconti, Adelphi, pp. 126 € 12

domenica 22 gennaio 2023

Adagio con la Juventus, indietro tutta

“Siamo stupidi o che?” “Ci diamo la zappa sui piedi? “Tuti in Europa si arrangiano con le plusvalenze e gli accordi sugli ingaggi per superare un anno di blocco, solo noi ce ne facciamo una colpa?” Sotto accusa anche la Consob – “gestita da milanesi”: “Nessuno alla Consob inglese chiede conto al Tottenham o al Manchester United delle plusvalenze” – al Tottenham, sottinteso, dove c’è da un paio d’anni Paratici, responsabile del crimine imputato alla Juventus e lui sesso condannato, senza che il club inglese si sia impensierito.
Sbolliti gli entusiasmi per la condanna della Juventus, sono emersi i timori. Assenti i due club milanesi, di proprietà remote, ma un po’ tutti i club di seria A, incluse la Roma e la Fiorentina, di proprietà americana, e anche qualcuno di serie B, si sono agitati molto il giorno dopo, cioè ieri, contro Gravina, il loro presidente, i suoi affiliati della giustizia sportiva - Gravina era già discusso per gli arbitraggi contro, contro il club torinese, come oggi in Juventus-Atalanta, troppo plateali. Li spaventa che l’Uefa, alle cui competizioni alcuni club concorrono, li metta sotto giudizio - ne metta sotto giudizio i conti. Mentre un po’ tutti, compresi alcuni club di serie B, temono la disaffezione di sponsor e investitori promozionali. Nonché la decurtazione dei diritti tv. E la privazione di un ricco match con la Vecchia Signora, nel caso della ventilata retrocessione, che sempre fa il sold-out.
L’indaffarato Chiné ha tralasciato gli altri impegni per spiegare, per tutta la giornata, i motivi “tecnici”, giuridici, della condanna. Ma ha ottenuto l’effetto di moltiplicare. se possibile, lo scontento degli altri club. Che Gravina si sia affidato a tale personaggio, qualificato nella migliore delle espressioni di azzeccagarbugli. Il destino d Gravina ne esce segnato. Non ha contro più solo il suo creatore Lotito, ma un po’ tutti i presidenti del calcio.

Čeferin non balla

Riserve, dopo gli sghignazzi per la cacciata di Agnelli, il “nemico della Superlega”, anche da Nyon, dalla Uefa dell’anglo-sloveno Aleksander Čeferin, e probabilmente dai suoi referenti britannici non tanto segreti. Per lo stesso motivo: c’è il rischio che il business si fermi. Il calcio inglese degli sceicchi non riempie più le casse - le audience in Asia e in Africa si assottigliano, sempre più remote dall’“impero” britannico. La dipendenza finanziaria dai principati della penisola arabica è “appiccicosa”, benché sostenuta da Londra, dagli “gnomi” della City, e crea problemi d’immagine e di diritti civili. La Liga spagnola è come la rana della favola, ora lotta per non soffocare, dopo essersi gonfiata di palloni d’oro a buon mercato. E non c’è molto altro dietro – non in Europa (non si confonda il calcio mondiale, che è Fifa, con quello europeo): c’è, ci sarebbe, poteva esserci, solo l’Italia, Francia e Germania portano poco, commercialmente.

Tra sbirri e giornali un gioco dei furbi

Si contesta Nordio, il ministro della Giustizia, cosa ha detto, cosa intende dire, e si rivendicano le intercettazioni come veicolo di libertà, invece che di tecnica giudiziaria, dell’apparato repressivo. Il mondo di Orwell, del “controllo totale”, come un campo di libertà? È evidente che no.
È un problema culturale, di un’utopia di sbirri? Forse di incapacità di giudizio. Sicuramente di piccolo potere, micragnoso, dei cronisti giudiziari, quelli degli angiporti delle questure, promossi ad alfieri dell’opinione pubblica – dei grandi quotidiani ridotti al giornalismo spazzatura dei tabloid britannici. Di cui si presume che siano i soli in grado di fare le audience per la politica in Italia.
È anche il degrado della scienza della politica dall’infausto Di Pietro in poi, uno che voleva solo arricchirsi. E la gloriosa controinformazione avvelenata dalla libertà di aggredire. Se ne fa la celebrazione il giorno in cui si ricorda la morte del giovane Franceschi, assassinato dalla polizia per nessun motivo, perché manifestava, una morte per la quale nessun giudice, nessun tribunale si è voluto pronunciare. Come per Giorgiana Masi. Come già per piazza Fontana, un insabbiamento dietro l’altro.
Ma forse è solo un jeu des dupes, un gioco di furbi, dei giornali che si tengono buoni le “forze dell’ordine” e i giudici. Invece di obbligarli a lavorare. 
La giustizia penale non funziona, si sa. Funziona l’antimafia perché le mafie non sono più protette: avevano osato troppo, con le stragi e le centinaia di vittime fra politici, magistrati, inquirenti e bersagli ciechi, occasionali (questo Messina Danaro, che viene trattato come una persona, l’amore della figlia e altre scemenze, è un bestione, di malvagità impensabile), e le polizie possono infine tornare a fare le polizie. Per il resto è solo carrierismo, all’ombra di un giornalismo di comodo, opportunista, avventurista.

L'Italia dei miracoli

Il breve capitolo “L’Italia del miracolo”, una decina di pagine, meno, sa mettere assieme un pranzo all’Eliseo, al tavolo con Fernand Braudel, il “miracolo economico” e “l’Oscar alla lira italiana”, Enrico Mattei e le “sette sorelle”, il no al piano urbanistico nazionale (di Fiorentino Sullo), la Corte costituzionale e l’adulterio della moglie, le denunzie contro la “Dolce Vita” di Fellini, e  il festival di Sanreno in Parlameno. Tutto preciso – documentato – e ben raccontato.
Il sito offre una vasta serie di ricordi, testimonianze, reportages, riflessiooni, e anche una “storia” dell’Italia di cinquanta e sessanta anni fa, nonché del giornalismo che allopra si praticava, del mitico direttore dell’Ansa per oltre trent’anni (vi avviò perfino la digitalizzazione, primo caso fuori degli Stati Uniti, nel 1970 – la preistoria del digitale), morto un anno fa.
Molti consigli anche sul giornalismo – che insegnò alla Luiss, lasciata l’Ansa. Che ora sanno di arcaico, l’opinione pubblica orientandosi sui social, una specie di ritorno allo stato selvaggio. Consigli di mestiere ma anche criteri di deontologia dell’informatore di professione. Nonché ricordi importanti della reinvenzione del giornalismo in Italia nel dopoguerra. Lui partiva da Firenze, dalla “Nazione del popolo” della Liberazione poi diventata “Giornale del mattino”, diretto da Ettore Bernabei e poi da Hombert Bianchi. Ricco di collaboratori illustri, e soprattuto organato innovativamene, con titoli chiari e molte fotografie – “Un quotidiano che inventò il futuro”
Sergio Lepri, Consigli e documenti per chi opera nel campo dell’informazione, www.sergiolepri.it