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sabato 18 febbraio 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (516)

Giuseppe Leuzzi

Dunque, nella campagna elettorale per la Regione Lombardia, il candidato dem Majorino incitava I suoi così: “La Lombardia non è la Calabria, è una Regione con grandi potenzialità e un sacco di gente che si dà da fare”. Pensava di prendere i voti dei calabresi residenti in Lombardia – qualche milione? Voleva imitare la Lega? Ma il problema non è Majorino – che era costui? Il problema è il partito Democratico, tutti i partiti, la politica: una mediocrità impensabile, se non fossero l’Italia.
 
Continua il build-up di Messina Denaro, da primula rssa, e quindi eroe, della amfia, come già avveniva nei suoi anni venti, nella buoa società di Palermo. Di un personaggio mediocre sotto tutti gli aspetti, eroe di nessuna impresa memorabile, se non gli eccidi. Peraltro ordinati, non di mano propria. Se ne fa un Personaggio per una copia o uno spettatore in più. La mafia per sé non fa audience, non ci sono belli o buoni in un solo momento della loro vita, i mafiosi sono mediocri. Perché farne icone? Perché il Sud si persta a questa spettacolarizzazione che lo rovina?
 
Sembra strano che l’antimafia non sia popolare nelle aree di mafia, essendo una protezione. Perché non si sa da chi. Si provi a fare una denuncia di grassazione mafisoa. Non succede nulla. Al più si viene indagati: perché la denuncia ora e non in passato? Si era contigui a una mafia e ora si passa a un’altra.
Passino i beni del denunciante a una delle associazioni o ong antimafia, dopo confisca per “contiguità” (basta la aprola, non c’è bisogno di dimostrarlo), ogni spostamento dei membri dell’associazione e ogni loro macchina o utensile sarà protetto militarmente.
 
Un film fortemene improbabile, “Koza Nostra”, di una nonna ucraina che liquida tutto al suo paese per accorrere in Sicilia e dare una mano alla figlia neo madre, e finisce per terremore la mafia, non è che una commedia buffa, del genere grottesco (un gioiellino). Ma I mafiosi che inscena non sono diversi dalla realtà: quando non sparano non sono niente, più balordi o scimuniti che altro. Chi dice che le mafie sono invincibili? Sembra roba da carriere facili, tra polizie e giudici. Mentre basterebbe lavorare. Non tutti I giorni, ma qualcuno sì.
 
A Soreni, il paese sardo di “Accabadora”, il racconto-saggio di Michela Murgia, “la parola «giustizia» aveva lo stesso spazio di senso delle peggiori maledizioni, e veniva pronunciata solo quando c’erano da evocare cieche persecuzioni contro qualcuno”. A Soreni come in tutta la Sardegna, usava dire Cossiga, il presidente della Repubblica costituzionalista. Come in tutto il Sud, fin dall’unità, che presto fu brutale.
Murgia spiega in breve (sgonfia) la questione Stato al Sud: il Sud è risentito contro lo Stato, dice. No, ne ha paura.
 
Bellezza a perdere – e i 100 del Piria
Angela Robusti, compagna di Pippo Inzaghi, allenatore della Reggina, padovana, architetta, si dichiara felice di stare a Reggio Calabria, a Elvira Serra sul “Corriere della sera”: “Dalla finestra vedo l’Etna innevato, Messina e Taormina. E magnolie secolari. Però…”. Però, “qui in centro, che dovrebbe essere il posto migliore, i marciapiedi sono sconnessi, non esistono rampe, ci sono buche da trenta centimetri”. Vero, anche più larghe, e profonde. Non da ora.
La città non ha sindaco da un anno. È stato sospeso per la legge Severino, per essere stato condannato in primo grado a un anno e quattro mesi, reo di avere tentato la vendita di un albergo sequestrato da tempo in disuso a un imprenditore amico invece che per asta pubblica. Ma le buche preesistevano.
Giuseppe Falcomatà, Pd, sindaco per quasi dieci anni, dal 2014, quando aveva inaugurato con Renzi in città la novelle vague dei rottamatori, non si è occupato delle buche, né di amministrazione in genere. A differenza del padre Italo, del cui lascito politico ha beneficiato, sindaco a fine Novecento per due mandati, che invece aveva curato l’aspetto e il funzionamento della città.
Ma non ci sono solo le buche a Reggio, anche “la spazzatura”, dice Angela Robusti, “mozziconi, cartacce, plastica”. È vero, in quantitativi che fanno impressione anche a chi è abituato alla negligenza della nettezza urbana di Roma. Per rimediare l’architetta, di professione organizzatrice di eventi, ha cominciato a pulire “un’aiuola, con paletta e rastrello”, poi ha associato un’amica alla cura-fai-da-te, poi ha creato il logo #noiamiamoreggio, poi ha imbarcato qualche ragazzo volenteroso. L’idea era di arrivare a dare una ramazzata a tutto il lungomare. E c’è arrivata, l’altro venerdì ha pulito tutto il lungomare, un km. o poco meno, e anche, giacché c’era, un quartiere di periferia, Rione Marconi. Il come merita un’altra citazione.
“Un ragazzo che si voleva candidare alla rappresentanza degli studenti dello Scientifico Vinci mi ha chiesto se poteva inserire nel programma” l’idea della ramazzata “privata”. “Docenti entusiasti?” “Macché! La maggior parte si è ribellata: «Fa freddo», «Non è sicuro», «È pericoloso». Perfino 200 genitori si sono opposti”. Gli studenti hanno allora deciso autonomamente: “Avrebbe partecipato solo chi voleva, 304 ragazzi”. Ma non è finita. L’architetta ha avuto un’altra idea: “Allora ho coinvolto il professionale Piria, e lì hanno aderito tutti: mille. Più una cinquantina di professori”
Perché il Piria? Non si sa. Ma si può opinare: il Piria è liceo calabrese che ogni anno a fine giugno fa imbufalire un altro padovano, di Asolo, Gian Antonio Stella, sullo stesso giornale, perché prende troppi 100 alla maturità.
 
Le mafie all’Est
Nel taccuino di un viaggio in Romania nell’aprile del 1993, c’è il ritorno da Bucarest su un volo Alitalia: “Il compagno di fila, interpellato come avvocato e come colonnello, è conosciutissimo, a terra e a bordo, e arde dal desiderio di sapere chi sono – o probabilmente lo sa, vuole solo attaccare bottone. Mi cautelo dietro libri in inglese. Venendo all’aeroporto ha portato arance per tutti, se ho ben capito. Parla con accento napoletano marcato, di Napoli città, dei bassi e non del Vomero, che però questa volta non mi piace. La sua facondia fa delle quattro file di business class il circolo dell’aereo, tutti interloquiscono, anche il personale Alitalia. Un bruttissimo e volgarissimo catanese, il tipo del gaglioffo in libertà, ha guadagnato 120 mila dollari in un anno, dice, comprando e vendendo appartamenti a Mosca. Un suo compare di squallore, sembrano sporchi, lievemente più composto, ha arredato due “ristoranti di lusso” a Bucarest, d’angolo su piazza, col mobilio smesso di un suo ristorante sulle gole dell’Alcantara. Un anziano geometra barese (siamo tutti meridionali), che combina matrimoni, sta riportando in patria due vecchi a cui ha fatto vedere di persona alcune signore-signorine rumene. Si fa dare, dice, due milioni e mezzo a persona, i vecchi non parlano, assentono, per il viaggio, aereo e albergo. Viene rimproverato: “Sfrutti i poveri”. Si difende: “Al contrario, li rendo felici”. Sono due sardi rugosi, con pochi denti – con i sardi non si sa se sono contadini o ricchi padroni, ma senz’altro sono contenti. L’unico altro silenzioso in business è un quaranta-cinquantenne riccioluto che fuma, spiccicato a Carmine Alfieri, il boss della camorra. Che gli accompagnatori a Bucarest hanno detto più volte un frequent flier con l’Italia, ma è stato arrestato sei mesi fa. A meno che non si sia pentito nel frattempo – il “pentimento” consente l’espatrio?  
 
La mafia è inestirpabile, f.to Cossiga
“Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei”: così, alla notizia dell’arresto di Messina Denaro, Andrea Cangini ricorda l’opinione di Francesco Cossiga, come l’aveva riportata nel libro a quattro mani dal titolo “cossighiano” “Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell’umana natura”, pubblicato a fine maggio 2010, due mesi prima della morte dell’illustre personaggio:
“Parlavamo, col presidente emerito della Repubblica, di quello che Leonardo Sciascia chiamava “il contesto”. Ovvero del perché la mafia poté metter radici in Sicilia. Il capo brigatista Mario Moretti spiegò che la forza delle Br stava non tanto nella loro capacità di fuoco, quanto nella loro capacità di “influenza”. In quello che fu definitivo “brodo di coltura”: negli oltre 600mila italiani che, secondo l’intelligence americana, fiancheggiavano concretamente le Brigate rosse e nei tanti, tantissimi di più che ne condividevano le motivazioni per così dire politiche. Secondo Cossiga, per ragioni analoghe le mafie hanno prosperato, ma, a differenza delle Brigate Rosse, sconfiggerle non sarebbe stato così facile.
“Nel salotto del suo appartamento romano di via Ennio Quirino Visconti, dove lavoravamo al libro-intervista “Fotti il potere, gli arcana della politica e della natura umana”, Francesco Cossiga la mise così: “Dobbiamo rassegnarci a convivere con il potere mafioso, con quello ‘ndranghetista e con quello camorrista perché non ci sono estranei: sono espressione del carattere della gente cui si rivolgono e corrispondono a un sentimento radicato in alcuni popoli italiani”. Parlava di “popoli”, Cossiga, perché era convinto che l’identità nazionale italiana altro non fosse che un patchwork di identità locali. E con altrettanta pervicacia era convinto che le dominazioni straniere subite nei secoli avessero radicato negli italiani in generale e nei “popoli” siciliano, calabrese e campano in particolare non solo un’istintiva resistenza al potere legale dello Stato, ma anche una naturale tendenza a dotarsi di un contropotere ovviamente illegale. Contropotere di cui la politica, anche quando non è oggettivamente “mafiosa”, finisce spesso per tenere conto.
“La conclusione fu tanto amara, quanto, nello stile del presidente emerito, paradossale: “Ci sarebbe solo un modo per estirpare la malapianta della criminalità organizzata: il terrorismo di Stato. Farli fuori tutti, naturalmente in silenzio. Ma è un programma troppo vasto per un piccolo Paese come il nostro”.
E uno non sa che pensare. Cossiga parlava da presidente della Repubblica, ex, sette anni di suprema magistratura. Dopo essere stato ministro dell’Interno e presidente del consiglio – il ministro dell’Interno certo è temibile, ma Cossiga lo fui controverso al tempo del sequestro e dell’assassinio di Moro: ciclotimico, farfallone, poco impegnato nella questione della sopravvivenza di Moro. E poi non aveva già pontificato, al tempo dell’Anonima Sequestri in Sardegna, della balentìa inestirpabile fra la sua gente, quando poco dopo, presi finalmente i (pochi) sequestratori, il “fenomeno” è scomparso? Il Sud, Sardegna compresa, è vittima di se stesso – oppure si fa convincere senza resistenza, bastano i boatos, anche pochi.
 

Tutto il male viene da Milano
Ci fosse un’editoria indipendente, cioè non milanese, una narrazione facile si potrebbe o dovrebbe costruire sul male che viene da Milano. Da Bava Beccaris al fascismo, a piazzale Loreto, senza aver fatto la Resistenza, al terrorismo, al leghismo, alla barbarie giudiziaria che dal processo Sofri, quindi da quarantaquattro anni, distrugge l’Italia. Compresi, come si fa a negarlo?, i trent’anni d’inutile caccia a un milanesissimo Berlusconi, cui Milano invidia il successo: cinquecento perquisizioni della Guardia di Finanza in un anno sono roba da inquisizione, e la dozzina di processi - in uno di questi “Milano” è riuscita a condannarlo per una pratica, la costituzione di fondi all’estero attraverso acquisti gonfiati di diritti telecinematografici, che era corrente a Milano ma di altri soggetti (sicuramente la Rcs Corriere della sera, e probabilmente altre emittenti non berlusconiane, nel settore questo era notorio). Un Manzoni millennial non avrebbe dubbi a fare questa storia infame.
Ma la barbarie, certo, può essere produttiva – sicuramente avremo un po’ di cancel culture, cos’è tutto questo ossequio alla giustizia e alla moralità.
 
E la ricchezza viene per nuocere
La Calabria è l’Enotria, spiega il settimanale “I piaceri del gusto”, “culla di civiltà e terra madre del vino”, quella che per prima ha coltivato e poi ha diffuso in Europa e altrove le specie e gli incroci più comuni. Partendo dal Sangiovese e dal Mantonico. Fino alla Glera, l’uva del prosecco, figlia dell’uva Vulpea, che è figlia dell’uva Visparola, dall’Enotria-Calabria emigrata in Sicilia, Emilia-Romagna, Toscana e Veneto. “Un’area considerata dagli studiosi «zona di convergenza genetica», cioè il più importante centro di diffusione della viticultura nel bacino del Mediterraneo occidentale”. Con moltissime sottospecie, vitigni autoctoni, di cui si tenta – sarebbe opportuno tentare – il recupero.
Periodicamente si scopre che la Calabria ha una miniera a cielo aperto. Avrebbe, se volesse: i tesori sono naturali, la ricchezza è umana, impegno, ingegno, fortuna anche, che però va tentata, provata. Vanta 140 (o 180?) vitigni antichi, “autoctoni”, un record, tra cui i rossi gaglioppo e magliocco, e i bianchi greco, mantonico e pecorella, e non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata - ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto montuoso, ne produce due volte e mezzo.
Se la Calabria non stesse dietro al “posto”, e alle mafie, non avrebbe di che lamentarsi. Per i vitigni come per tante altre risorse naturali – basta fare il confronto con la natura avara dell’Emilia, o con le valli strette delle Alpi. Avessero un decimo dei suoi vitigni a Franciacorta, e magari un decimo della sua insolazione, secca e non umida, conquisterebbero il mondo.

leuzzi@antiit.eu


L’uomo nel labirinto

Un labirinto. Di specchi. Un mondo onirico. Filosofico anche. Ma come un racconto dell’orrore. Piano, senza scoppi né sangue – in immagini alla Argento. Fino a metà percorso, quando il toro vi irrompe, inferocito. Un mondo ripetitivo, della stessa immagine moltiplicata all’infinito, un incubo e una implacabile catena. Un racconto anche, tragico, della psicoanalisi - del duello con se stessi. Con un “lieto fine”, che è l’annientamento di sé – Teseo trionfa su una bestia.
Una ballata, su un tema che ha sempre accompagnato Dürrenmatt, nei racconti, specie i “gialli”, e in teatro. L’uomo – l’eroe, il mito - sempre smarrito, in un labirinto che è anche un gioco di specchi. Anche cattivo (violento) ma innocente. Intrappolato, anche per sua colpa perché no, per orgoglio, per troppo presumere di sé, in un percorso per il quale è anche vana la ricerca di un’uscita. L’uomo-mostro vi si perde, scoprendosi – “si salva” prendendone coscienza: “Capì,\ se di capire si possa parlare nel caso\ del minotauro – che fino a quel momento\ era vissuto in un mondo in cui c’erano\  soltanto minotauri, ciascuno rinchiuso in una\ prigione di vetro, ma ora sentiva un altro\ corpo, un’altra carne”. Il labirinto di specchi come l’umanità al mondo, sulla terra: “L’essere” mostruoso “che Pasifae, la figlia del dio sole”, ha partorito per capriccio, ingravidata “da un toro bianco sacro”, giace nel labirinto a specchi “accovacciato non solo\ di fronte alla sua immagine, ma anche\ alle immagini dell’immagine sua: vedeva\ davanti a sé un’infinità di esseri identici\ a lui stesso”.
Una ballata, con una “forte componente scenica”, così la presenta l’editore – il primo sottotitolo, che la traduzione riprende, è “una ballata” (e un balletto ne è stato tratto, informa la traduttrice, la figlia del dio sole, in scena per anni al teatro Lanterna Magika di Praga a partire dal 1990). Che molto deve, inavvertitamente?, a Lawrence Durrell, 
“Il labirinto oscuro”. Incalzante. Anche lenta, ripetitiva, ma assorbente - il tema è irriducibile. Inconsolabile in realtà, non ci si acconcia.

In originale tedesco, con la traduzione di Donata Berra. Non agevole, per la “labirintica concatenazione di frasi”, ricchezza del vocabolario – ricercato, ma di ricerca d’obbligo nella ripetitività a specchio. E per la metrica: da prosa ritmica, prosa lirica, articolata in versi, con a capo, enjambements, anacoluti, etc., ma con “ritmo discontinuo” – metrica irregolare, lunghezza variabile dei versi.
Friedrich Dürrenmatt,
Il Minotauro Adelphi, pp. 78, ill. € 10 

venerdì 17 febbraio 2023

Appalti, fisco, abusi (228)

Tutte le banche hanno aumentato i costi. Di tutti i servizi: tenuta del conto corrente, bonifici, prelievi, carta di credito, compravendita titoli, deposito titoli. Si può supporre per l’inflazione. Anche se i rincari dei servizi, fra il 50 e il 100 per cento e oltre, sono ben superiori all’inflazione. Con azione concordata, di aumenti di costo simili e perfino uguali tra i vari istituti di credito. Senza che l’organismo vigilante, la Banca d’Italia, sia intervenuta. Le intese di monopolio, illegali, ormai hanno diritto di cittadinanza - nel nome del mercato, che in sé sarebbe la concorrenza.
 
A Roma tre coppie di Vigili Urbani fanno la guardia di notte a una centralina elettrica contro il vandalismo di un campo rom prospiciente. Al costo di quattromila euro al girono, fra straordinari notturni, festivi, diurni e notturni, con ritenute fiscali e oneri sociali. È un trucco dell’Inps dell’Agenzia delle Entrate per fare cassa a spese del comune di Roma?
 
Mattatoio, mercati generali, villaggio olimpico, stadio Flaminio, stadi Nervi, superfici centrali enormi, edifici di prestigio, più almeno 40 mila appartamenti, per lo più anch’essi in aree centrali o di prestigio. Inutilizzabili, non per fare cassa. Aree abbandonate, di cui costa la pulizia e la sorveglianza, e affitti di comodo, a parenti, amici e compagni. Di Roma capitale che sempre ha bisogno di un paio di centinaia di milioni l’anno, dallo Staro, per fare i conti.
 
Il piazzale del Gianicolo a Roma è transennato attorno al monumento equestre a Garibaldi. Dal 2014, quando un fulmine colpì il monumento. Con transenne che ogni poche settimane s’ingrandiscono: si allargano (ora occupano praticamente il piazzale, un campo di calcio) e si innalzano. Opere provvisionali di cui fare pagare l’affitto? Dal 2014 non c’è stato un solo giorno di lavoro sul monumento.
 
Poco discosto, agli “archi” delle Mura Aureliane, un’impalcatura gialla a regola d’arte imprigiona gli stessi archi da quindici mesi, per la presunta caduta di un sasso dalle mura. Senza che niente mai sia stato fatto per risolvere il problema, se c’è. Chi ha detto che con la cultura non si mangia?
 
Da dodici anni che è stato smobilizzato, l’enorme ospedale San Giacomo nel centro di Roma non ha avuto nessun utilizzo. Malgrado le spese correnti per evitarne il saccheggio. Se ne parla ora perché la pronipote del cardinale Salviati, che legò la struttura alla città a condizione che fosse usata per i poveri e gli infermi, ha vinto la causa sulla destinazione dell’immobile secondo la volontà testamentaria dell’avo.
Lo stesso con le superfici enormi, fabbricate e verdi, del tutto inutilizzate del Forlanini, un ospedale dismesso ancora prima del San Giacomo. Non proprio nel centro storico, ma in area adiacente, comunque di grande valore immobiliare.

Le cause del signor Ielo

Nessun dubbio che la denuncia del sottosegretario Delmastro non sia politica. È il modus operandi di una Procura a metà “palermitana” (Lo Voi dopo Pignatone e Prestipino) e a metà “milanese”, anche se Ielo pure è siciliano – a Milano si è illustrato. E che si risolverà politicamente, cioè con un po’ di braccio di ferro e poi una assoluzione. E allora, perché si fa?
Il Procuratore Ielo è uno che naviga a cuor leggero. Qualche volta fa da giudice, equanime per definizione, qualche volta da procuratore della Repubblica, un quasi sbirro – più volte è passato da una professione all’altra. Una volta per questo è finito anche imputato al Csm, perché si era perdute le carte di un procedimento di cui era incaricato come procuratore, su pratiche dubbie di Nomisma, il centro studi bolognese allora di Romani Prodi - ma il Csm naturalmente lo ha prosciolto.
Il dottor Ielo è pure un beniamino dei giornali dei giudici, quelli dell’hotel sull’Abisso, e quindi non da sottostimare. Ma nessun dubbio anche che Delmastro sarà assolto. Se non dal gip - un grado di giudizio senza nessuna autonomia, all’insegna di Ghitti, il famoso collega di Ielo a Milano che giudicava anche cinquanta casi in un giorno - nel prosieguo del processo. E allora perché si fanno questi processi politici? Per la politica: sono giudici “di sinistra”, giudici di scranno o pubblici accusatori, come si vogliano. Magari non di sinistra, ma sanno o pensano che la carriera si fa “a sinistra”.
Questa sinistra dev’essere però molto sinistra, se porta la sinistra alla sconfitta, politica e pure giudiziaria. Il giudice e procuratore Ielo è un uomo d’onore, avrebbe detto Shakespeare. Ma una volta la sua parte politica, quella che professa, si sarebbe chiesta: chi lo paga?

La maternità è il problema

L’ennesima stagione della serie monacale dei Bernabei è centrata sulla maternità – la serie è “monacale” per replicare il successo di “Don Matteo”, ma è in realtà femminile, di storie e problemi femminili, ambientati in un conento che è una casa famiglia molto laica. Non più sui problemi d’amore e lavoro delle convittrici, ma sulla maternità. Soprattuto sui problemi madre-figlia o comunque familiari: della madre che si impone alla figlia, della madre che delude la figlia che l’ha sempre ammirata, della figlia che si perde in reazione alla madre, etc.
La puntata di ieri sceneggiava le procreazioni difficili – oltre agli inevitabili conflitti madre-figlia. Della madre che abbandona il figlio in ospedale dopo averlo partorito con identità rubata. Delle madri giovanissime e inesperte. Chi ha dovuto rinunciare al bambino cui teneva perché gravemente malformato. Chi ha rifiutato la figlia al parto e poi l’ha ripresa e allevata. La ragazza drogata che partorisce per strada e lascia la figlia nel cassonetto. Tutti casi eccezionali, dovendone fare materie di racconto, ma comuni.
Nela seconda puntata di questa seconda stagione di “Buongiorno, mamma”, la mamma che si risveglia, accudita da figli e marito con pazienza e dedizione negli otto anni di coma, al miracoloso risveglio diventa subito problematica. In entrambi i casi tutto si risolve, o si risolverà, nel volemose bene che è la filosofia delle produzioni Bernabei (cui si devono entrambe le serie) – il Cristo ha sofferto per tutti. Ma è vero: la maternità è un problema. Oggi si direbbe “il” problema.
Francesco Vicario, Che Dio ci aiuti, Rai 1
Alexis Sweet, Buongiorno, mamma, Canale 5

giovedì 16 febbraio 2023

Secondi pensieri - 506

zeulig

Amore – È tema da tempo slegato dalla sessualità, con la generazione del Millennio (che non tiene la sessualità in grande considerazione), e nella cultura generale (media, socia, editoria, la ex opinione pubblica). Anche se il regime freudiano è sempre imperante, imposto dal mainstream americano, in letteratura, cinema e psico-filosofia. Se ne occupano più persuasivamente da un paio di decenni i preti ed è tutto dire. I papi Ratzinger e Bergoglio, ora il cardinale Ravasi – dell’amore sessuale. Il cardinale ne può fare perfino il tema dei suoi articoli, nella collaborazione giornalistica che intrattiene con “Il Sole 24 Ore”, conservatore ma non troppo. Richiamandosi al solito al “Cantico dei cantici”. Ma anche ai romanzi contemporanei. Si rifà, scrive, alla “scrittrice tedesca Mariana Leky, che nel suo romanzo piuttosto vivace e scanzonato ‘Quel che si vede da qui’”, fa dell’amore un ufficiale giudiziario, quello che viene per espropriare. “L’amore ti coglie alla sprovvista”, questa la citazione, “entra in scena come l’ufficiale giudiziario che si era presentato a un contadino del nostro villaggio. Una volta entrato in scena l’amore appiccica un sigillo su ogni aspetto della tua proprietà e dice: «Ora non è più tuo»”. Il “Cantico dei cantici” è più raffinato, dice Ravasi, è femminista: “È la donna a suggellare con la sua presenza la vita dell’amato”.
“Quel che si vede da qui”, un racconto proposto quattro anni da Keller, l’editore che ha più fiuto per le letterature germanofone, non è un romanzo sull’amore - è una sorta di “Accabadora” del Westerwald, il bosco montuoso sul Reno, la storia di una bambina cresciuta da una nonna che ha il dono o condanna di sapere chi morirà, chi viene a morire (senza i tratti realistici di Michela Murgia, dentro un mondo favoloso, dal Westerwald al Giappone, ai monasteri buddisti). Leky è una specialista di narrativa “giovanile”, fantasiosa. Il riferimento serve al cardinale per suggellare l’amore come un “matrimonio repubblicano”, tra viventi, destinati alla vita.    
Sull’amore è centrata la prima enciclica del breve pontificato di Benedetto XVI, “Deus caritas est”, anche se di impianto tradizionale, dell’amore-cura, la
Sorge di Heidegger. Più fattuale, attenta al rapporto sessuale, alla riproduzione, al piacere, l’“esortazione postsinodale” del papa Francesco, “Amoris Laetitia”.
 
Machiavelli
– Rileggendo il “Principe” nel contesto biografico di Machiavelli, come fa Gabriele Pedullà nella sua monumentale riedizione, è l’opera di un repubblicano pentito, anche se a denti stretti. Si dimentica che era l’operina (“piccolo dono”) scritta in fretta come petitio indirizzata ai Medici, prima a Giuliano di Lorenzo, poi a Lorenzo, il nipote del Magnifico che sarà duca d’Urbino, in quanto capi della Famiglia restaurata a Firenze come signoria di fatto, perché lo riprendessero in servizio, per le sue doti di cancelliere politico se non come cliente. Da repubblicano sconfitto. Un’opera in questo senso “machiavellica”, anche se di nessun danno. Ma ha avviato una disputa (disamina) ormai di molti secoli sulla buona politica.
Si può dire della politica, volendosi spiegare questa enorme, interminabile, eco del “Principe”, che è “machiavellica”, l’arte di barcamenarsi, con tutti i mezzi, la violenza non esclusa. Il successo del libello – si dice che è un trattato ma non lo è, è un insieme di considerazioni non sistematiche (schematiche), e riflessive certo, ma non “in profondità”.
 
Occidente - Che vi sia un moto unidirezionale da Ovest a Est la fisica non lo consente, Newton avendo da tempo dimostrato che le comete, o materia celeste, attraversano gli spazi pure da Est a Ovest, e sull’asse Nord-Sud. Viceversa, che le civiltà vadano da Est a Ovest è stato accertato da Spengler, Frobenius e l’ultimo kaiser. Nonché dagli antichi egizi, secondo i quali l’Occidente è la bocca dell’inferno - per il vento caldo, polveroso, rosso, ha scoperto Dominique-Vivant Denon, il sottopancia vispo di Napoleone, che dal deserto libico va a Ovest, impersonato in Tifone, il gemello cattivo di Osiride, patrona del verde e fecondo Nilo a Oriente – è l’Oriente la sede dell’anima. Anche il recupero del jet lag è più rapido volando verso Est.
C’è questa storia del cuore dell’Europa che sarebbe a Oriente. È vero che il cuore della prima Europa, il regno franco-tedesco dei maggiordomi Merovingi dopo la morte di Clodoveo e fino a Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello e padre di Carlo Magno, che fu anch’egli maire du palais, maggiordomo, prima di fondare il regno dei franchi, si disse Austrasia, luogo classico di Sud-Est. Ma è pur vero che Faramond, il primo re merovingio, è invenzione dello scrittore La Calprenède. E che si può dire al contrario: a lungo restò in comune l’aquila a due teste dei Paleologhi di Costantinopoli, passata agli Asburgo e agli zar, che si nominavano Romanov, Mosca dicendo la Terza Roma. Ma già i bizantini si dicevano romani - il bizantinismo fu inventato dall’Ottocento, con l’Oriente. Del resto l’Occidente prolunga l’Oriente, non è agli antipodi.
Occidente e Oriente sono punti mobili in astronomia e in geografia. Il sapiente Michele Psello insegnava all’imperatore Michele VII che “per coloro che guardano da Oriente verso Occidente le parti destre del mondo sono quelle settentrionali e le sinistre quelle meridionali”, il contrario se uno si gira. La separazione è un fatto di albe e tramonti, che meglio si mostrano sul mare, ma variano con le coste che talvolta si attorcigliano, e pur stando per esempio a Est, guardano a Ovest. Anche in termini di ascesa, l’Occidente si cerca opportunamente verso il polo. Ma del Nord o del Sud?
 
Cogli l’attimo fuggente, del domani non hai certezza, c’è questa intelligenza all’origine dell’Occidente. Di natura prometeica: aggredire la vita come se dovesse finire fra un giorno o un mese, e pro-gettarla come se durasse eterna, prendendosi quindi tutto, pure l’Oriente.
 
E si torna a Hegel, la storia che inizia con Erodoto è la storia dell’Occidente, cioè dell’Europa, è l’Occidente. Ma la tecnica è pure progresso: produce più ricchezza, e dunque sanità e pensioni, e necessariamente democrazia e giustizia, Las Casas, Beccaria. La demonizzazione è recente, bolscevica. Roba del dopoguerra, da guerra fredda. Oppure no: l’Occidente ha voluto a lungo fare a meno del cristianesimo, partendo dal sistema della natura, o delle idee. Ma le religioni crepano sotto altre religioni, non per l’ateismo, repubblicano o sovietico – è la chiesa di Roma che ha dato ai protestanti i mezzi per combatterla. “La vera educazione di un popolo è la sua religione”, Quinet iperlaico assicura.


L’Occidente è il Nord. Eccetto che negli Usa - il West, dice Borgese, è un po’ Mezzogiorno un po’ Oriente?


Alla fine non resta che l’America – del Nord, quella latina è troppo precolombiana, inguaribilmente. La costituzione e l’uso vogliono negli Usa la libertà senza riserva di sovranità. Questa tradizione Kennedy ha accantonato, inserendo l’America nella tradizione europea degli Stati. Proprio mentre in Europa lo Stato-nazione fa bancarotta – è dell’Europa il tramonto dell’Occidente, Spengler sbaglia perché il mondo pensa finito alle colonne d’Ercole.
(fine)
 
Tirannide – Il modo migliore per instaurarla e perpetuarla è a prima vista nell’argomentazione semplice che in materia offre Platone nella “Repubblica”, che il tiranno mantenga con “le taglie i popoli in povertà, affinché, costretti a pensare continuatamente a procacciarsi il cibo, essi non abbiamo il tempo di complottare”. Ma in nessun caso così ha funzionato – anzi, le tirannidi si abbattono solitamente per fame. La povertà è della filosofia?

zeulig@antiit.eu

Troppe tasse sui redditi, e sbagliate

La spesa ubblica è eccessiva. Incontrollata, incontrollabile, ingestibile, dispersiva. Improduttiva, specie a fronte delle risorse che sottrrae alla produttività, con l’imposizione fiscale sul reddito. L’imposizione fiscale sul reddito è a sua volta distorsiva più che peequativa: non produce la giustizia sociale che dichiara, mentre alimenta la spesa politica, di sottogoverno, a scapito degli investimenti, e soprattutto della “libertà d’investimento”, del sentirsi sicuri di non essere perseguitati, di potere operare in sicurezza. L’evasione ha un costo, ma evidentemente un costo che bisogna sopportare a fronte dell’onere fiscale.
Un’opera concisa e chiara, che ebbe due edizioni in due settimane, e poi è scomparsa. Mentre è attuale, ancora, dopo qasi quarant’anni. Se non altro perché ancora distingue fra evasione fiscale, erosione e elusione. Anche questa minima intelligenza della questione, lessicale, si è perduta. Dopo la “riforma Visentini” - l’“avvocato dei ricchi” © Scalfari – che tuttora fondamentalmente ci governa, dopo quasi mezzo secolo, non si è riusciti a fare più nulla: il reddito fisso paga, salari e pensioni, sempe più salato, e gli altri si arrangiano.
“La distribuzione del carico fiscale è considerata da tutti iniqua”. Perentoria e incontestata l’apertura – la prima riga - di pugno di Fuà. Troppe le tasse sul reddito. E troppo progressive. Anche per squilibri (automatismi) che l’inflazione aggrava - oggi come allora, nei primi anni 1980. Per “due fenomeni strettamente connessi: la dimensione della finanza pubblica, che essendo cresciuta vertiginosamente ha portato a un incremento assai accentuato della pressione tributaria”, senza alleviare la sperequazione sociale, “e il peso preponderante che ha assunto l’imposizione sui redditi”.
Un’analisi e un atto d’accusa di sinistra – con ripetuti riferimenti a analisi allora dottorali anche di Vincenzo Visco, che poi sarà ministro del Tesoro di vari governi “progressivisti” a cavaliere del 2000, autore del celebre motto “le imposte sono belle”. Fuà è stato l’economista forse più aggiornato del secondo Novecento, sui problemi dello sviluppo: collaboratore di Adriano Olivetti, di Enrico Mattei all’Eni, con Giorgio Ruffolo et al., di Gunnar Myrdal all’Onu, da ultimo creatore e animatore della “scuola di Ancona”, per la formazione del “capitale umano”. Rosini era un professore di Scienza delle Finanze, consigliere di Stato – personalità quasi istituzionale anche se fumantina: deputato Pci nella seconda legislatura (1953-1958), radiato dal Pci nel 1966 per indisciplina, vice-sindaco di Cacciari a Venezia, creatore e animatore degli Atei e Agnostici Razionalisti.
Una lettura spedita e comprensibile, che basterebbe riprendere quando si parla di evasione fiscale. Piena di verità semplici. “Se è problematico che la Pubblica Amministrazione danese riesca a spendere bene il 60 per cento del pil, come ci si può illudere che quella italiana spenda bene il 51 per cento?” (il 54,1 nel 2022). “L’opinione popolare diffusa negli ultimi decenni, che l’imposizione del reddito sia la forma di tassazione per eccellenza di un paese civile e non una forma come le altre, va energicamente combattuta”. L’erosione e l’evasione si legano a imposte sul reddito elevate – hanno un costo, che a un certo punto diventa conveniente. “L’aggravarsi del carico fiscale in Italia ha portato con sé, inevitabilmente, iniquità sempre più stridenti e quindi un crescente senso di ribellione”. Iniquità radicate nello stesso ceto sociale, tra familiari, coinquilini, conoscenti, tra chi paha il 50 per cento d’imposta e chi non paga niente. Senza contare la traslazione, che chi produce può sempre operare a danno dei clienti – dei più deboli: la “traslazione” non era considerata “quando l’imposizione diretta colpiva una parte relativamente esigua della popolazione e con aliquote che oggi giudicheremmo modeste” – ancora a fine Ottocento un’aliquota del 15 per cento “era considerata mostruosa”, un secolo più tardi “la maggior parte della popolazione è tassata con un’aliquota minima del 18 per cento” – oggi del 23 per cento.
Giorgio Fuà-Emilio Rosini,
Troppe tasse sui redditi

mercoledì 15 febbraio 2023

Problemi di base sanremesi - 733

spock
 

È l’auditel fatto per Sanremo, o è Sanremo fatto per l’auditel?

 

Ma la cocotte era Chiara o Fedez?

 

Fedez ruba la scena a Ferragni – le progressioni sponsor – o c’erano accordi prestabiliti, anche qui come nel matrimonio?

 

A Mattarella chi piace di più, Fedez o Ferragni?

 

E a proposito, la Costituzione in che posizione è arrivata a Sanremo?


spock@antiit.eu

Pasolini santo borghese

Questa parte del trittico romano “Pasolini santo” “parte dall’idea che mai un poeta, uno scrittore, un regista, un intellettuale, è stato così corpo e incarnazione della parola” come lui.
Come al Maxxi, moltissimi giornali, con gli articoli e le interviste di Pasolini, e molte prime edizioni, in libro o in rivista. Un po’ meglio leggibili che nel catafalco di Zaha Hadid - anche il Palazzo delle Esposizioni è un monumento allo spreco, ambientale e pure visivo, inutile oltre che brutto (è curioso, ma forse no, Pasolini in questi ambienti). E meglio ordinati, in sette sezioni: Volto (le persone sono santi), Dileggio (il linguaggio dei padri), Femminile (il sacro che ci è tolto), Abiti (i costumi del corpo), Voci (di popolo e di poeta), Partitella (la vera Italia, fuori dalle tenebre), Roma (la città in strada) e Roma (complice Sodoma). Col fondo sonoro, anche qui discreto, delle canzoni che Pasolini ha scritto o amava. Con molte foto curiose. Specifica di questa parte del trittico è l’esposizione di costumi e abiti di scena, un centinaio. Il centro vuoto dell’enorme palazzo è trasformato in sala lettura, con molti libri a disposizione dei visitatori, di Pasolini e su Pasolini.
L’impressione è confermata di uno scrittore-intellettuale, come si diceva in quegli anni, protagonista politico. Settimanalmente su “Vie Nuove” (“Dialoghi con Pasolini”) e su “Tempo” (prima “Il caos”, poi “Letture”), da ultimo su “Il Mondo” (“La pedagogia”), e negli ultimi cinque anni con i testi corsari da commentatore principe del “Corriere della sera”. Una presenza che i curatori assimilano a uno zibadone di pensieri – “tutta la sua produzione giornalistica ha la valenza di uno straordinario Zibaldone di pensieri e di lotta: è nel dialogo, nell’incontro con gli altri che avviene l’esperienza più poetica dei corpi”. No, la polemica giornalistica, cioè pubblica, è altro, è azione forse politica, sicuramente agonistica, malapartiana, da prim’attore (il modello è dei “Battibecchi” di Mapalarte).
In tutt’e due le mostre è assente, fra i tanti testi di richiamo, quello che fece più epoca, la poesia del ’68, contro il ’68. Che è per esempio politica e non corporea – il “corpo” dello studente non è dissimile da quello del poliziotto, seppure con i “capelli lunghi” invece che rasati, e anche più povero: “Il Pci ai giovani” si rilegge come una comica, pubblicato, a tamburo battente, oh scandalo, sull’“Espresso”, il settimanale della “buona borghesia”, in copertina. 
Un linguaggio teologico impregna le didascalie, del mondo come “incarnazione”: tutto è corpo, le lingue “tagliate” (e le altre no?), i poveri, il popolo (ma Pasolini non ha il popolo). Un exploit linguistico, oltre che di immagini. La chiesa non ha esibito mai nulla di simile, per nessun santo. Non così articolato, il tutto liquidando nei soliti quadri, molti di maniera.
Un linguaggio teologico impregna le didascalie, del mondo come “incarnazione”: tutto è corpo, le lingue “tagliate” (e le altre no?), i poveri, il popolo (ma Pasolini non ha il popolo). Un exploit linguistico, oltre che di immagini. La chiesa non ha esibito mai nulla di simile, per nessun santo. Non così articolato, il tutto liquidando nei soliti quadri, molti di maniera.
Questa santificazione di piazza, non subito ma quasi, gli avrebbe fatto piacere? Non è da escludere, Pasolini era come i suoi fans, si credeva. A leggerlo non si direbbe, ma lo era, uno che si credeva. Non amichevole. Non di se stesso. Non pacificato. Ma nel senso che non ne aveva mai abbastanza. È stato polemista da sempre, nei venticinque anni romani. Prima maestro di scuola, pedagogo sapiente e, sembra, paziente. Poi invece polemista – cioè uno che solleva i sassi su cui inciampare, se ne trovano dappertutto.
Le foto sono tutte in posa, quasi sempre sceneggiate – curate. Curatissima la foto in giardino a Sabaudia con Maraini, Callas e una sconosciuta in bikini a prendere il sole, che pure è un’istantanea, una polaroid. O a Porta Portese in due bottoni gabardine grigia di ottimo taglio, camicia bianca, piega ai pantaloni, a luglio, che a Roma è afosissimo.
Sponsor della mostra è Gucci, giustamente: Pasolini si voleva elegante, anche con gli scarpini e la maglietta del calcio, benché sui campi il fango predomini. La dimensione borghese di Pasolini, inevitabile forse, comunque ineluttabile, sia pure di borghese che si nega (si critica), troppo trascurata da critici e celebrazioni, sovrasta curioaamente la mostra. La sua morte, a figurarselo, a ripensarci, ha tutto dell’inverosimile, dell’enorme, dell’impossibile, ma è connaturata alla sua faccia, ai suoi curati tormenti. Mishima dev’esserte un richiamo già avanzato, ma è d’obbligo, soprattutto trattandosi del “tutto è corpo”.
Giuseppe Garrera- Cesare Pietroiusti-Clara Tosi Pamphili-Olivier Saillard, Pasolini santo – Il corpo poetico, Palazzo delle Esposizioni

martedì 14 febbraio 2023

Il non voto contro il sottogoverno – le promesse mancate

Roma vota centrodestra al 60 per cento in otto municipi su dodici, ma tutti di composizione sociale medio-bassa, con prevalenza delle periferie. Con esclusione cioè del Centro storico, i Parioli, piazza Bologna, l’Eur - quartieri ricchi e ricchissimi.
Le “periferie” romane vanno pensate diversamente che altrove: hanno un minimo di disegno urbanistico, sono attrezzate e servite, con spazi pubblici, anche molto ampi e alberati, caffè e ristoranti, teatri, e perfino ospedali. Sono però periferia “alla romana”. Dove cioè tutto “si compra”, i posti, i favori, le multe, perfino il mutuo in banca. Un vezzo mentale più che una pratica imposta: i partiti devono fare i galoppini, si fa politica perché si ha il potere di fare favori, risolvere problemi. Con una servitù politica che si penserebbe di destra, notabilare, fascistoide. E invece, evidentemente, è di sinistra - era.
La disaffezione elettorale non è ideologica, che scemenza – dopo un paio di generazioni di non-politica. Deriva dal mancato servizio reso. Dal sindaco Gualtieri? Dalla regione Lazio di Zingaretti – ha dato molti posti ma solo ai suoi, in senso proprio, ai fedelissimi?

Astensione come delusione, di sinistra

Si fa finta che non si sappia chi si astiene al voto. Mentre si sa benissimo. L’astensione fu record, maggiore di ieri, in Emilia-Romagna dopo sessant’anni di osannato governo Pci, nel 2014, ed è record nel Lazio dieci anni dopo, dopo dieci anni di governo Pd. Fa senso, più che l’astensione, che è un chiaro voto, la confusione dei commentatori: non si sa più (che) pensare.
 
Al Pd restano da governare quattro regioni su venti. Ma in Toscana governa per una maggioranza elettorale 51-49. E in Puglia e Campania per la presa di due personaggi “populisti” – cioè del “non prendiamoci in giro”, puntati sull’amministrazione. Che potrebbero anche essere di destra e nessuno se ne meraviglierebbe. 
 
La disaffezione dunque è massima nel voto regionale: l’ente Regione è lontano dall’elettore. Questo è stato notato, ma non abbastanza. Sarà difficile continuare a proporre l’autonomia differenziata come esigenza di “più democrazia”, federalistica, costituzionale – come se la Costituzione italiana fosse federale. Le Regioni sono centri di potere.

Il grande centro si aggrappa a Meloni

In piccolo, avendo votato in pochi tra Roma e Milano, ma è pur sempre in Italia grande centro, voglia di centro, avanti con prudenza. Certamente un italiano su tre che vota a destra non è di destra, non della destra pura e dura come si suole dire: è la parte moderata della maggioranza silenziosa, il grande centro.
Fratelli d’Italia, ex Alleanza Nazionale, ex Msi, ex partito fascista, che doppia la Lega in Lombardia fa impressione. Ma forse bisogna pensare al voto del centrodestra più di centro che di destra. La Lombardia, buona società confessionale, pensarla sempre alla ricerca del centro perduto - la Lombardia come il Veneto. Ci ha provato con la Lega, Salvini non ci ha sentito - Manfred Weber, cioè i Popolari europei, era stato già da lui. Ora ci prova con Meloni, che in Europa presiede i conservatori, magari di destra ma moderati, non oltranzisti, non terribilisti. Manfred Weber per questo era subito sceso a congratularsi.
Weber è il Centro europeo, cristiano-democratico per lo più, ma anche liberale (Berlusconi et al). Il “grande centro” sembra indistruttibile in Italia come in Germania, i due paesi dove fece il grande errore di confluire a destra (sono remoti, e anche asfittici i ragionamenti non lontani, anche di scienziati della politica come Bobbio, sulla democrazia come “alternanza”). E una volta si appoggia, in Italia come in Germania, alla sinistra moderata, una volta alla destra. In Italia Weber cerca il pilastro mancante, eclissandosi Berlusconi: ci ha provato con Salvini dopo le Europee, poi rivelatosi un parolaio, ci prova ora con Meloni, con più convinzione – Meloni viene dalla destra ma conosce la riservatezza (la prudenza è l’arte del governo del centro).

Twin Peaks all’ora di punta

La Rai propone, con Carlei regista e sceneggiatore, il fascino del sovrannaturale in prima serata. Alla “Twin  Peaks” (ragazzini, sentieri, convegni, pratiche mist(er)iche), in posti non frequentati, tra Udine e Tarvisio (“Travenì”), attorno a un  cadavare – qui due. Doppiato dal genere “Fargo”, senza l’ironia dei fratelli Coen, ma con la lentezza in aggiunta al mistero che vuole l’inverno in luogo remoto, sotto la neve.
Una scommessa. Affidata a una Elena Sofia Ricci invecchiata, diabetica golosa di krapfen. Di grande intuito, specie con i ragazzi, da mamma abortita, e da profiler d’esperienza. E di totale isolamento, al lavoro e fuori. La serie è basata su “I casi di Teresa Battaglia” di Ilaria Tuti, tre gialli di cui questo è il primo, attorno alla figura della commissaria sessantenne, golosa diabetica, tra mistero e sovrannaturale.
Carlei, in Italia specializzato da un quindicennio in serie tv, “Padre Pio”, “Ferrari”, “Il generale della Rovere”, “Fuga per la libertà - L’aviatore”, dal romanzo-verità di Alexander Sttille, ha avuto una lunga attività in America di regista, mancato, di film hollywoodiani. Una storia curiosa. Aveva debuttato con un film ignorato in Italia, “La corsa dell’innocente”, che invece in America divenne un piccolo blockbuster e un film di culto. L’esperienza hollywoodiana essendosi rivelata fallimentare – una diecina di progetti, nessuno dei quali realizzato – è tornato a fare serie tv, per lo più documentarie.
Sceneggiando lui stesso “I casi di Teresa Battaglia”, Carlei ha provato all’evidenza una serie sulle tracce di Lynch e dei Coen. Proponendosi di passaggio, e riuscendoci, di resuscitare Elena Sofia Ricci dalla catacomba della suora terrorista che Dio ce la mandi buona. E di dare un quadro diverso, realistico, di questi gialli “istituzionali”. Nelle diplomazie (intrusioni) dei sindaci. Nelle maniere spicce delle polizie. Negli ambienti sontuosi, non rimediati, non pauperistici, delle questure, p.es. a Udine. Per la tenuta del mistero e del sovrannaturale bisognerà aspettare le puntate successive – la partenza è buona: il mistero c’è, il sovrannaturale forse, come si sa.
La serie ha avuto il privilegio di una stroncatura previa, del “Sole 24 Ore Domenica”, a cura di Andrea Fornasiero: “Una serie impresentabile fin dalla sigla, dalla grafica vecchia come il pubblico di Rai 1 al quale è rivolta. Una fiction quale si sperava di non vederne mai più….”. Singolare. Cioè coraggiosa, anzi unica, non si è letta una stroncatura da anni, e quindi benemerita. Ma davero il pubblico di Rai 1 è vecchio? Come il festival di Sanremo? E tutte le altre serie che Netflix, Prime video, Paramount+, Disney + vendono in Italia grazie a una critica acritica sempre indistintamente corriva e anzi  entusiasta, tutte pimpanti, svelte, giovani? Come Harrison Ford (una sola espressione) e Helen Mirren (meglio di profilo, di sguincio), 157 anni in due, in “1923”, o gli incogniti di “Fleishman a pezzi”, certo australiani (quindi esotici?), che lo stesso giornale nella stessa pagina propone e anzi monumentalizza - ma davvero Fornasiero vede tutte le serie che censisce, quattro in una settimana?
E sempre ci si deve chiedere cosa vedano i critici, dei film e anche delle serie. Che possono essere anche molto lunghe.
Carlo Carlei,
Fiori sopra l’inferno, Rai 1

lunedì 13 febbraio 2023

Ombre - 654

Scandalo a Sanremo: nessuna cantante sul podio. Ci volevano le quote, una e mezzo e uno e mezzo, come alle votazioni politiche? Ma lo scandalo è proprio italiano: fra i dischi più venduti nel 2022 solo nove sui primi cento sono di donne – e cinque delle nove sono straniere. Urge una legge subito per la parità commerciale? Ma chi compra i dischi, solo gli uomini?
 
“Oltre a Mengoni, ha vinto Instagram, il territorio prediletto, la «bottega» di Chiara Ferragni: tramite un tutorial ad Amadeus, il social network ha goduto gratuitamente di una pubblicità che, monetizzata, avrebbe forse salvato i bilanci Rai”, Aldo Grasso. Un po’ criptico, ma: a gratis?
 
Singolare, insistito, 43 minuti, che in televisione sono un’enormità, processo della Rai-Domenica Sportiva contro la Juventus, che pure aveva vinto, con merito. Col conduttore Rimedio che insisteva, mettendo in imbarazzo molti dei suoi commentatori, Giordano, Marchisio, l’ex arbitro Saccani, la stessa napoletanissima Morace. Come se Rimedio dovesse svolgere un compito. Per conto del Grande Potere Confessionale dietro il campionato? Cambiano i millenni, la Rai è sempre quella.
 
Riprende lo stillicidio di intercettazioni sulla Juventus. Per bilanciare l’odio manifesto del giudice Santoriello, e di un paio di “giudici” sportivi? Riprende attraverso un canale fidato, il “Corriere della sera” del patron del Torino calcio, Cairo. Con la scusa di far sapere che anche un Agnelli dice “merda”. In realtà per mettere zizzannia con Chiesa, il campione italiano della Juventus. Sottile ma non poi tanto.
Però: c’è un giudice, o un colonnello della Finanza, che “lavora” così? Che può farlo.
 
La diffusione delle intercettazioni si penserebbe non discriminatoria: sono lì, e c’è chi sa leggerle, come il giornalista Nerozzi del “Corriere della sera”. Se non che in parallelo, sul supplemento “La Lettura” dello stesso giornale, il giurista Glauco Giostra denuncia sdegnato il potere arbitrario di diffusione dei termini d’indagine che la legge Cartabia 188\2021 riserva ai giudici: “La «somministrazione» della notizia processuale è sostanzialmente affidata all’arbitrio del detentore della stessa”, colonnello o giudice. E non siamo in uno Stato di polizia, Cartabia è buona devota.
 
Un Sanremo a sinistra spinta, dopo un’elezione perduta con largo svantaggio, alla vigilia di un’altra analoga, è una genialata. Un’esibizione di “democristianesimo” perenne, la pratica del potere che si nega, insuperabile. Turba soltanto la condiscendenza, anzi l’entusiasmo, dei media, che mostrano palesemente di non avere capito.
 
Non c’è stata sagra più “democristiana” di Sanremo 2023. Anche nello stile Baudo di Amadeus, fino ad ora semplice onesto presentatore. Che forse non ha gestito – li hanno gestiti Fuortes e Calenda – ma ha fatto del suo meglio per far passare Mattarella invece di Zelensky. Forse, a differenza di Baudo, non sapendo di che si trattava.
 
Mercoledì si canta e si balla a Sanremo con una band californiana, i Black Eyed Peas. Finalmente, nel mezzo della indistinguibile lagna che sarebbe la canzone italiana secondo il festival. Giovedì con i Måneskin, che cantano in inglese, al più mandando “Zitti e buoni” lagnosi e dipendenze, e con Tom Morello. E con “Fatti mandare dalla mamma”, un twist, di sessant’anni fa, musica di Bacalov.
 
Si accumulano a Milano archiviazioni e proscioglimenti al giudizio preliminare per l’Eni. E non si capisce il perché di queste indagini, quattro o cinque. Forse perché l’Eni operando in posti esotici, Algeria, Angola, Congo, le vacanze sono pagate – con interprete? La giustizia a volte è semplice.
 
Per due giorni, anche tre, la Siria è esclusa dal terremoto, anche se ha colpito Aleppo, città storica, che quindi l’Italia presume di conoscere, e ha fatto probabilmente più vittime e più danni che in Turchia. I media sono telecomandati, a centrale unica, anche nei terremoti?
 
Zelensky è stato mercoledì a Bruxelles. E martedì da Macron a Parigi, dove è stato ricevuto anche dal cancelliere tedesco. L’Italia voleva offrirgli la passerella di Sanremo – la diplomazia delle canzonette. Poi nemmeno quella. E forse ha appreso delle visite a Bruxelles e a Parigi dai giornali.
 
Benigni e Mattarella vanno a Sanremo a “difendere la Costituzione”. C’è qualcuno che la minaccia? Il giovanissimo Blanco, già premiato a Sanremo, finge un fit di follia e si mette a dare calci in scena.  Tutte gag programmate, Sanremo è spettacolo. E c’e spettacolo e spettacolo. La Rai li vuole così, e del resto agli italiani piace. Ma perché discutere ancora il giorno dopo, e ancora due giorni dopo, Benigni, Mattarella e Blanco? Il giornale dovrebbe avere di meglio da fare.
 
L’ex presidente del consiglio comunale di Prato, Maurizio Bettazzi, assolto dopo dieci anni dal solito garbuglio di imputazioni, non vuole risarcimento. Solo denuncia, con grandi spese, lo spreco pubblico di soldi e di forze, oltre che della sua personale integrità. Era uno che ci teneva? Credeva al partito? Credeva ai giornali?
 
“La Stampa” s’inventa una conversazione a palazzo Chigi fra il sottosegretario di Meloni, Fazzolari, e il generale Federici, consigliere militare di Meloni, su come “insegnare a sparare nelle scuole”. Sugli orecchiamenti di un-a dipendente di palazzo Chigi? Con susseguente “tempesta” politica, tra Pd, Iv, Verdi, l’onnipresente Conte, e fino a Salvini, l’alleato di Fazzolari-Meloni. Per una facile smentita di Fazzolari. I giornali di John Elkann giocano “a vacca”?
 
È singolare che Elkann schieri i suoi maggiori giornali, “la Repubblica” e La Stampa”, all’opposizione gridata contro un governo votato a grande maggioranza. Due-tre pagine al giorno, quattro-cinque articoli ammazza-governo, per 360 numeri l’anno, per cinque anni, fanno un exploit professionale rimarchevole, 7.200-9.000 cadute del governo – 14.400-18 mila fra i due giornali. Ma per quali lettori?
 
Può darsi che Elkann voglia perdere i suoi giornali, i capitalisti hanno ragioni che sfuggono alla ragione – potrebbe averli comprati per averli in continua perdita (per farsi benemerito pagando meno tasse). Ma possibile che a sinistra, e anche al centro, non si trovino ragioni politiche altre che quelle che “la Repubblica” e “La Stampa” indicano, magari con l’ausilio di speciali, ancorché anonime, confidenze?   
 
Però, pensare “la Repubblica” ceduta a Iervolino, l’editore-caronte verso la chiusura, fa accapponare la pelle – checché accapponare voglia dire. Che pagherebbe a Elkann quanto Elkann ha sborsato ai fratelli De Benedetti, più gli interessi. In cambio di che?
 
Il Monza, appena arrivato in serie A, va a Torino e vince contro la Juventus, il club con la rosa più estesa e qualificata e il monte ingaggi più elevato. Poi va a casa e perde con la Sampdoria, ultima in classifica - pareggia di fatto, ma per un regalo dell’arbitro. Tutto atletismo non è. Compreso il regalo dell’arbitro.
 
Il Manchester City è sotto un’inchiesta, legale e federale, della Premier League, con imputazioni più gravi della Juventus. In un paese, l’Inghilterra, che ha la piaga dei tabloid, giornali che vivono di scandalismo. Ma non c’è lo stillicidio di anticipazioni, rivelazioni, intercettazioni, senza contraddittorio possibile, in uso in Italia, patria del diritto. È (anche) per questo che la Gran Bretagna, che ha le pezze al culo, dà un’impressione di solidità e l’Italia di sempiterna fragilità: è il paese dei marpioni. Un apparato repressivo di marpioni (polizie e giudici) è tutto dire, il costituzionalista Benigni dovrebbe riflettere.
 
Grandi spiegazioni su “L’Economia” dell’amministratore delegato di Arca Fondi, la Sgr delle banche ex popolari, che rimprovera i risparmiatori di non avere educazione finanziaria. La quale non si sa che cosa sia (forse predire il futuro), ma: lui ce l’ha, con i fondi che perdono, anche il 30 per cento? Nessuno glielo chiede, e lui evita di spiegarlo, come mai i fondi sono in Italia un investimento a perdere. “L’era dei soldi facili è finita!”, ammonisce. Non per i fondi, le banche dei fondi?

Pioggia di enigmi su Edipo – o liberare l’incesto

Attorno alla Pizia che s’inventò il maleficio di Edipo, la sacerdotessa di Delfi Pannychis XI, convergono Tiresia e Sfinge, i sommi artificieri dell’enigmistica. Un po’ tragici ma di più commerciali, specie il cieco finto – in cui, pure, Camilleri, da ultimo cieco vero, riponeva tanta fiducia. Accorrono nel momento in cui la sacerdotessa, vecchia, stanca, e stufa d’inventarsi profezie, si pensa, con sollievo, alla morte. E ognuno se la racconta a suo modo, la storia di Laio, Giocasta, Edipo e Creonte – manca Antigone, ma con lei l’aggrovigliata vicenda diventerebbe insolubile. D’accordo però su un punto: tante tragedie a Tebe, di Sfinge figlia di Laio, e di Laio, Giocasta, Edipo, solo perché non c’era una fognatura – una fognatura avrebbe evitato il colera cronico.
Uno scherzo. Filosofico. Con l’andatura marciante della speciale suspense di Dürrenmatt. Ma di nessuna filosofia, se non che non si capisce niente. Del mito, del mondo e della vita. E un po’ anche del libello – si ride a sprazzi. Renata Colorni, che lo propone, dice che “l’insolenza di Dürrenmatt non mira a cancellare, ma a esaltare la presenza del vero arcano di Delfi: l’enigma”. Appunto, una lettura enigmatica.
Una sola certezza se ne ricava: che Edipo se la godé come non mai con la sua madre Giocasta, e Giocasta, madre puttaniera rinomata a Tebe, con questo suo figlio – che non era di Laio, il marito eunuco, ma del capo delle guardie. Questo potrebbe venire buono, in clima di diritti, per liberare l’incesto - Edipo è stato amante anche di Sfinge, avendo risolto il suo enigma, che anche lei potrebbe essere sua madre. 
Friedrich Dürrenmatt, La morte della Pizia, pp. 68 € 8

domenica 12 febbraio 2023

Letture - 511

letterautore


Amleto - Diventa Amleto, principe del dubbio e dell’inganno, tra Sette e Ottocento, in Germania. A opera degli Schlegel, di Goethe e di Hegel. Con una ripresa a Fine Secolo-primo Novecento in Nietzsche e nel primo Carl Schmitt. Mentre si estendeva in Russia, Tolstoj, Turgenev e Blok. Con code e agganci Pirandello, Joyce, T.S. Eliot. Boitani ne traccia così la fortuna in “In cerca di Amleto”.
Singolare la sua assenza nelle lettere francesi, va aggiunto. E americane – con la tardiva ripresa da parte di Stephen Greenblatt, già cultore di italianistica.

Geografia – Da Deledda in poi, e fino a Camilleri, compreso Sciascia, o i sardi compresi Ledda e Murgia, usa inventarla. Aveva il suo nome proprio in precedenza, da Manzoni e fino a Pirandello, compresi Verga e D’Annunzio?


Pasolini - Era un maestro di scuola, un pedagogista, prima e più di tutto - l’unica sua figura non celebrata nel centenario della nascita. Aveva cominciato come maestrino, di lingua, di poesia, di vita, insieme con la madre a Versuta, giovane imboscato durante l’occupazione. Gli articoli che pubblicò sul settimanale Il Mondo” nell’ultimo anno di vita, scrittore celeberrimo, firma di punta della rivista, volle sotto la rubrica “Il Pedagogista”.
È la chiave forse di Pasolini: molta pedagogia è negli scritti linguistici, nella poesia “civile”, nella narrativa e in alcuni film, negli stessi scritti corsari e luterani degli ultimi anni – è in questa chiave che si possono ancora leggere.

Piroscafo dei filosofi – Così Ilja Ehrenburg chiama nelle memorie (“Uomini, anni, vita”), una delle cosiddette “Navi dei filosofi”, Quella che aveva imbarcato in particolare Berdjaev, Bulgakov, Lev Karsavin, fratello della ballerina Tamara Platonovna Karsavina, Osorgin, esuli in Germania, a Berlino. Altri intellettuali e artisti russi arrivarono a Berlino, più o meno esuli volontari, in treno: Šklovskij, Remizov, Nabokov, lo stesso Ehrenburg – che nelle memorie nel 1960, li ricorderà numerosissimi: “Ignoro quanti russi vivessero a Berlino in quegli anni, ma senza dubbio erano molto numerosi,  dato che a ogni cantone si sentiva parlare russo…In un solo anno sorsero ben diciassette case editrici russe”. Nel solo 1922, nota Antonella D’Amelia, “La Russia oltreconfine”, p. 219, si tennero “due grandi mostre d’arte”, che segnarono la scena di Berlino – la prima era “La grande mostra futurista (Die grosse futuristische Ausstellung).
Furono dette “navi dei filosofi” le spedizioni all’estero di artisti e intellettuali russi nel 1922. Da Pietroburgo alla Germania, a Stettino, e quindi a Berlino, che nei primi anni 1920 fu una sorta di capitale intellettuale e artistica russa, dei russi in esilio dalla rivoluzione, o semplicemente in pausa di riflessione – molto ritorneranno nella Russia orma sovietica. A maggio del 1922, prima della proclamazione del sovietismo, Lenin pensò buona cosa facilitare l’emigrazione degli intellettuali che non intendevano aderire al regime socialista. E la fece organizzare dalla polizia politica, la futura Cekà, di Feliks Edmundovič Dzeržinskij. Nel mentre che modificava le leggi per introdurre il confino amministrativo, l’espulsione diretta su decisione della polizia.
Degli indesiderati si fece una retata, poco meno di un arresto in massa, a Ferragosto, lasciando loro la scelta di andare in prigione oppure in esilio. In questo caso pagandosi le spese di viaggio e senza poter asportare niente, nemmeno i libri, ma con la famiglia. Due navi tedesche si incaricarono del trasbordo di chi optava per l’esilio: la “Oberbürgermeister Haken”, che partì il 29 settembre 1922 e giunse a Stettino l’1 ottobre, con 35 emigrati intellettualii, e la “Preussen”, che partì più tardi a novembre. Tra gli emigrati delle due “navi” tra gli altri la futura Elsa Triolet, nata Kagan, col padre Abram.

Puškin – Lo ricorda il servo di Gogol’ Nimčenko (nel “Racconto di Jakim Nimčenko”, raccolto da Vasilij Gorlenko), frequentatore di Gogol’ (“veniva spesso”): “Non moto alto, ricciuto, butterato, non bello”, nelle parole di Gorlenko, “vestito alla buona, in modo un po’ bislacco”. Molto diverso dall’immagine di poeta principe, quasi di core, benché critico.
“Fuori catalogo” in Italia già da prima di Putin, ed è un danno. Personaggio contemporaneo, oltre che narratore, drammaturgo e poeta capitale, per la Russia e non solo. Afrorusso, libertario, innamorato, se morì fu per gelosia della moglie, generoso, con Gogol’, Griboëdov, e tutti gli scrittori suoi contemporanei.

Romanzi russi – “Nei romanzi russi c’è sempre l’uomo forte, ma è tedesco” – Eugenio Montale.

Sciascia – Ha qualcosa di Camus e non lo sapevamo? Il giovane Ian Thomson, che poi lo avrebbe tradotto in inglese, lo vede la prima volta a Palermo nel 1984, in visita per una lunga intervista – lunga alla fine tre ore di seguito - per il “London Magazine”, “in piedi, curioso incrocio tra Albert Camus e Humphrey Bogart”. Somiglianza fisica, ma il rapporto con Camus c’è, seppure non indagato, e forse fuori dall’orizzonte di Sciascia – che, a memoria, non lo ha mai citato: c’è nella polemica civile, e nei tempi dei racconti, compreso il distacco ironico.

Torino – L’idea della città razionale, squadrata da linee e rettangoli, appare buffa a Maria, la giovanissima protagonista di Michela Murgia, “Accabadora”, per un tempo esiliata dal apese natìo, “Soreni, a Torino, talmente “le sembrava illogica”, che ne scrive alla sorella come di “una divertente novità”: “L’idea che i torinesi avessero prima di tutto deciso il viaggio, e solo in un secondo momento si fossero dati da fare per costruire come meta le case, le piazze ed i palazzi”.

C’è un altro modo di crescita dell’abitato – non solo per una ragazza che non è mai uscita prima dal paese: “Quell’ordine millimetrico la urtava nel buon senso, convinta che per le strade il modo giusto di nascere potesse essere solo quello di Soreni, le cui vie erano emerse dalle case stesse come scarti…., ricavate una per una come spazi casualmente sopravvissuti…”

Vermeer - Vermeer si era fatto cattolico. Senza alcun dubbio, spiega il curatore della mostra al Rijkmuseum sul “Robinson”: vicino dei gesuiti nella sua città, Delft, e come loro appassionato di ottica (ombre, luci, lanterna magica), ma non si può dire. Se fosse nato cattolico e morto calvinista sarebbe stato un titolo di onore.
In realtà c’era molto più cattolicesimo in Vermeer di quanto il curatore ha tenuto conto. Nato da una copia calvinista, e battezzato nella chiesa protestante, aveva sposato giovane, a ventun anni, una giovane cattolica, e con lei era andato ad abitare dalla suocera, che era vedova, ricca e molto religiosa. Vicina e praticante dei gesuiti. Ricca tanto da sostenere Vermeer nella sua difficile “carriera” di pittore senza corte, al benvolere di committenti borghesi, sparsi - per quanto danarosi però non collezionisti. E ne protesse la numerosa figliolanza, quattordici tra ragazzi e ragazze, tutti battezzati cattolici – “due dei suoi figli erano stati battezzati nella fede cattolica con i nomi dei fondatori (dei gesuiti, n.d.r.)”, spiega il curatore Gregor J.M.Weber a Dario Pappalardo, “Francesco (Saverio) e Ignazio”.

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Illusorietà del potere: la Rai schiaccia tutto

La Rai impone le Cinque Giornate di Sanremo, già a partire da ottobre, come impone i suoi orribili film che nessuno poi vedrà ai critici e alle mostre, con le sue melense cronache del siamo tutti buoni eccetto i cattivi, che sono quelli che non sono del nostro partito – in questa stagione Pd. Questo è un fatto: potenza degli uffici stampa della Rai.
I dati di ascolto sono, nel clima trionfalistico, ogni anno migliori del precedente. Questo già non è più del tutto vero. La Rai può ogni anno vantare ascolti record, in termini di spettatori, e in quota di audience. Ma fino a un certo punto. Sanremo serata finale vanta 12,2 milioni di spettatori, che fanno il 66 per cento di share, due terzi del pubblico televisivo. Un record? Il solo Montalbano, il commissario di Camilleri, senza lustrini, tagli inguinali e belle presentatrici, è arrivato a 11,3 milioni di spettatori, ma solo al 45,1 per cento di share. Molti ieri hanno semplicemente chiuso il televisore, il che di sabato è – per la pubblicità – un fatto grave.
Sarebbe, perché non c’è per il mercato alternativa. Oltre che a dominare l’informazione, la Rai riesce con Sanremo anche a domare la concorrenza, da illusionismo superiore: la concorrenza disarma, la pubblicità non paga. La concorrenza getta le armi in anticipo: niente programmazione nelle cinque giornate. Con Sanremo da sola la Rai “fa il bilancio”: con poca spesa tutto sommato, eccettuate le presentatrici di coscia lunga, le scenografie, e l’enorme organizzazione di relazioni pubbliche, sfruttando i poveri cantanti che ogni sera devono ripetere la solfa.  
Il potere può essere, tutto sommato, semplice, sebbene di natura dubbia.

Illusorietà del potere: la Rai non è l'Italia

Sanremo, un fenomeno commerciale, è anche politico? A prima vista sì. Quest’anno tutto a favore del Pd, cui fanno capo i dirigenti Fuortes e Colella. Con le presenze mattatoriali: Mattarella, Benigni, Morandi, Fedez, Ferragni, Egonu e le altre. Con i temi scelti: antirazzismo, marijuana, la liberazione dalla maternità, l’omosessualità esibita. Bollando al contempo come molestia un tocco fortuito tra maschio e femmina (Morandi con Egonu). Benché conditi da immagini vetero maschiliste, di seni, cosce e malizie femminili. La stessa decisione di non fare parlare Zelensky non è stata presa in ossequio a Salvini ma a esponenti dispicco del Pd e viciniori, Fratoianni, Ovadia, Freccero.
Il peso politico sembra confermato dall’acquiescenza dei media, tutti soggiogati, con ampi spazi e inventivi elogi, di inviati anche di nome e di qualità, dei maggiori gruppi editoriali: i schierati per il Pd, Gedi, Rcs, Sky, La 7, Monti-Riffeser, Caltagirone.
Ma questo è un altro discorso, di che senso e valore ha l’opinione pubblica. Ogni cosa si presume che sia buona o cattiva in rapporto a certi parametri, politici, di verità, libertà, artistici, deontologici. Alla Rai tutto va bene purché sia Rai – in questa stagione Pd. E tutto viene concesso (accettato passivamente) dai media.
Se non che, in parallelo con Sanremo, il Pd che monopolizzava temi e personaggi alla kermesse, viveva meste serate nei circoli, che pochi iscritti o simpatizzanti movimentavano, per eleggere il nuovo capo del partito. Serate di cui si evitava con cura di dare il numero dei partecipanti, deviando l’attenzione sulle quote di questo o quel candidato, ma non entusiaste. E si andava a votare in Lazio e Lombardia con la prospettiva di una sconfitta, la seconda in quattro mesi.
Il potere mediatico è illusorio, anche se la Rai ci “fa i bilanci” – ne è vittima giusto l’opinione pubblica (la professione di giornalismo). Perché, poi, si dice Pd ma è sempre la vecchia Rai confessionale, cioè di potere - confinare Zelensky alle 2 di notte solo la provincialissima Dc poteva farlo.

Pasta&Pizza, dall’abominio al trionfo

La celebrata dieta mediterranea è stata per un paio di secoli, da quando in Europa si è ripreso a viaggiare, disprezzata, e anzi data per malsana, se non letale. Immangiabile e indigeribile, perfino piena (la pasta) di vermi. Per non dire dei frutti di mare. E non in un’epoca remota, dall’italianista Dumas al toscano Collodi, nora Richter, fino a recente, al secondo dopoguerra. Quando, spiega, l’emigrazione, di necessità ma non più di povertà, portò in Europa e in America l’espresso, il gelato, la pizza e la pasta – con, sarebbe da aggiungere, il parmigiano, la mozzarella, e la rucola. Fino a fare di Pasta&Pizza, conclude Richter, “la cifra della modernità gobale”.
L’avanzata ebbe come avanguardie i gelatai tradizionali in Centro Europa del Friuli, e i “napoletani” esperti di limoni. Un passaggio che si può testimoniare personalmente: furono i fruttivendoli “napoletani” a insegnare la rucola e l’insalata a Firenze e Milano negli anni 1960. Vent’anni dopo era fatta. In Germania, nel partito degli italianisti, c’erano i partigiani della cucina toscana e quelli della cucina emiliana.
L’ottantacinquenne Richter, già professore di Letteratura Critica a Brema, dove vive, cittadino onorario di Amalfi, cultore appassionato e acuto della “materia napoletana” (“Napoli Cosmopolita”, “Lettere da Capri”, raccolta di epistolari da e sull’isola dal 1826 al 1907), racconta qui la tragicomica vicenda della cucina italiana. Con fine ironia e molte illustrazioni.  
Dieter Richter, Con Gusto.
Il Grand Tour della cucina italiana, Centro di Cultura Amalfitana, pp. 151, ill. € 18