sabato 18 marzo 2023
Putin incriminato Putin rafforzato
Si celebrano i vent’anni della guerra all’Iraq, giudicata pretestuosa (su “cause false”), condotta male, dal punto di vista militare e da quello morale (torture, bombardamenti di civili, “fuoco amico” indiscriminato, anche contro gli italiani), e conclusa col ritiro. Un Afghanistan anticipato, con la differenza che in Iraq, paese molto urbanizzato, molto c’era da distruggere, edilizia urbana, sistemi sanitari, scuole, e molto la “coalizione dei volenterosi” con Usa e Uk ha distrutto. Si celebra lo stesso giorno in cui la Corte Penale Internazionale dell’Aja spicca un mandato per crimini di guerra contro il presidente russo Putin.
Aristofane social - disneyano
Il mondo dei social
nell’Atene di Aristofane, e di Socrate. Attorno al Socrate di A ristofane pre-sofista,
cioè chiacchierone più che saggio. Stupidi e furbi s’intrecciano in dialoghi degli
scemi, corredati da tranelli, scherzi, percosse, e rumori e gesti osceni, una
sorta di anticipazione, due millenni e mezzo fa, dei linguaggi oggi consueti –
oggi anche femminili, allora soltanto maschili, femminili sono nel cattivissimo
Aristofane le nuvole, coro leggiadro.
Un mondo che
Vincenzo Zingaro ripropone nel suo primo adattamento ormai classico, nel 1992, poi
portato in vari festival europei. Messo a punto con la sua compagnia Castalia,
al teatro Arcobaleno prospiciente la villa Torlonia, un vecchio avanspettacolo
di Alberto Sordi divenuto Centro Stabile del Classico per tutte le compagnie italiane.
Una riedizione impegnativa,
per il doppio ruolo cui quattro attori alternativamente rappresentano, Ugo Cardinali,
Rocco Militano, Fabrizio Passerini, Piero Sarpa. Per un teatro di maschere,
create a suo tempo da Rino Carboni, specialista del trucco e degli effetti
speciali, collaboratore di Fellini. Che i personaggi retorici dell’originale,
Discorso giusto, Discorso ingiusto, Primo Creditore, Secondo Creditore, riveste
da animali, come è l’uso nello stesso Aristofane, o da coatti di giornata.
La musica, anche
questa dell’allestimento originario, di Giovanni Zappalorto, segue i personaggi
come in un cartoon Disney. Altro effetto ricercato, secondo un’idea del regista-adattatore,
che di Aristofane fa per plurime tracce un precursore dei cartoon.
Aristofane, Le nuvole,
Teatro Arcobaleno, Roma
venerdì 17 marzo 2023
Problemi di base storici - 739
spock
“La storia
giustifica ciò che si vuole. Essa non insegna assolutamente nulla, perché
contiene tutto e dà esempi su tutto”, Paul Valéry?
La storia si
ripete, il passato non passa, e di chi è la colpa?
C’è un agente
nella storia, o è un mulino a vento?
La storia si
fa, a differenza della poesia, senza saperlo, e di chi è la colpa?
La storia si
fa - da sé o da parte di qualcuno?
Non sarà la
fine della storia la storia della fine?
Quando?
spock@antiit.eu
La versione di Tina
Battistina, “Tina”,
Pizzardo si racconta, la “donna del destino” di molto Pavese – a torto. Si racconta
fino alla storia vissuta con Pavese. Ma è un racconto di come si vveva, male,
negli anni 1920-1930, i suoi venti e trent’anni, da giovani e anche spensierati
soggetti a sorveglianze, perquisizioni, ammonizioni, arresti, processi.
Antifascista, per
tutto il lungo racconto, e anche dopo, fa d’acchito i conti col l’antifascismo,
“una vita sprecata” considerando la sua: “Perché anzitutto il fascismo sotto
varie maschere è ben vivo nel mondo, poi perché il fascismo italiano è stato
abbattuto non certo dai suoi strenui oppositori, ma da quegli stessi che
vent’anni prima lo avevano, per loro tornaconto, instaurato. Chi nella lotta ha
lasciato al vita è morto per niente”. Lei per tutti i venti anni che racconta
ne ha subito le pene: sorveglianza, obbligo di frima, carcere, precarietà, una
vita affannosa di insegnante privata a ore, benché matematica, allieva di Peano.
Un racconto
scritto tardi, dopo che il suo nome era stato insinuato quale colpevole del
suicidio di Pavese. Rimasto inedito, come tutto ciò che Tina-Battistina ha scritto
- aveva provato già prima della morte di Pavese, a partire dal 1948, di
pubblicare un romanzo che poi è andato perduto, “Fuga in prigione”, presumibilmente
sulle stesse “avventure” di questo “Senza pensarci due volte”. Pubblicato postumo,
nel 1996, per la cura del figlio Vittorio. Si riprende, per la cura della
vedova di Vittorio, la nuora Vanna Lorenzoni Rieser, dopo 27 anni, a ridosso
del revival Pavese, con la scadenza dei diritti. Aveva tentato di pubblicare “Fuga
in prigione” per dieci lunghi anni, informa Sandra Petrignani, “La versione di
Tina”, una nota che funge da prefazione alla riedizione: “Apprezzato da Primo
Levi ma bocciato da Einaudi e in seguito da Feltrinelli”.
Un racconto
veridico, anche perché non si fa sconti, pur evitando l’autoflagellazione. Vivace,
sempre leggibile. E unico per molti aspetti. Di donna intrepida, molto libera e
molto autonoma. Che ebbe molti flirt e anche qualche fidanzato. I più noti più
giovani di lei, Altiero Spinelli di quattro anni, Cesare Pavese di cinque. Un racconto
di un’età, gli anni del fascismo. Da un altro punto di vista, personale, e umano.
Di persone e situazioni vere, non di maniera, trascurate dalle storie. Le carceri.
Le carcerate, tante, diverse. Le madri superiore delle carceri femminili, anche
loro molto diverse, dalla sadica alla complice. Tante carceri, tutte diverse,
ben rappresentate in breve: Le Nuove a Torino, Marassi, Piacenza, Bologna, Ancona,
Grosseto, le Mantellate. Ognuna un mondo a sé. Con alcuni punti in comune: “La
carta igienica era marrone, perché non si potesse scriverci sopra”. Con le
“politiche” divise dalle “comuni”. Tra le quali il lesbismo è pratica diffusa.
Protetta, in qualche carcere, dalla suora secondina. Con una compagna di
branda, naturalmente una “politica”, tenta anche una disinvolta fuga, senza
sapere dove andare, ma con tanto di buco nel muro e di corda arrotolata pronta
all’uso. Fuga poi abortita perché la stessa mattina la compagna viene messa in
libertà – il regime, la burocrazia, è imprevedibile.
Un tratto felice
delinea una selva di eprpsoanggi in breve e br evissimo. “Togliattino” - “fratello
di Palmiro, morì giovane” - che la “presenta” per la tessera al partito Nazionalista,
al quale i conoscenti all’università la ritenevano destinata essendo stato il
padre militare. Il salotto di Barbara Allason. La facondia di “don Benedetto”
(Croce) Velio Spano a lungo e con affetto,
che la presenta al Partito, il partito Comunista, con Renzo Montagnana, primo
cognato di Togliatti.
Il partito subito
la manda a Roma. Dove è ospite in un istituto di suore, per le cure e a spese
del cugino Pizzarro, alora monsignore, presto cardinale. È, e sarà tutta la
vita, una comunista “nipote di un gesuita, nipote di una badessa agostiniana, pronipote
di due suore di San Vincenzo (una, o tutt’e due, in odor di santità), cugina di
un cardinale”.
Il “contatto” a Roma,
alla cellula universitaria, è Altriero Spinelli. “Altiero non aveva ancora 20
anni, e io ne avevo 24” è la prima notazione. Un rapporto intimo s’instaura che
durerà nove anni. Gli anni del carcere di Altiero, di cui Tina sarà la
“fidanzata”, quella cioè autorizzata a scrivergli, e a riceverne le lettere. Perché
presto i comunisti clandestini sono traditi, nel 1930, da un comapgno che
fungeva da corriere tra le città e quindi ne sconosceva molti. Tina è salvata,
forse casualmente, da un commissario della politica, che rimuove dalle carte a
lei sequestrate le sole due che provavano la sua appartenenza al partito Comunista.
Altiero e altri sono mandati al tribunale speciale e condannati. Ma un rapporto
sempre in clima di militanza. “Non si piange sui caduti, perché a quel tempo
nel partito si crede che il fascismo avrà vita breve”. Spinelli specialmente lo
crede. In uno degli incontri clandestini “lungo la linea Roma-Milano dove lui
doveva recarsi come corriere” (ma in realtà a Lucca), dopo l’attentato Zamboni,
fine ottobre 1926, Altiero le ha assicurato “che il partito saprà resistere e,
entro due o tre anni, vincere”.
Il legame con Spinelli
prigioniero Tina lascia ambiguo. La corrispondenza tra “fidanzati” dura nove
anni. Lui al ricorda poco nelle memorie, Lei, ricorda, “l’8 ottobre 1927 gli
scrivevo da carcere a carcere la prima delle mille e forse più lettere che gli
avrei scritto fino al maggio del ’35 quando, per essere stata di nuovo arrestata,
mi sarà impossibile continuare”. Con l’affetto dei familiari di Altiero, la
madre, le sorelle, almeno uno dei fratelli. Di lui non si sa, anche se avrà
scritto anche lui le sue mille lettere. Il tributo è unico, in tanta
memorialistica, a Maria Spinelli, la madre di Altiero, “una donna che tra la scuola
(ha insegnato per quarant’anni), otto figli estrosi, un marito dispotico, le
frequenti difficoltà finanziarie, gli alti e bassi di una malattia cronica, è
sempre riuscita, mossa dall’innata bontà e dagli ideali socialisti della sua
lontana giovinezza, prodigarsi per tutti”
– la sua madre “adottiva”.
Gli ultimi quattro
capitoli sono dedicati al rapporto con Pavese. Dopo un quintultimo capitolo sul
rapporto in un primo tempo casuale con quello che sarà suo marito, Henek Rieser,
comunista, polacco, ebreo. Prima di Pavese, un forte ricordo è dedicato a Leone
Ginzburg, “il più intelligente, ma soprattutto il più buono, più fraterno, più
caro, dei nuovi amici”, quelli di Giustizia e Libertà, del salotto di Barbara Allason. “Ciuffo, pipa, scontrosità me lo fanno riconoscere prima che mi sia presentato", è la prima immagine di Pavese: "Penso che di lui so tutto e che ci piacciono le stesse cose. Più tardi scoprirò
che tutto ciò che so di lui è tutto un po’ sbagliato. Ha tradotto ‘Moby Dick’,
quindi ama il mare. No, odia il mare….”, etc. È misogino. Non ama la politica –
“Non so quante volte lo vedo in casa di Barbara, certo poche perché non ci
veniva volentieri: si parla troppo di politica…
e tutte quelle smorfiose… e il the... roba che non fa per lui”.
Non è stato un
colpo di fulmine, né da una parte né dall’altra. Non c’è stato nemmeno un rapporto
intimo. A Pavese piacerà pensarlo nel confino di Brancaleone nel 1935 - che
dura solo sei mesi, non un’eternità, come si è indotti a pensare, presto arriva
la grazia. Né al ritorno a Torino c’è stata la scena teatrale messa in giro da
Davide Lajolo, “Il vizio assurdo”: l’incontro alla stazione, l’annuncio del
matrimonio di Tina, lo svenimento. Ci sono stati incontri, con la proposta di
matrimonio, che Tina ha ritenuto inappropriata al loro rapporto, di amicizia.
Sa che Pavese ne scriverà e, soprattutto, ne parlerà male. Ma sa anche che
Pavese non ha una concezione qualsiasi di un rapporto a due con una donna – si attribuirà
molteplici amori, con una “dichiarazione” perfino alla diciottenne Romilda Bollati
baronessa di Saint-Pierre, dopo le sorelle Dowling. Una “tendenza”, quella del
suicidio, che ora si sa aveva coltivato, e minacciato, in più occasioni. Era
pure un bell’uomo: “Mi pare ancora di vederlo”, scrive Tina dell’incontro
fortuito sul Po il 31 luglio 1933, il primo incontro a due, quando Pavese,
maestro della navigazione “a punta”, imbarca malvolentieri Tina che andava a remi
con un amico comune, al quale aveva appena esternato il desiderio d’imparare ad
andare “a punta”: “Alto, corpo d’adolescente annerito dal sole, mutandine da
bagno e cappellaccio di feltro calcato fino agli occhiali. (C’era solo lui sul
Po a portare il cappello con le mutandine da bagno, lui e i sabbiadori)”. “La versione
di Tina” si fa leggere, e anche credere.
Tina Pizzardo,
Senza pensarci due volte, il Mulino, pp. 255, ill. € 18
giovedì 16 marzo 2023
Secondi pensieri - 509
zeulig
Complotto - Si crea un
nemico, e poi lo “difende” – lo attrezza, lo arricchisce o potenzia, lo
migliora, se lo rende invincibile. È una creazione, una proiezione di sé: chi
non ha iniziativa forza, coraggio, fortuna, di fare da sé s’immagina di combattere
l’Altro che si crea, nelle forme che egli stesso elabora.
Vive, vegeta, prospera, si moltiplica perché impossibile “dimostrare” il
contrario. Scava nella buona coscienza e nella buona fede, la altrui ma anche
la propria, se ne fa aggio, tradendola ovviamente. Sempre su un presupposto proprio,
quello che uno si pone.
È ipotesi (pattern, modalità) mentale, o delectatio, da
tempo di pace. Da tempo in cui, cioè, non urgono minacce esistenziali reali.
Non è stato così nel caso della pandemia da covid. Ma per una trahison des
clercs, degli specialisti, degli scienziati. In parte in malafede, per
eccessiva specializzazione, oppure protagonismo, mediatico, politico, di
potere, anche solo accademico. In parte senza colpa, perché la scienza è reputata
asettica, non pregiudicata (politicizzata, fidelizzata, comunque prevenuta):
libera e intelligente, di intelligenza incontestabile. Mentre la scienza, già
come ricerca, ma anche come campo scientifico, è un coacervo massimamente
litigioso – può esserlo, di fatto lo è, in troppe occasioni.
Manomorta – Si può dire la
risorgiva della borghesia italiana. Che per questo è pusillanime, corrotta più
che innovativa o avventurosa, e più nella sua persistente, ininterrotta
simbiosi col potere politico – in altra cultura si direbbe lo Stato. A intervalli
nemmeno molto spaziati tra di loro.
La manomorta propriamente detta è costituita dai beni degli enti ecclesiastici,
parrocchie comprese, che pure esplicano funzioni pubbliche, e si può ritenere
conclusa con le leggi eversive, pre- e post-unitarie. Quella del Regno di
Sardegna, 1855, portò alla “nazionalizzazione” 399 conventi e 1.700 benefici
ecclesiastici, per un valore stimato in lire di allora di 3,651 milioni - dai
dati riportati da Lucetta Scarafia, “Il contributo dei cattolici
all’unificazione”, in “I cattolici che hanno fatto l’Italia”. Quella del 1866 portò
alla “nazionalizzazione” di 37.031 enti ecclesiastici, per un controvalore di
321,3 milioni di lire, per metà di immobili e per metà di valori mobiliari. Di
valore reale, però, decuplicato o centuplicato. Ciò che lo Stato ne ricavò,
vendendo (da cui i valori ufficiali della “eversione”), fu infatti poca cosa:
la parte del patrimonio ecclesiastico che andò ai privati fu svenduto, a favore
di amici e protetti, la parte immobiliare destinata al demanio (caserme, scuole,
uffici) richiese grossi appalti – la forma privilegiata di finanziamento delle clientele
personali e politiche.
Oggi è l’enorme “terzo settore”, dei servizi pubblici pagati dallo Stato
in appalto ai privati, con criteri contrattali laschi e senza controlli, un
settore in crescita tumultuosa. In quarant’anni è cresciuto fino a gestire 80
miliardi di euro, il 5 per cento del prodotto interno lordo.
Si suole dire che in Italia non c’è borghesia. Lo ha sostenuto anche il Grande Borghese Scalfari:
“La borghesia è la classe di chi ha un reddito che supera l’appagamento dei beni
necessari e che può pertanto farsi carico anche del bene comune. In Italia
questo non è avvenuto”.
Questo non è vero. Una borghesia in Italia è bensì attiva, nella
produzione e negli affari, perfino più industriosa che in altre nazioni. Ma si
nega. Un negarsi che è molto borghese – fa alta borghesia, nobiltà dello
spirito – ma in Italia caratteristicamente risponde al bisogno di differenziarsi
dal rank-and-file della classe sociale, le turbe che vivono della
rendita pubblica.
Psicoanalisi – È la
stregoneria ammodernata? Il riferimento è per ridere ed è vecchio, ma Feynman
spiega seriamente perché (“Il senso delle cose”. 118). Con un parallelo solo all’apparenza
capzioso. Le idee, le ipotesi, emergono a caso, “di solito sono frutto di
analogie, ma a volte questo sistema porta a errori madornali”. E fa il
parallelo fra “un’età prescientifica” e “l’analogo nella nostra epoca”. Quale?
La scienza psicoanalitica. Lo stregone, racconta il fisico americano, dice di
saper curare le malattie. Il chinino pure. Il chinino funziona. Allo steso modo
come dice lo stregone: “Ci sono spiriti dentro il corpo del malato che bisogna
aiutare a uscire, soffiandoli via, cose di questo genere”. Il malato che faccia
parte della tribù va dallo stregone, “perché ne sa più di chiunque altro”,
magari continuando a dirgli che è uno sbruffone, e che giorno verrà che se ne
farà giustizia. Noi, che non apparteniamo a una tribù, siamo anche esenti dalle
stregonerie? No, se guardiamo agli psicoanalisti e agli psichiatri, “a quante
teorie complicate sono riusciti a tirar fuori in un tempo infinitesimo”, senza
confronto con qualunque altra scienza: “Tutto questo gran castello, e le pulsioni,
le inibizioni, l’Io e l’Es, e le funzioni, le tensioni…. Non può essere tutto
vero”. Per un motivo semplice: “Sarebbe troppo perché una sola mente (o poche
menti) ci potesse arrivare in così breve tempo”. Ma, facendo parte della tribù,
“non c’è nessun altro a cui rivolgersi, c’è solo lo stregone”.
Opinione Pubblica – Il “caso”
meglio è raccontato meno ha la probabilità di eserte “vero”, se non nella sua singolarità
è il problema dell’Opinione pubblica – dei media, della comunicazione. Più è
singolare, più è convincente, meno, contrariamente all’opinione corrente, è
vero in senso lato, sistemico – è individualizzato.
Sapere (capire) per credere: è facile, perfino “normale”, fare leva su
questa equazione per diffondere il falso – violento, abietto. Caso abnorme è
quello dell’Italia con la giustizia. Delle cronache di giustizia, opera di furberie
composite, neppure tanto sottili, anzi di proposito aggressive: indiscrezioni,
insinuazioni, allusioni, il cosiddetto armamentario del sospetto, che rende ogni
difesa inutile. Per un semplice sofisma: fare leva sul bisogno di verità, urgenza
di verità, per diffondere il falso, imporlo, impiantarlo nella buona coscienza,
dopodiché diventa non sradicabile. Si crede per fede. All’opposto cioè del processo
comunicativo che si chiama opinione pubblica, che esige invece lealtà e fondatezza.
Prova – Si fanno i
santi per un solo miracolo. Ma un solo esito non basta per comprovare una
teoria o ipotesi scientifica – si fanno i santi per atto di fede: la
probabilità è zero in un solo caso, che può essere fortuito. Il “come te lo
spieghi?” che conclude l’esposizione di un fatto o evento, un tentativo, un
esperimento, uno solo, può avere mille e una risposta, cioè una spiegazione che
opera nel campo vasto del fortuito, senza essere una prova di causa-effetto.
Statistica e probabilità sono temi matematici, che necessitano di un campione
di casi vasto.
Tribù – Una categoria sociopolitica
abbandonata, nella concezione comune del progresso come freccia, una delle più
scadenti se non vecchie, comunque perenta, e invece ben viva. Non solo nello
spirito variamente comunitario che si moltiplica da alcuni decenni, nazionale,
territoriale, confessionale, perfino razzista. Di più nei comportamenti,
raramente inclusivi, per lo più selettivi, in bade ad affinità non elettive ma
di derivazione – legami “ancestrali”.
Oggi, epoca
massimamente scientifica e razionale, lo spirito tribale è sempre forte,
argomenta il fisico premio Nobel Feynman “Il senso delle cose”, proprio per la
credulità che si riterrebbe espunta. Per la credulità scientifica. Feynman lo
argomenta ironicamente, ma non tanto, a proposito della psicoanalisi (v.
sopra).
zeulig@antiit.eu