sabato 11 febbraio 2023
Profitti in corsa con l’auto elettrica
La transizione all’elettrico, con la mobilitazione dei ceti ad alto reddito nei segmenti superiori del mercato, e con le sovvenzioni pubbliche per le cilindrate medio piccole, ha rimpinguato le casse dei costruttori di automobili che hanno puntato sull’elettrico subito dopo Tesla.
Pasolini ride
Pasolini è stato di tutto per il
centenario della nascita, poeta, scrittore, regista e polemista ovviamente, ma
anche pedagogo, pittore, architetto, musicista, e santo. Solo filosofo non è, non
è stato: gli scritti corsari e luterani, come già quelli linguistici, sono di
respiro corto - problematici più che riflettuti, e opportunamente questa
mostra, una delle tre romane per il centenario, si limita a documementarli, con
i giornali dell’epoca sui quali li pubblicava, e niente più.
Graziella Chiercossi, la cugina che
accudiva la mamma e Pier Paolo, già a Monteverde Vecchio e poi all’Eur, accoglie
i visitatori con una audiotestimonianza sulle case, e sugli usi in famiglia,
specie di lavoro, dello studio di Pier Paolo. Moltissimi i giornali e i periodici
sui quali, soprattutto negli anni 1970, Pasolini venne pubblicando gli scritti
corsari – con una appendice impressioante di “ultime interviste” a metà
novembre 1975, dopo l’assasinio. Ma non solo, ci sono anche l’“Avanti!”, “Il
Resto del Carlino”, il “Guerin Sportivo”, alcuni altri dei tanti giornali e
periodici che pubblicavano scritti o interviste – da lui stesso scritte - di Pasolini,
che qui sono in mostra. Con una documenazione fotografica varia e nuova su momenti
di vita. Sui campi di calcio soprattutto, di Pasolini atleta curato, non da
scapoli contro ammogliati, pettinato alla brillantina, scarpini, calzettoni, parastinchi,
calzoncini, sospenorio evidentemente, maglietta a tiro, pulita e stirata, e col
numero giusto (allora) per il ruolo. Disteso. Sul set di “Salò” perfino ride, non
per posa, al naturale, nelle foto di Deborah Imogen Baer.
Una mostra interessante, seppure piccola,
ma estremamente dispersiva, come tutto quanto si produce al Maxxi. E faticosa,
nell’ordinata confusione del Maxxi. Dove Ming Wong, millennial?, o Yang
Pei Ming, costeggiano Mino Maccari, etc. Minacciosi incombendo sulle minime
vetrine pasoliniane. Con didascalie da microscopio, illuminate
parsimoniosamente, negli spazi perduti della cattedrale di Zaha Hadid alla dispersione
- pessimo avvio di Millennio, impensabile, che vent’anni fa, già in transizione
ecologica, si costruisse questa enorme fabbrica di spreco, di spazi e di
energia, d’inverno e d’estate, e d’inservibilità.
Hou
Hanru-Bartolomeo Pietromarchi-Giulia Ferracci, Pier Paolo Pasolini. Tutto è
santo. Il corpo politico, Maxxi Roma
venerdì 10 febbraio 2023
Francia-Italia 0-3
La guerra di Macron all’Italia, prima sull’immigraziome
ora sull’Ucraina, non aiuta il presidente francese, minoritario in Francia su
tutti i fronti, e non indebolisce Meloni, che il banchiere-presidente ha eletto
a suo punching-ball. Meloni nei sondaggi avrà vinto martedì la
sua seconda elezione in pochi mesi. Mentre Macron resta isolato in Francia, non
riaggancerà le sinistre con la snobberia del governo italiano di destra.
Puntando l’Italia per puntellarsi, Macron mette in
difficoltà il presidente della Repubblica Mattarella, suo interfaccia nel patto
del Quirinale. L’Italia non ha nessuna convenienza a fare la guerra alla
Francia, semmai lo potesse, ma non può farsela fare: pur con tutte le migliori
intenzioni, Mattarella non può dimenticare quanto costò all’Italia l’aggressività
di Sarkozy nel 2011, provocando la crisi del debito e l’aggressione alla Libia.
Col vertice parigino a poche ore dal Consiglio Europeo
con Zelensky, Macron ha rinverdito la gloriola francese dell’asse con Berlino,
che però a Berlino dice poco. Non da ora, dall’unificazione: il socialista Schröder
non ne teneva conto, come ora Scholz (difesa, economia), Merkel, che andava
volentieri in Francia, soleva sghignazzare attorno all’“asse”. In Germania il
fronte cristiano-democratico corteggia invece Meloni, nel quadro della ricerca
di una sponda centrista dopo Berlusconi.
L’auto è cinese
Si produce in Cina
già quasi un terzo delle automobili che si producono nel mondo, e la quota cinese
è destinata a crescere decisamente col passaggio all’elettrico.
Nel 2021 sono
state fabbricate in Cina 26,08 milioni di autoveicoli, in aumento sul 2020 e
sul 2019 malgrado le restrizioni covid – ma molto meno dei 29 milioni di capacità
produttiva utilizzata nel 2017. In totale, si contabilizzano nel 2021 80,15 milioni di autovetture prodotte nel mondo.
Il dato 2021 è in
aumento del 59 per cento sul 2010, quando in Cina furono fabbricati 18,26
milioni di autoveicoli.
In parallelo con
la crescita dell’industria automobilistica cinese sono crollate le produzioni di
autoveicoli negli Stati Uniti e in Europa. In parte per le delocalizzazioni in
Cina, da parte degli Stati Uniti, della Germania (Volkswagen fabbrica più
automobili in Cina che in Europa), e della Francia, col marchio Renault. La
produzione americana è passata tra il 2010 e il 2021 da 15,46 milioni a 9,17.
Quella tedesca da 5,91 milioni a 3,31. Quella francese da 2,23 a 1,35.
Resta pressoché
invariata la produzione nei apesi asiatici. In Giappone era di 7,74 milioni di
autovetture nel 2010, è stata nel 2021 di 7,85. L’India è passata da 3,56 milioni
a 3,39. La Corea del Sud da 4,27 a 3,46.
La produzione
italiana, fino agli anni 1980 la prima o seconda in Europa, in gara con Volkswagen,
è ora marginale, dietro Germania, Francia, Spagna e Regno Unito: sulle 800 mila
autovetture l’anno.
Cronache dell’altro mondo - meridionalistiche (248)
Per la prima volta
nella storia ci sono più opportunità di lavoro in Florida che in New York, secondo
i dati del Census Bureau federale.
Il Texas e la
Florida, secondo gli ultimi dati del Census Bureau, capeggiano la lista degli
Stati col maggiore tasso di immigrazione interna, mentre California e New York
sono gli ultimi.
Nel 2018 Hillary
Clinton vantava una vittoria parziale nell’elezione presidenziale che aveva
perduto, nel 2016: “Ho vinto negli S tati che sono ottimistici, variegati, dinamici,
proiettati in avanti”, la California per prima e poi lo stato di New York. H.
Clinton rifletteva l’opinione corrente che gli Stati che votano democratico sono
più aperti e innovativi, mentre quelli di tradizione repubblicana sono più
poveri, stanno peggio, meno istruiti e meno produttivi. Le statistiche
mostrerebbero il contrario, o un cambiamento in atto. Con gli Stati meridionali,
prevalentemente repubblicani, in corsa.
Buona morte con riso sardonico
In epoca senza
tempo, ma con l’automobile, i jeans nuovi, e il televisore in camera. In una geografia
inventata ma non fantastica – i fagioli bianchi di Tonara e le ciliegie di Aritzo
sono reali, e così pte i tanrtssimio dolci di cui si attesta l’uso, la
confezione e il sapore. In un mondo affatato invece che arretrato - la notte di
Ognissanti le porte delle case si lasciano aperte, non solo per dare alla
narazione il suo punto di svolta, ma perché le anime dei morti entrino a
nutrirsi. E aperto, soprattutto alle guerre, la prima e la seconda, con tante
vedove e tanti storpi, ma
circoscritto, qual
è la Sardegna. Eventi normali ed eccezionali vi si producono che coinvolgno il
lettore, anche se Murgia, al quasi esordio come narratrice, ha voluto mettere
assieme tre temi d’attualità, quindici anni fa e ancora oggi, nel quadro della “correzione
politica”: la “buona morte”, la pedofilia, e l’affido, o la famiglia per
scelta.
Una vechia sarta
prende in affido, “fill’e anima”, figlia dell’anima, una bambina che fa i dolci
col fango, la più piccola di quattro sorelle, figlie di una vedova, che cresce.
Praticando se richiesta la buona morte, per ridurre o eliminare le sofferenze a
chi è già condannato. Un uso e un “mestiere” che sarebbe etnico, tradizionale e
sempre in pratica - come già la “mammina” dei parti, e la mammana degli aborti?
Sotto la scorza della legge.
Un racconto tematicamente
inquietante, se poco poco uno si diletta di storia. La buona morte sa sempre di
eugenetica (razzismo) e di Hitler, c’è poco da fare, se programmatica – la realtà,
di fatto, si compone e si ricompone. E nella geografia fantastica ma non tanto,
non si può non evocare la vecchia pratica isolana di uccidere i vecchi. “Tra l’antichissima popolazione di
Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre
uccidevano i vecchi, ridevano sonori”, spiega Propp, l’analista delle fiabe. È
una commistione: a Creta, alle origini dell’Occidente, una statua di bronzo fu
donata, di nome Telo, che ogni giorno faceva il giro dell’isola, e se
incontrava un nemico fenicio lo arroventava abbracciandolo e rideva. La risata
passò in Sardegna quando Telo e i cretesi, fonditori di metallo, si trasferirono
nell’isola ricca di miniere – via Sardi di Libia, lì vicino? Il riso nacque
così irridente, sardonico, cioè in Sardegna.
Letto a distanza
dal succès de scandale della prima uscita quindici anni fa, il romanzo
fa emergere (pesare) il disegno politico. Ma è una lettura sempre gratificante:
inventiva, accattivante. Di giusta misura anhe nei linguaggi, tra le
intraducibilità linguistiche, gli usi folklorici e una umanità moderna-tradizionale.
Il riuso delle forme espressive locali è di speciale interesse, sempre vivo – a
fronte, per esempio, della stagione dei dialetti, così perenta, per esempio in
Pasolini, forse anche in Gadda.
Michela Murgia, Accabadora,
Einaudi, pp.165 € 12
giovedì 9 febbraio 2023
Secondi pensieri - 505
zeulig
Imperialismo
– “La visita di Francesco in Congo mirava
a denunciare la violenza e la corruzione nello Stato centroafricano, i violenti
e i corrotti si misero in fila per un’udienza”. Il periodico di sinistra americano “The Nation” può sintetizzare
così, senza irriverenza, il recente viaggio del papa nel Congo. L’Africa delle indipendenze è un’occasione perduta, sprecata, tra
corruzione, imprevidenza, tribalismo accentuato, sotto forma di guerriglia permanente.
Quasi tuti i Paesi africani sono dittature. Anche di caporali.
Il colonialismo
ha creato, distruggendo, l’indipendenza distrugge e non crea. C’è una funzione
pedagogica insita nella stessa autogiustificazione dell’imperialismo, la
didattica. Che è essa stessa violenza, anche nelle sue prime applicazioni, all’infanzia.
E di più come legge, dopo la conquista, e amministrazione, col concetto esoterico
di cosa pubblica – non nuovo né strano, e anzi scontato, se data dalla repubblica
antico romana, ma nel resto del mondo sì. C’è un richiamo dell’imperialismo, di
cui viene fatto aedo Kipling (a torto, Kipling era rispettoso dei “suoi indiani”),
o del “fardello dell’europeo”, perento naturalmente con le doverose indipendenze,
ma con perdita.
All’altro
estremo dello spettro, dell’impero stabile da quasi un secolo, degli Stati Uniti,
l’interesse nazionale dichiarato preminente, soprattutto nei due decenni del
millennio, viene recepito acriticamente e accettato, quale baluardo di libertà
di ognuno. Esibito e non recondito, da presidenti di destra come di sinistra. “Quando attueremo
questo progetti”, ha detto ieri il presidente americano Biden nel solenne
discorso annuale sullo stato dell’Unione, cioè quando saranno operative le sue
due leggi per incentivare e sussidiare infrastrutture, industrie e tecnologie
americane, “compreremo americano. Buy American è stata la legge
del Paese dal 1933. Per troppo tempo le amministrazioni del passato hanno
trovato il modo di aggirarla. Ora non più”. Il paese che ha teorizzato, aperto,
e imposto la globalizzazione nel 1990, disarticolando i mercati del lavoro di
qualche miliardo di persone, tra Europa e Americhe, a favore dello schiavismo socialista
della Cina, chiude ora le porte con un mercantilismo dichiarato altrettanto brusco.
Si vogliono gli ottant’anni del dopoguerra
come un’epoca di libertà. di lotta tra la libertà e l’asservimento. Ma è di un
imperialismo con tutte le proprietà imperiali, di guerre, e quindi asservimenti,
e divieti e imposizioni, che l’epoca prende corpo.
È indubbio che un
secolo è passato, o quasi, di impero americano mondiale. Non grande e
indiscusso come fu quello britannico nell’Ottocento ma dotato di ben 737 basi
militari sparse nel pianeta. Sotto le insegne della libertà e la democrazia. Nella
sintesi di Obama, nel discorso alla Nazione dell’11 Settembre 2014: “Come
americani, avvertiamo la nostra responsabilità di nazione-guida. Dall’Europa
fino all’Asia, dall’Africa fino al Vicino Oriente, ci leviamo in piedi per la
libertà, la giustizia, la dignità. Questi valori hanno guidato la nostra
nazione fin da quando venne fondata” - con l’augurio finale consueto: “Dio
protegga la nostra Nazione”.
Un impero altrettanto
in buona coscienza come l’impero romano, si può aggiungere, lo fu sotto il
segno della legge – non c’è paese che onori tanto i Campidogli come gli Stati
Uniti - ma altrettanto severo. Con gli Stati rogue, come usa nell’opinione
pubblica americana, gli Stati “canaglia”.
Un impero di
diritto, come ogni altro impero – che fa il suo proprio diritto. E nel caso di
Clinton con Blair in Iraq, e poi di Obama in Yemen, Libia, Siria e Ucraina, democratico,
liberatore, progressista, di sinistra. Di Obama in strana alleanza (Yemen,
Libia, Siria) con le petromonarchie, Arabia Saudita e il minuscolo ma attivissimo
Qatar, le più impegnate attive nell’ispirazione e il finanziamento del
fondamentalismo islamico di matrice wahabita, e quindi dell’esatto opposto della
democrazia e la libertà – “il Male” nella terminologia americana. Con Hillary
Clinton alla Segreteria di Stato, presidente mancata nel 2016, la cui
Fondazione è - era – ricca soprattutto delle donazioni delle petromonarchie.
L’imperialismo può
conservare le sue ragioni anche in quelle della democrazia e la libertà? Il concetto
di imperialismo va rivisto, nel mondo “unito”, cioè globalizzato.
Occidente
– Sempre, a partire da Erodoto (ma non del
coevo Tucidide), l’Occidente si definisce in relazione a un Oriente che lo
stesso Occidente ha inventato (formato, redatto). Non come due masse limitrofe
e contrapposte, fisiche (tettoniche, geografiche, climatiche), tribali, politiche,
ma come due culture o modi di essere, di qua libere e democratiche, di là autoritarie
e asservite. È sulla persistente convinzione, da Atene e l’antica all’illuminismo,
che ha preparato il colonialismo, nel più vasto quadro dell’imperialismo, della
preminenza culturale e politica oltre che economica e militare. Riaffermata
oggi con più forza: ora che la bilancia dei poteri mondiali non è più così
sperequata, non allo steso modo, con l’Occidente nel piatto superiore, tanto
più si fa dell’Occidente il difensore della libertà e la giustizia. Ma è stato
l’Occidente a creare questo bilanciamento, con la globalizzazione, per motivi
di guadagno più che di educazione o costrizione alla libertà. Perché questo è
stato il trigger della globalizzazione, il guadagno, facile, enorme, con
le produzioni asiatiche a costo prossimo allo zero, in condizioni di schiavitù
del lavoro, e non un disegno di prosperità, libertà, pace. Che, al contrario, è
stato anzi prevenuto e impossibilitato, con le guerre preventive a mezzo mondo
in soli trent’anni. Col riconoscimento e l’ammissione alla Wto della Cina, per
le favorevolissime condizioni di guadagno che proponeva, malgrado le tantissime
derogazioni di quel paese ai diritti sindacali, civili e politici di quel paese,
contrarie agli statuti perequativi dell’Organizzazione del Commercio, ma non
della Russia, che pure qualche legge liberale ha fatto. E anzi contro la Russia
animando un colossale riarmo, dall’ex Jugoslavia alla Georgia e all’Ucraina. Cn
la frammentazione definitiva da ultimo, nella guerra contro la Russia,
dell’Occidente, che sempre più dichiaratamente si identifica in termini di potenza
militare e sovranità culturale (politica) con gli Stati Uniti, mentre l’Europa sempre
più si manifesta in stato di subordinazione e declino.
Singolare
e significativa è in questo quadro la presentazione che Biagio de Giovanni si
fa della guerra in Ucraina come scontro “tra potere orientale e potere
occidentale” - “Questo scontro è carico di filosofia”, “Corriere della sera”, 8
febbraio: l’Oriente “è qualcosa di più di una autocrazia. È l’idea radicata di
un potere”. Come se l’India, e la stessa Cina, o la Russia fossero immense plaghe
di potere tribale. Come se la Russia per tutto l’Ottocento, sconfitta la temibilissima
Francia napoleonica, vittoriosa sull’impero austro-ungarico e sull’incipiente
potenza prussiana, non avesse vissuto la stagione delle libertà, analoghe a
quelle delle carbonerie repubblicane e dei movimenti risorgimentali che tanto
si onorano in Italia. E via via sviluppato il costituzionalismo fino al rifiuto
della guerra e alla rivoluzione d’Ottobre - una rivoluzione sicuramente
democratica. Del resto il filosofo stesso De Giovanni, citando Jünger e il suo
“Nodo di Gordio” – “Jünger dice che il gioco degli scacchi non poteva che
provenire dall’Oriente, perciò l’uccisione del re chiude la partita” - lo dice
volendo dire il contrario: la partita si chiude con l’uccisione del re.
“L’Occidente
nasce in Svevia”, secondo Heidegger. E non è possibile, proprio lì è il nodo
irrisolto della storia tedesca, Croce l’ha accertato, che la vittoria di
Arminio nel 9 d.C. tenne la Germania fuori dalla cultura latina. Secondo Hannah
Arendt l’Occidente nacque quando i romani inventarono la politica estera, la
“politicizzazione dello spazio”. Una certa cultura, centrale nell’Italia
repubblicana, insiste che questo Occidente è nato nell’anno Mille. Col mito
della Croce, del Dio uomo. È partita allora la corsa alla semplificazione della
storia, a mezzo dei miracoli, le reliquie, le missioni, le crociate, la
teologia, la superbissima pretesa dell’uomo d’inquadrare Dio, e l’orgoglio
rovesciato di san Francesco, le cattedrali e l’arte, la creazione del classico,
l’accumulazione. L’anno Mille suona bene, è buona data di nascita, Carducci già
lo notava: nacque il cristiano con la spada, il cavallo, l’onore, e l’amore
cortese.
(continua)
Pacifismo – Si invoca la pace (il papa Francesco), si
consiglia la pace (Kissinger) in una guerra d’aggressione, quale quella della Russia
contro l’Ucraina. Non si dovrebbe consigliare, volendo essere equanimi, il
ritiro puro e semplice dell’aggressore, e semai una sua penalizzazione? Evidentemente
no, per un fatto che non si dice: le cause dell’aggressione.
C’è – c’era un tempo – nella storiografia la ricerca
delle fonti di un evento, per un giudizio o un’analisi più equanime dell’evento
stesso, più realistica, più giusta. Anche delle guerre d’aggressione. Quale la
seconda guerra mondiale, d’aggressione per antonomasia. Eppure vi si esercitarono
A.J.P. Taylor e altri storici inglesi e americani molto presto, quasi a ridosso
del terribile e oltraggioso evento.
La richiesta di Kissinger ha come sottinteso il
rischio nucleare: che il conflitto derivi all’uso della Bomba se la Russia si
trovasse alle corde -ma anche il papa, sotto l’umanitarismo generico, prospetta
questo timore. Che è a prima vista insensato: perché la Russia dovrebbe usare
le armi nucleari, e quindi condannar e anche se stessa, per una guerra d’aggressione,
se la parte dell’Ucraina di cui rivendica la sovranità non le venisse data in
possesso? Perché la Russia dovrebbe o potrebbe “essere messa alle corde”? Da
chi? Non dall’Ucraina, evidentemente, tra i due paesi c’è una sproporzione enorme
di forze. Perché l’Ucraina combatte una guerra “per procura”, questa è la tesi
della Russia – degli Stati Uniti, della Nato, dell’Occidente. Ma lo sesso retropensiero
è alla base della richiesta del papa e del ragionamento di Kissinger – la guerra
nucleare sarebbe una guerra Russia-Occidente, e allora avrebbe senso.
Si dice anche che la pace è indivisibile, e
questo è più giusto. Ma di fatto, nel farsi della storia, il pacifismo non può
essere radicale – come l’obiezione di coscienza: deve confrontarsi con le cause
della guerra.
Il pacifismo può essere storico, non può essere
utopistico – non avrebbe sesso.
Storia - La
storia data dall’anno Mille, secondo il filone non secondario della storia
provvidenziale. Il senso della durata, inerente alla religione, viene
trasformato dal cristianesimo, a partire dal Mille, in teofania. Pasqua
prevarica Natale, la redenzione l’incarnazione.
zeulig@antiit.eu
La Sicilia liberata dall’ucraina
Un’immagine dell’Ucraina
che, vista oggi, apre il cuore. Tutto è bello, verde, spiritoso, naturalmente
biondo, e canagliesco, nella festa d’addio di una giovane nonna, Vlada Koza,
che chiude casa e affari per accorrere in Italia, dove la figlia è sposata, per
aiutarla a gestire il nipote appena nato. E per questo ha studiato “un poco
italiano” e ha invitato amici e conoscenti a una festa d’addio, per cedere loro
questo o quell’arredo di casa, in trattative veloci per scontare il miglior prezzo,
mentre una band locale li intrattiene con “Fatti mandare dalla mamma”.
Tutto andrà poi di
traverso. La figlia, e un po’ anche il genero, non la vogliono in casa, troppo
piccola. Persa per strada tra le prostitute al fuoco, e incidentata, Vlada finisce
in casa di chi l’ha investita. Che è mafioso. Dove di si troverà a “fare
l’ucraina”, a fare le pulizie. E alle pulizie vuole indirizzare i figli disordinati
del capomafia. Che tanto capo non è, dovendo soccombere a un suo proprio capo….
Un’Ucraina sovvertitrice, anzi liberatrice, della Sicilia. Dalle sue paure e i
suoi linguaggi. Senza spocchia, con l’innocenza.
Un’idea brillante di
Anastasiia Lodkina. Sulla mafia come è, e sulle ucraine in Italia. Che la sceneggiatura
purtroppo in parte dissipa. Tuttavia una produzione gradevole, oltre che
meritevole, dei Saccà. Una commedia che avrebe meritato più attenzione, e più fortuna
al botteghino: ridere della mafia, stupida tanto quanto è sanguinaria, e oggi
dell’Ucraina, non è facile, con “Koza Nostra”, doppio gioco di parole, si può.
Giovanni Dota, Koza
Nostra
mercoledì 8 febbraio 2023
Dalla globalizzazione al confronto, la leadership americana
La Germania
riarma, il Giappone pure, e di conseguenza la Corea: l’Occidente è perento, di fatto,
ognuno si difende da sé – non subito ma presto. Gli Stati Uniti sfidano la
Cina e l’Europa nell’industria dei chip e nella nuova frontiera industriale dell’intelligenza
artificiale. Gli Stati Uniti sfidano la Cina e la Russia con fronti di guerra a
Taiwan e in Ucraina. E contro Bruxelles, last but not least, adottano coefficienti bancari più permissivi, rispetto a quelli teoricamente obbligatori di Basilea.
Dalla
globalizzazione economica non si passa al multilateralismo politico (alla “bilancia
dei poteri” come Kissinger aveva divisato il multilateralismo), ma alla
leadership americana infine dichiarata.
Le “catene
di valore” (assetti produttivi) rimangono ancora globali, con la Cina, e sempre
più l’India, fabbriche del mondo, i guadagni sono sempre altissimi. L’interscambio cino-americano nel 2022 è stato da
record, sui 700 miliardi di dollari. Malgrado i problemi iniziali dei trasporti
marittimi, che hanno acceso l’inflazione in America, e le restrizioni covid,
specie in Cina. Ma il protezionismo
avanza. Non ancora con i dazi, ma sì col mercantilismo: con le sovvenzioni alle
industrie nazionali e i contingenti alle importazioni. “Quando attueremo questo progetti”, ha appena
detto il presidente americano Biden nel solenne discorso annuale sullo stato
dell’Unione, cioè quando saranno operative le sue due leggi per incentivare e
sussidiare infrastrutture, industrie e tecnologie americane, “compreremo
americano. Buy American è stata la legge del Paese dal 1933. Per
troppo tempo le amministrazioni del passato hanno trovato il modo di aggirarla.
Ora non più”.
Le due leggi
qualificanti del primo biennio della presidenza Biden, l’Innovation and
Competition Act del 28 marzo 2022 e il Chips and Science Act del 9 agosto,
entrambe largamente dotate, e votate all’unanimità, sono dichiaratamente protezionistiche
e aggressive. Sotto argomentazioni chiaramente pretestuose di difesa militare. La
presentazione del Chips Act è stata lasciata al consigliere presidenziale per
la Sicurezza, Jake Sullivan, per il quale si avvia “un investimento più grande del
costo reale del progetto Manhattan”, del progetto per la bomba atomica, con l’obiettivo
di “imporre costi agli avversari, e con il tempo perfino degradare la loro capacità
sul campo di battaglia”. Ma lo scopo vero e notorio è bloccare la crescita della
Cina come potenza economica al di sopra degli Stati Uniti.
È un
cambiamento – una deriva – che gli Stati Uniti impongono da un decennio, con la
presidenza Trump aggressivamente rispetto a quella felpata di Obama, e con
Biden più fattuale di Trump. Da eredi infine anche nel linguaggio della tradizione
coloniale europea dell’Otto-Novecento, dell’imperialismo come sfida di civiltà.
All’ombra cioè dei diritti di libertà e di benessere Trent’anni fa imponevano la
globalizzazione, la Cina fabbrica del mondo, con la disintegrazione del mercato
del lavoro “occidentale”, di assetti secolari di questo mercato, in Europa e
negli stessi Stati Uniti. Con la stessa buona ragione di sé, ne impongono ora lo
smantellamento. Parziale, secondo le istanze della leadership americana,
infine rivendicata.
Giornalismo sbirro
“Nessuno ha dubbi
sulle qualità del pm, esperto di reati economici e autore di decine di
pubblicazioni specialistiche”: il “Corriere della sera” si schiera a difesa del
giudice Santoriello, quello che professava “odio la Juventus”, il club che ora, dopo
averlo intercettato per alcuni anni, può mandare a condanna. E aggiunge, il
giornale, fine: “Più che un ultrà - la grande passione è per il basket - un assiduo
frequentatore di codici e convegni”. Un tributo del giornale ai suoi informatori,
che quindi non erano il giudice Santoriello ma i suoi sostituti, devoti. Mancando
però l’evidenza, che il giudice professo odiatore ha utilizzato delle intercettazioni,
frasi cioè estrapolate dal contesto, come “prova” per mandare ar gabbio mezza
società. Come gli spiega un modesto impiegato dello stesso club, non un
linguista né un epistemologo: “Credo che alcune frasi estrapolate possano assumere
un significato diverso da quello che hanno”. Incapacità non può essere, è proprio
la deriva del mestiere di cronista - ben due redattori il “Corriere della sera”
schiera per capire meglio.
La civiltà
giuridica si sa che in Italia è sotto ai piedi – due riforme in due anni, e una
terza si annuncia, apparentemente senza sbocco. Da quando è sotto l’imprinting
di Di Pietro, un giudice giustiziere che poi si è rivelato corrotto. Ma i
giornalisti? Di Pietro li aveva ridotti a cani da cuccia, secondo i memoriali
degli stessi “suoi” affezionati cronisti di nera.
Lo stesso “Corriere della sera”
apre peraltro con una vetta rara di ipocrisia: “A
questa malattia incurabile della modernità, a cui con inevitabile
approssimazione si dà il nome di narcisismo, va ascritta la battuta del
pubblico ministero Santoriello che sta suscitando tanto scandalo. Il
magistrato, che tutti gli addetti ai lavori, e persino quelli ai livori,
descrivono come un modello di imparzialità…”. Complottismo, argomenta Gramellini,
l’autore della intelligente sintesi: “O non ho appena sentito un amico
interista sostenere che Santoriello è uno juventino che finge di odiare la sua
squadra del cuore per farla assolvere senza suscitare sospetti?”. Perché Gramellini
non è un napolista, è un torinista, dichiarato, in molteplici esercizi di narcisismo, quotidiani – quindi più incurabilmente malato o più ipocrita?
Il
calcio non è una cosa seria. Ma i giornali? Se si incrimina una squadra di
calcio, amata o odiata, non importa se si fa con frasette estorte? Siamo tutti
sbirri? Tutti nei giornali.
Il papa non era fascista
Singolare assunto,
e singolare trattazione, del rapporto tra il fascismo e la chiesa, e in
particolare tra Mussolini e Pio XI, il milanese papa Ratti. Mussolini aveva
grande opinione della funzione del papato, della sua “imperiale” durata e
proiezione. Fu in piazza San Pietro a Roma il 5 febbraio 1922, dieci mesi prima
della “Marcia”, per il conclave che il giorno dopo avrebbe scelto il cardinale
Ratti – ci fu da semplice cittadino, non avendo preso nemmeno un seggio alle
elezioni del 1919, benché schierasse nomi eccellenti, tra essi Toscanini e
Marinetti. E locupletò la chiesa nei suoi primi anni di governo, che coincisero
con i primi anni del nuovo pontificato. Con “atti del governo che furono doni
molto garditi dal Santo Padre, come l’introduzione dell’insegnamento della
religiine nelle scuole elementari e l’istituzione dell’esame di Stato che parificava
gli istituti privati cattolici alle scuole pubbliche, l’obbligo di esporre il
crocifisso nelle aule scolastiche, l’incompatibilità tra fascismo e massoneria,
l’opposizione al divorzio col riconoscimento della sacralità del matrimonio, l’inserimento
delle feste religiose nel calendario civile, l’esenzione degli ecclesiastici
dal servizio militare, il sostanzioso aumento della congrua ai parroci,
contributi finanziari per il restauro degli edifici religiosi, il ripristino dei
cappellani nella Marina e l’istituzione dei cappellani nella Milizia, il riconoscimento
dell’università Cattolica di Milano, il salvataggio del Banco di Roma”.
Mussolini ha fatto
tutto questo, ma anche di più. Ha creato l’Opera Nazionale Balilla, contro il
Vaticano. Nell’anno santo 1925 ha creato lo Stato totalitario, ha soppresso le
libertà civili oltre che le politiche, ha espulso i deputati Popolari dalla Camera.
In un clima di violenza tale che la segreteria di Stato vaticana prudentemente
aveva organizzato il viaggio all’estero di don Sturzo. Il 14 dicembre, nota lo
stesso Gentile, il papa chiuderà mesto il giubileo dicendo “la gioia dell’Anno
Santo intrisa di acerbe afflizioni”.
Mussolini aveva
grande considerazione per il potere “universale” della chiesa. Commentando la
morte del papa precedente, Benedetto XV, il 22 gennaio 1922 scriveva che il
papa era “un imperatore, sia pure elettivo”, discendente “in linea diretta
dall’impero di Roma”, a capo del “più vasto e
più veccho impero del mondo” – “dura ormai da venti secoli” - con
capitale sempre a Roma. Sì, ma il papa?Mussolini era opportunista con la
chiesa come con tutto il mondo.
Mussolini
sosteneva di avere incontrato il cardinale Ratti a Milano nel Duomo, per la celebrazione
del Milite Ignoto, il 4 novembre 1921, e che il cardinale era stato “cortesissimo”,
permettendo agli squadristi di entrare in Duomo con i loro gagliardetti. Lo
storico registra anche una confidenza che negli stessi giorni Ratti aveva fatto
al suo amico Giacomo Boni, un architetto, così ripresa da un giornalista francese
su “L’Illustration” quindici anni dopo: “Mussolini, un uomo formidabile”,
avrebbe detto “parlando con voce profetica”. Per concludere che, “se non è mai
bene che un uomo solo divenga onnipotente”, Mussolini era però geniale, e “di
cosa è fatto il genio? Di un grano di follia”. Ma Mussolini non era potente, un
anno prima della Marcia. E lo steso storico avverte brusco in nota che Mussolini
vantava incontri che non aveva fatto, dicendo “senza fondamento” quanto Margherita
Sarfatti scriverà nel 1926 in “Dux” e vari biografi posteriori riprenderanno, a
proposito di “un incontro tra il cardinale Ratti e Mussolini il 28 marzo 1921
nel Duomo di Milano, in occasione dei funerali delle vittime di un attentato al
Teatro Diana”, per il semplice motivo che “in quel periodo il cardinale era
delegato apostolico in Polonia”. Non solo, ma non era nemmeno cardinale.
Il titolo di questo
lungo capitolo nell’edizione originaria Laterza, “Il papato e il fascismo”, è
più giusto.
Emilio Gentile, Storia
del fascismo – 9. Impero cattolico per un impero fascista, la Repubblica,
p.155, ril., ill,. € 14,90
martedì 7 febbraio 2023
L’Italia senza braccia
Il recupero dei pensionati, per ora dei
medici e infermieri, basterà a colmare il buco che si va aggravando nella produzione
e nei servizi? Non basta più l’immigrazione a compensare il deficit di nascite
in Italia. Direttamente, con l’immissione degli immigrati nella produzione, e
indirettamente, per la maggiore prolificità delle madri immigrate.
La previsione, ormai quasi certezza, dell’Istat
e dei maggiori demografi, tra essi lo stesso presidente dell’Istat, Blangiardo,
è che tra pochi anni, all’orizzonte 2030, la popolazione italiana in età lavorativa
(le classi dì età 21-65 anni) diminuirà di 1,7 milioni. Di poco meno del 10 per
cento rispetto ai livelli attuali, che non sono reputati ottimali. Con le ovvie
conseguenze negative sulla capacità produttiva e sul finanziamento della
previdenza.
Da anni sono evidenti le carenze nell’organizzazione
della sanità, tra medici e paramedici. Le organizzazioni imprenditoriali lamentano
da oltre un anno, dalla ripresa post-covid, una carenza di forza lavoro in molti
settori, specialmente (e paradossalmente) nei servizi alla persona, accoglienza
e famiglie. E questo deficit proiettano nel 2030 a una cifra elevatissima, tra
1,5 e 2 milioni di posti di lavoro.
Una crisi già in atto, quindi, che però
si confronta con due paradossi. Una disoccupazione ancora alta, sull’8 per
cento. E un’immigrazione asfittica, benché se ne discuta in politica come di un’invasione.
Negli anni dal 2013 al 2019, anni di governo del partito Democratico, in teoria
più incline all’immigrazione, il saldo netto fra immigrati ed emigranti si è
ridotto a poche decine di migliaia l’anno, in totale meno di 500 mila unità nei
sette anni (nei dodici anni precedenti il saldo netto ha oscillato fra 4 e 500 mila ingressi ogni anno per quattro anni, e fra 2 e 300 mila negli altri otto), e ora l’Italia ne ha carenza. Secondo Blangiardo l’Italia avrebbe
bisogno già da subito del triplo dell’immigrazione netta, per colmare il
fossato crescente nel mercato del lavoro, da 130 mila a 370 mila nuovi ingressi
l’anno. Non ci sono soluzioni alternative: le politiche di sostegno alle nascite,
di cui si parla, se anche attuate, non daranno benefici prima di una generazione
o due.
Il lag disoccupazione-offerta di
lavoro inevasa è effetto delle retribuzioni basse. Soprattutto nei servizi. Che
disincentivano le migrazioni interne – il tasso nazionale è diseguale
regionalmente, tra la quasi piena occupazione in Lombardia, e il 12-13 per
cento di disoccupazione in Sicilia. Mentre l’immigrazione è sempre regolata da
una legge restrittiva, la Bossi-Fini, che ribaltò la legge Martelli, proiettata
su un “buco” demografico già noto, e ha precarizzato gli accessi e, di più, la
stabilizzazione del lavoro immigrato – la residenza, la cittadinanza. Stroncandone
anche la natalità.
Appalti, fisco, abusi (227)
Resi obbligatori i conti correnti, anche
per le pensioni sociali, i costi sono aumentati dall’1 gennaio del doppio dell’inflazione,
tra il 20 e il 25 per cento.
Resi (quasi) obbligatori i pagamenti
con carte di credito, il costo delle carte è stato aumentato dalle banche del
25 per cento – di almeno dieci euro, mediamente a 50 euro l’anno.
Si paga ora anche il bancomat, fino ad
ora gratuito: dieci euro l’anno è la media. Per iniziare.
Si dice che le banche hanno anticipato
l’inflazione. Non che contribuiscono ad alimentarla? Tutti i servizi correnti dall’1
gennaio costano di più, del 20-30 per cento: i bonifici, online e (di più) allo
sportello, i prelievi di contanti presso Atm non della propria banca. E
perfino, a meno di forfait particolari, i prelievi da sportelli della propria
banca.
Per i prelievi bancomat su altre banche
l’aggio è un salasso. La commissione interbancaria per questi prelievi è di 50
centesimi. Ma la banca fa pagare 2 euro, e anche 2 euro e mezzo.
L’impero del bene fa paura
Dialoghi semplici,
duelli aerei mirabolanti, due ore e rotte di ansia assicurata. Un all male vecchio
stampo, cui il politicamente corretto ha imposto poche correzioni – due personaggi
femminili molto maschili. E Tom Cruise che è in effetti un attore, sa essere molto
di più che la sua bella faccia. Da dove dunque il disagio? È rivederlo dopo un
anno di guerra vera, con missili sporchi, e diritti ambigui, come le colpe.
Più del primo,
questo secondo “Top Gun” è ricalcato sui videogiochi. Ma non per questo è
inoffensivo. La retorica della guerra giusta, bella, eroica non è più gradevole.
Non in questo format anglosassone, in cui il nemico non c’è, se non per prendere
le legnate, ed è brutto e sporco, oltre che cattivo, mentre “i nostri” sono
rilucenti, niente polveriee fango.
E poi i
videogiochi, che sono la giornata dei ragazzi fino ai diciotto anni: sono tutti
di distruzione e morte. E non a fini catartici: la favola di oggi è che il più potente
è il più bello e bravo. Il Bene può essere spaventoso.
Tony Scott, Top
Gun – Maverick, Sky Cinema
lunedì 6 febbraio 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (515)
Giuseppe Leuzzi
Per un progetto poi non realizzato, anzi
quasi subito abbandonato, una antologia del Sud o sul Sud, Sciascia propone a
Laterza nel 1957 anche “la scoperta del Verga e, contemporaneamente,
dell’epopea contadina russa”. Il “Sud” emerge quando la sensibilità, l’aura del
tempo, vira al mondo contadino, povero, ribelle, passato\passatista. Non a una
prospettiva di volontà, ingegno, avventura, anche soltanto di luce, di sole –
di sole fisico.
“Vorrei farvi notare che noi siciliani
abbiamo scritto sporadicamente libri storici e sociologici sulla mafia. Ma per
quanto riguarda il racconto non c’è quasi nulla sull’argomento”. Così Sciascia
in una delle ultime uscite, dicembre 1985, al ventiquattrenne Ian Thomson sceso
a Palermo a intervistarlo per il “London Magazine”. Non era già più vero, la
narrativa mafiosa si moltiplicava. Innescata dal peso massimo Sciascia, se non certo
con la sua capacità di scrittura: l’inizio di una valanga.
Il re nel pallone
Ferdinando IV di Borbone, poi I delle Due Sicilie,
in esilio a Palermo durante la conquista napoleonica del regno di Napoli, così
annotò nel giugno del 1799 la riconquista della sua città da parte del
cardinale Ruffo – nel “Diario segreto” che Umberto Caldora ha pubblicato nel
1965: “Alle sei andato con i miei soliti a veder giuocare al pallone fuori la
porta di Craste (probabilmente di Castro, n.d.r.), dove la partita è stata
buona ed il concorso grande. Ricevuto la consolante notizia di essere entrati i
realisti in Napoli”.
Un aplomb si direbbe, non dispiaccia
a Gladstone, britannico. Del “re lazzarone” – o carducciano “re fanciullo che
mangia i maccheroni a teatro”. In effetti, i reali delle case reali sono soprattutto
spensierati. L’8 luglio Ferdinando era già nelle acque di Napoli, ma non scese
a terra, sentiva di che si trattava.
I reali regnano coi ministri e cancellieri,
se ne trovano qualcuno buono – oggi, a Londra, con cervelli dei social.
L’aneddotica dello scugnizzo-lazzarone vuole che il suo precettore, il principe
di San Nicandro Domenico Cattaneo, un giorno che lo vide scorrere un libro
glielo abbia sequestrato.
Le storie dinastiche servono a poco – che ce
ne saremmo fatti dei Savoia?
Un’autonomia senza forza
L’“autonomia differenziata” farà bene o
male al Sud? In linea di principio l’autonomia farebbe bene al Sud. In questo
caso no.
In questo caso, della legge che si sta
configurando, si ridurrebbero i trasferimenti nazionali a favore del Sud delle
regioni che sono contribuenti netti al benessere nazionale in misura rilevante:
Lombardia, con 5.090 euro pro capite, per ogni residente, Emilia-Romagna con
2.811 euro, e Veneto con 2.680 euro. Ma per provvedimento amministrativo, senza
il colpo di frusta che l’autonomia implicherebbe, perpetuando il corso attuale,
del Sud lamentoso, e richiedente.
La legge in discussione si propone molte
cose: vuole regionali le reti elettrica e del gas, i rapporti con l’Europa, la
politica commerciale. Fuffa - le Regioni hanno da tempo rappresentanze a Roma e
nelle capitali del mondo, è la prima cosa che hanno fatto dopo l’istituzione
nel 19, l’apertura di sedi di prestigio, per vacanze spesate di rango. La
solita fuffa che si agita per coprire il nocciolo della legge, i trasferimenti.
Ma anche su questo l’autonomia andrebbe
bene, se fosse uno shock. La “secessione” protoleghista sicuramente lo sarebbe
stata, avrebbe avuto un effetto che non poteva essere che benefico.
Con l’autonomia differenziata si verrà a togliere
indubbiamente molta parte dei trasferimenti al Sud, cui il Sud era abituato. Ma
progressivamente, come una medicina o veleno di Mitridate al contrario. Che non immunizza
ma solo intorpidisce.
La Funzione Pubblica è essenziale al Sud come
al Nord e in ogni dove. Ma il Sud ha bisogno di rigenerarla: di ridare un senso
alla politica, al fare, alla gestione al meglio dei propri destini, fuori dei
“posti” e della corruzione.
La sicilitudine è una prigione
La Sicilia è una totalità. Un imprinting, indelebile, più che un fatto geografico e storico - sì, sicani, fenici, greci, romani, arabi, normanni, angioini, spagnoli di mare e spagnoli d Castiglia, inglesi, piemontesi, il melting pot è ricco ma non conta. Non si può farne colpa alla “sicilitudine” – che peraltro molti siciliani,
perfino Sciascia, indossano con rassegnazione. Ma nel progetto di antologia del
Sud del 1957, Sciascia proneva a Laterza nientemeno che un capitolo “Sicilia (o
Calabria o Lucania) come Spagna, Sicilia come Tennessee, Sicilia come Cina”.
Niente di meno.
Nella prefazione
del 1967 alla riedizione delle “Parrocchie di Regalpetra” nella Universale
Laterza, insieme con “Morte dell’Inquisitore”, Sciascia si vuole autore di un unico
libro. Di e sulla Sicilia: “Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno”, conclude
ricordando un critico delle “Parrocchie” che lo voleva autore di un solo libro
(“cavò il giudizio che io fossi uno di quegli autori che scrivono un solo libro
e poi tacciono”): “Un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato
e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua
sconfitta della ragione”. Non una sofferenza, come si penserebbe, essere autore
di un solo libro, anzi un motivo di orgoglio. Ma qui Sciascia è all’estremo opposto,
della Sicilia suicida.
Tornando per la
prima volta dalla Spagna di cui ha sempre fantasticato, dalla Castiglia, “tutta
la Castiglia, anche Burgos” delle cattedrali gotiche, il 9 luglio 1956 Sciascia
scrive a Vito Laterza, allora suo editore: “A Racalmuto mi par di trovarmi come
in Svizzera”. La Sicilia, pur deprecata, è misura di tutte le cose.
Milano
È la più antica
città d’Italia, fondata da “Subres, bisnipote di Noè, attraverso Iafet l’Europeo
(un primato difficile da battere)”. Così scoperta da Galvano, letterato cortigiano
dei Visconti, nella sua “Cronica universalis”, primo Trecento, di cui ora Paolo
Chiesa fa la scoperta. Un illustre geografo d’invenzione, il Trecento è fervido
di viaggi, per lo più fantastici, come il più celebre Mandeville, che però non pretendeva
di scoprire nulla.
Aveva scoperto
l’America prima di Colombo. Anche lei come i vichinghi. Anzi, già un secolo e
mezzo prima, sempre secondo Galvano e la sua “Cronica universalis”. Tra le
altre facezie vi nomina la Marckalada, terra ferace abitata da giganti – gente cioè
che mangiava bene e tanto. Deformazione del Markland delle saghe norrene.
Roma è otto
volte Milano. Nasce da qui l’odio contro Roma?
O nella
burocrazia – i manager lombardi con la valigetta al quarto piano del ministero
del Lavoro, dietro via Veneto, per gli “stati di crisi” (che funzionari ex
sindacalisti gestiscono)?
Dal database “Le
religioni degli stranieri in Italia”, creato da “La Lettura” del 29 gennaio, si
vede che gli immigrati in Lombardia sono un quarto di tutti gli stranieri residenti
in Italia (1.155.393 su 3.561.540), e uno su otto lombardi (l’11,6 per cento
dei lombardi). Ai quali il rito ambrosiano concede ampia libertà di culto. Dove
si colloca dunque il leghismo, se non è razziale?
“In fondo, nella
borghesia del Nord solo gli Albertini e i Pirelli non si assimilarono
pienamente al fascismo”, Andrea Carandini, nipote di Luigi Albertini, ricorda
con Paolo Bricco sul “Sole 24 Ore Domenica”. Nel 1925 Albertini fu costretto a
lasciare la direzione del “Corriere della sera” e a cedere le quota alla
famiglia Crespi. Che nel dopoguerra diverrà, specie con Giulia Maria, ancella della
sinistra più sinistra. Bisogna cogliere l’attimo – perché no, se ne fa anche
poesia.
Mussolini lo storico Gentile
può dire “milanese di adozione”, nella “Storia del fascismo” che ripubblica illustrata,
in edicola con “la Repubblica”, nel volume 9. “Impero cattolico per un impero fascista”.
E anche per questo in sintonia col Lombardo papa Ratti, Pio XI. Ma, bisogna
dire, up to a point: il papa era lombardo vero e sapeva cosa conveniva.
Scrivendo a Vito Laterza da Caltanissetta, il 21 aprile 1964, per
proporre “un romanzo sul separatismo”, un progetto che presto però dismise,
Sciascia spiega giubilante: “È un’idea che mi è venuta all’improvviso, a Milano
(la città d’Italia più adatta a risvegliare sentimenti separatisti, anche in me
che sono stato decisamente unitario al tempo del separatismo)”.
Il giornale
mostra Letizia Moratti, sicura perdente al voto regionale domenica, in lieta
conversazione al teatro Parenti con i suoi sponsor politici,
Calenda e Renzi. E anche questo è parte del successo, non darsi per vinti, anche
se si è fatto un errore – una previsione sbagliata, un calcolo poco avveduto,
una scommessa. L’atto di dolore, se necessario, è breve, serve all’assoluzione,
e “non si piange sul latte versato”, “domani è un altro giorno” etc.. Quello che
oggi si dice resilience, bisogna pur adottare l’inglese,
come la città fa seriosa, un tempo nell’abbigliamento oggi nelle università.
Mussolini lo storico Gentile
può dire “milanese di adozione”, nella “Storia del fascismo” che ripubblica illustrata,
in edicola con “la Repubblica”, nel volume 9. “Impero cattolico per un impero fascista”.
E anche per questo in sintonia col Lombardo papa Ratti, Pio XI. Ma, bisogna
dire, up to a point: il papa era lombardo vero e sapeva cosa conveniva.
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