Cerca nel blog

sabato 25 marzo 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (519)

Giuseppe Leuzzi


Il primo ministro inglese, Rishi Sunak, è figlio di indiani emigrati in East Africa, un paio di generazioni prima di approdare in Inghiterra. Lo stesso la ministra dell’Interno, Suella Braverman – sposata Braverman. La ministra degli Esteri è invece figlia di una donna della Sierra Leone. Questo goevrno ha disposto la deportazione degli immigrati non in regola in Ruanda. L’integrazione è difficile.

 
Scoop del giornale “la Repubblica”, del vice-direttore Abbate, con Antonio Fraschilla: “La Procura antimafia di Firenze scopre le origini mafiose (“70 miliardi di lire cash”) “dell’impero del leader di Forza Italia” Berlusconi. Con molti dettagli, su due pagine. Nelle quali si annegano due righe: “Nulla di nuovo sotto il sole dell’impero di Berlusconi, indagato in passato a Palermo anche per riciclaggio e poi archiviato” – criptiche ma bastanti per evitare querele. Il giorno dopo silenzio, su tutti i media – eccetto “Il Fatto Quotidiano”, ingolosito dalla telefonata registrata tra la moglie di Dell’Utri e la moglie di Verdini. Silenzio anche due giorni dopo. Ma la mafia ha colpito, la mafia è dappertutto. Anche nelle intercettazioni.
 
L’Italia si è alfabetizzata al Sud
“L’Italia l’ha fatta il Nord e l’ha fatta piuttosto male”, è una parentesi-verità nel “romanzo” dell’editoria di Gian Arturo Ferrari, “Storia confidenziale dell’editoria italiana”. In effetti, fino a Crispi, 1887, fu casa del Nord, sabauda, piemontese. E anche dopo i brevi, ancorché infausti, intervalli di Crispi, lo restò, fino alla Grande Guerra – troppi i meridionali morti in trincea.
La cultura invece, nell’editoria e la scuola postunitarie, è soltanto al Sud. Ferrari è meravigliato dal tono e dal livello della corrispondenza Croce-Laterza (siate “editore di roba grave”), e dalle pubblicazioni che ne seguirono. “Gli «Scrittori d’Italia» costruiscono il canone della letteratura italiana; i «Classici della filosofia moderna»… provvedono alla sicura cornice filosofica, fondando l’idealismo italiano; la «Biblioteca di Cultura Moderna», storia e pensiero politico, traduce tutto questo nella posizione liberale. La «roba grave», grazie anche al fatto che prima Croce poi Gentile diventano ministri della Pubblica Istruzione, finisce per pervadere di sé la scuola italiana, per essere l’alimento e la guida dei migliori insegnanti”.
E prima di Croce c’era stato Francesco de Sanctis, da solo aveva costruito una grande cultura.  
“Senza mai nominarla, Croce e Laterza”, Ferrari conclude l’inciso, “hanno scoperto e attuato una, la prima, coerente politica culturale… E sempre senza nominarla (il concetto sarà compiutamente formulato da Antonio Gramsci) sono giunti ad esercitare una profonda e incontrastata egemonia. Quanto meno sulle élite colte, sui primi della classe”.
 
Sudismi\sadismi
Un lettore del quotidiano “la Repubblica”, Augusto Scarrone, di Cuneo, contesta al rubrichista dell posta Merlo l’uso di “figlie femmine”, una “ridondanza”. Indispettito lo contesta il giorno dopo Piero Orrù, corrispondente assiduo del quotidiano, senza fissa dimora: “Augusto Scarrone è di Cuneo (o forse emigrato del Sud) e quindi non sa (o non ricorda) che al Sud si risponde “ho due figlie femmine e un maschio” alla domanda di quanti figli hai. È un modo di rimarcare il patriarcato, sottolineando che le figlie sono femmine, quindi disponibili al matrimonio e alla partorienza, mentre I maschi sono tali punto e basta. Il Sud, del quale faccio parte, a volte è ancora così, ancestrale fuori tempo massimo”. Povero Sud.
Ma dov’è che è ancora ancestrale?
  
La famiglia calabrese è il male
Due ore di grande cinema – per chi ama il noir, un po’ splatter, è “L’ultima notte d’Amore”, di Franco Amore, l’ultimo film di Andrea Di Stefano, il regista di “Escobar e di “..”. Concentra a Milano, in una sola notte, in una sola ora di una notte, passato, presente e futuro di molte esistenze. Un tranquillo poliziotto passa l’ultima ora dell’ultimo giorno in srvizuio, prima della pensione dopo 35 anni di lavoro, mentre la moglie lo attende a casa con un surprise party di addio al lavoro, dando un passaggio dall’aeroporto in città una viaggiatrice cinese che sta a cuore a un vecchio patriarca, anche lui cinese, a cui il poliziotto ha salvato la vita in una circostanza equivoca, un malore in compagnia di due escort. Ma non è una cosa innocente, e in pochi minuti si scatena un inferno.
Marco Lodoli, entusiasta del film, lo è ancora di più di Paola Caridi, l’attrice che impersona la “moglie calabrese” del poliziotto – alla quale ha già assegnato un Oscar. Ed è vero: ha un ruolo marginale nell’economia del film, ma capitale, lega il soggetto (il racconto) e anche la sceneggiatura e il montaggio, semplice e risolutrice – notevole già nella cadenza calabrese dell’eloquio, quasi fosse naturale per un’attrice milanese.
Nel ruolo di Viviana-Caridi il regista, che è anche soggettista e sceneggiatore del film, smonta il cliché della “donna del Sud”, succube del padre-marito: Viviana è una donna e madre che fa tutto per il marito, ma determinata, e sempre lucida. La trama, però, fa reggere per un altro cliché: la famiglia, la parentela. Nela fattispecie un cugino.
Ci vuole uno stereotipo molto forte per ritenere credibile l’aggancio. Il ritmo del film forse non consente di accorgersene, ma muove la tragedia un cugino della moglie, più sciocco che cattivo. L’onesto Amore fa perfino da autista al cugino nei suoi traffici, di orologi rubati con i mafiosi nigeriani, di prostituzione con i cinesi.
 
La scomparsa del Sud
La Nazionale gioca a Napoli con due soli calciatori meridionali fra i 25 convocati, Donnarumma e Berardi – entrambi “cresciuti” come atleti al Nord, Donnarumma a 14 anni nel Milan, Berardi nella Juventus. In un anno in cui fra le prime cinque del campionato tre sono squadre di Centro-Sud, Napoli, Lazio e Roma.
Col Napoli stravincitore. Ma con due soli calciatori italiani nella formazione tipo, e tre nei venticinque della rosa – nessuno napoletano, o altrimenti meridionale.
Ci sono in Nazionale più sudamericani che meridionali.
 
Domenica di passione per il calcio, Sky Calcio e Domenica Sportiva discutono tutta la notte se un calciatore della Juventus non ha toccato il pallone col braccio nella partita persa dall’Inter a Milano. Il retso del mondo non esiste: il bellissimo Napoli della stessa giornata a Torino, la Lazio e la Roma ai primi posti. Tre squadre meridionali a capo del campionato non fanno notizia, anzi non sono tollerate: conta solo l’Inter, in seconda battuta il Milan, in terza la Juventus – Sky Calcio e Domenica Sportiva si fanno a Milano, chissà perché.
 
Una miniera professionale, a costo zero
“Negli ultimi venti anni”, calcola l’economista Gaetano Vecchione sul “Sole 24 Ore”, “circa 1,2 milioni di giovani ha lasciato il Sud, verso l’estero e verso il Nord, 1 su 4 laureato. Nel solo 2020 sono stati 67 mila, e la quota di laureati è salita al 40 per cento”.  È giusto, è un’emigrazione non di necessità. Ma è un depauperamento: il Sud spende per competenze di cui poi non fruisce, e anzi, così spendendo, si depaupera. Nello steso giornale Emilio Bruno e Claudio Tucci spiegano, analizzando i dati Istat, che l’emigrazione intellettuale (professionale, dei cervelli) è comune a tutta l’Italia, ma finisce per “acuire” il divario Nord-Sud. Nord e Centro perdono neo-laureati, ma ne acquistano anche, il Sud li perde, con destinazione Centro-Nord e estero. “Negli ultimi dieci anni il gap complessivo di laureati del Nord a favore dell’estero (laureati emigrati meno laureati immigrati, n.d.r.) ammonta a circa 39mila unità, quella del Centro è di circa 13mila, mentre quella del Sud è di circa 28mila unità. Grazie però ai movimenti migratori provenienti dal Mezzogiorno la situazione cambia profondamente. Il Nord guadagna oltre 116mila giovani provenienti dal Sud e dalle Isole, il Centro quasi 13mila…. Il beneficio complessivo per le regioni settentrionali è pari a circa 77mila unità. Il Centro recupera, e limita la perdita a circa 265 unità”. Il Mezzogiorno “ha una perdita complessiva di poco meno di 157mila giovani residenti”, per uscite verso l’estero e verso il Centro e il Nord. “Come a dire”, è il commento, “che i talenti del Sud finicono per costituire un bacino di capitale umano per le aree maggiormente produttive del Nord e del Centro del paese, oltre che per i Paesi stranieri”. Una miniera sfruttabile a volontà, piuttosto preziosa, a nessun costo.
 
Luogo di confino
Un errore di stampa o di ortografia, Bagnata per Bagnara, nelle memorie di Tina Pizzardo, la donna di cui Pavese fu innamorato (più delle tante altre? non si sa), “Senza pensarci due volte”, dove racconta dei tre anni di confino del suo grande amico Bruno Maffi, che sarà famoso traduttore dall’inglese, e politico di primo piano del partito Comunista nel dopoguerra, fa riemergere un fatto del tutto trascurato: il Sud fu luogo di confino politico per milanesi e torinesi negli anni di Mussolini. Non solo Eboli, ma Brancaleone, Bagnara, Pizzoli, Pisticci, e le isole minori, da Roma in giù, Ventotene, Ponza, Tremiti, Lipari, Ustica, Lampedusa. E che il Sud non è stato per questo “scoperto”, non si è stabilito nessun nesso, nelle corrispondenze, nei diari, nelle memorie, tra confinati e località di confino - che  quasi ovunque non ne hanno memoria. Con l’eccezione di Carlo Levi naturalmente, “Cristo sì è fermato a Eboli”, e di Pavese, nelle annotazioni del diario (“Il mestiere di vivere”), sparse fra i tantissimi interessi dello scrittore, nella corrispondenza con i familiari (la sola ammessa, nel suo caso, con la sorella), e nel romanzo “Il carcere” che in un primo momento decise di non pubblicare (nonché, in filigrana, nei “Dialoghi con Leucò”, ma questo è un altro discorso). Sfondo umano, garbato, pietoso anche, ma atono, apolitico. Luogo d’esilio tipico, estraneo.
Viceversa, nei primi venti anni della Repubblica, il Nord ha servito come luogo di confino di polizia dei meridionali criminali, o supposti tali. Come se la deportazione in luoghi operosi, pacifici, civili, servisse da ricostituente per criminali tanto abili da non potersi condannare, carcerare. Anche nella gestione di polizia, il fascismo e l’anticrimine, la divisione è netta. Il Sud si caratterizza come luogo remoto, con comunicazioni difficoltose, e poco politico, alfabetizzato.
Di Maffi Bagnara sa incidentalmente dal Mia (Marxist Internet Archive), Sezione Italiana, Enciclopedia Marxista, anche se il confino ne segnò un radicale cambiamento politico. Esule ventenne in Francia, aveva preso contatti con Giustizia e Libertà, con Carlo Rosselli, Faravelli, Morandi. Arrestato nell’aprile del 1930, nell’ambito dell’“affare Moulin” (una spia secondo il Mia, un “poco prudente professore belga, Léo Moulin, sceso in Italia per sostenere la rivoluzione antifascista propugnata da Giustizia e Libertà” secondo wikipedia), era stato condannato a due anni di carcere, da scontare a Viterbo. Dove era entrato in contatto con Altiero Spinelli e Velio Spano, suoi coetanei, del partito Comunista. Liberato dopo un anno e mezzo, si era avvicinato al socialismo, tramite Morandi, animando circoli socialisti a Milano e Torino. Finendo arrestato di nuovo nel 1935 nella retata di Giustizia e Libertà a Torino, dice il Mia, “e spedito al confino per tre anni a Bagnara Calabra, dove comincia a indirizzarsi verso la Sinistra comunista”.
Se la memoria storica latita, le impressioni dell’epoca furono però positive, nel senso che i confinati venivano accolti col garbo che si riserva ai forestieri. Non solo Carlo Levi. Di Natalia Ginzburg a Pizzoli si sa dal racconto “Inverno in Abruzzo”. Di Pavese a Brancaleone si sa per il romanzo che ne scrisse e dalla corrispondenza. Di Maffi a Bagnara, che non risulta averne scritto, la sua grande amica Tina Pizzardo, compagna anche di sciate glamour in valle d’Aosta, che la memoria documenta con una serie di foto, ricorda: “Dal confino a Bagnata (sic!), Bruno ci fa sapere di avere finalmente trovato «un buon posto»” – Bruno Maffi era di suo molto socievole, si sa dall’intensa e movimentata attività poi di agitatore politico di ogni bordo, più spesso nel Pci. Questi i tre anni nella sintesi dell’amica Tina: “Basta presentarsi due volte al giorno a un cortese signore con baffi, detto il commissario, per ricevere a fine settimana lire trentacinque (o erano settanta, non ricordo) che per vivere in quei luoghi bastano e avanzano. Quando, per non so quale condono, gli leveranno il confino e, rimpianto da tutta la popolazione accorsa a salutare don Bruno che li lascia per sempre, dovrà tornare a Milano, scriverà: «Era un così buon posto, troppo buono per durare, come ne vorrei un altro eguale…»”. Tutta la popolazione è un’esagerazione, ma il rimpianto è vero.

Se la memoria storica latita, le impressioni dell’epoca furono però positive, nel senso che i confinati venivano accolti col garbo che si riserva ai forestieri. Non solo Carlo Levi. Di Natalia Ginzburg a Pizzoli si sa dal racconto “Inverno in Abruzzo”. Di Pavese a Brancaleone si sa per il romanzo che ne scrisse e dalla corrispondenza. Di Maffi a Bagnara, che non risulta averne scritto, la sua grande amica Tina Pizzardo, compagna anche di sciate glamour in valle d’Aosta, che la memoria documenta con una serie di foto, ricorda: “Dal confino a Bagnata (sic!), Bruno ci fa sapere di avere finalmente trovato «un buon posto»” – Bruno Maffi era di suo molto socievole, si sa dall’intensa e movimentata attività poi di agitatore politico di ogni bordo, più spesso nel Pci. Questi i tre anni nella sintesi dell’amica Tina: “Basta presentarsi due volte al giorno a un cortese signore con baffi, detto il commissario, per ricevere a fine settimana lire trentacinque (o erano settanta, non ricordo) che per vivere in quei luoghi bastano e avanzano. Quando, per non so quale condono, gli leveranno il confino e, rimpianto da tutta la popolazione accorsa a salutare don Bruno che li lascia per sempre, dovrà tornare a Milano, scriverà: «Era un così buon posto, troppo buono per durare, come ne vorrei un altro eguale…»”. Tutta la popolazione è un’esagerazione, ma il rimpianto è vero.
leuzzi@antiit.eu

La fortuna arride all’editore che legge

“Chi ci dice cosa dovremo leggere, se potremo ancora leggere?” A dieci anni dai “Ferri del mestiere”, dell’editoria come mestiere e non come industria, Sandro Ferri, titolare di e/o con la moglie Sandra, riconferma l’attrezzeria. Che poi è una sola – quella fondamentale, poi contano, certo, il titolo, la copertina, la promzione, etc.: una buona capacità di lettura, il “fiuto”. La volontà di leggere, e la capacità di “sentire” la lettura. Forte anche dei successi inanellati nell’intervallo: ancora Elena Ferrante, con Muriel Barbery, “L’eleganza del riccio”, e – qui ancora non raccontata – Valérie Perrin, “Cambiare l’acqua ai fiori”.
Un altro romanzo dell’editoria, altrettanto brillante ma più svelto, e antitetico a quello di Gian Arturo Ferrari, “Storia confidenziale dell’editoria italiana”. Ferri non è un manager, lavora in proprio. Lavora, ha lavorato i prime venti, trent’anni, sempre con l’acqua alla gola: i libri non bastano, i buoni libri, ci vogliono i soldi. I soldi in Italia non si sono, sono solo delle banche, e le banche non ci sentono, non amano i libri, troppa incertezza – “forse ho letto più manoscritti nelle sale d’attesa degli istituti bancari che in qualsiasi altro luogo”.
L’editore della “fabrica dei bestseller” racconta pianamente l’altra faccia dell’editoria, quella ancora artigianale, di editori che leggono i libri e li pubblicano in base al loro giudiziio, in questo caso dello stesso Ferri con la moglie Sandra, titolari della casa editrice. In rapporto personale con l’autore. A tratti si ha l’impressione di leggere un epicedio, un elogio funebre. La funzione nobile – e nel lungo termine anche traino economico, oltre che letterario – dell’editoria lo stesso Ferri lamenta stritolata fra marketing e anticipi – la pratica degli agenti letterari, che ora spuntano cme funghi, di puntare al “tutti maledetti e subito”, ad anticipi insostenibili per il piccolo editore. Ma il caso della copia Ferri-Ozzola non dice che si può pure sopravvivere, allegramente?
Sandro Ferri,
L’editore presuntuoso, e/o, pp. 253 € 10

venerdì 24 marzo 2023

Deutsche Bank e i due pesi Bce

Tanto tuonò che piovve, là dove i parafulmini in teoria erano i più solidi. Nel caso delle banche, in Germania. La Bundesbank, che impone le politiche iperrestrittive della Banca centrale europea, non ha mai messo ordine nelle sue banche: quelle statali, salvate quindici anni fa anche con i soldi italiani, a suo tempo di Unicredit, ma anche le banche nazionali, Commerzbank, malato cronico da almeno trent’anni (quando volevano rifilarla a Generali), e da qualche anno Deutsche.
Il crollo in Borsa di Deutsche Bank non si saprebbe attribuire a una manovra speculativa. È da anni che la massima banca tedesca è in sofferenza, per problemi di gestione, e per troppe pratiche speculative (tra esse la mai ricordata liquidazione dei titoli di Stato italiani, fatta trapelare al mercato – al “Financial Times” - a luglio del 2011, insieme con valutazioni abusive del proprio ufficio studi, che scatenò il quasi-default dell’Italia). Senza che la vigilanza Bce evidentemente sia mai intervenuta, non in modi efficaci – mentre faceva le bucce a Unicredit ancora a dicembre. Deutsche Bank, la quarta o quinta più grande banca europea per attivi, capitalizza appena 18 miliardi, un crollo di mesi e anni non di un giorno - Intesa  42 miliardi, dopo essere arrivata prima della “minicrisi” bancaria a 49, Unicredit 32, dopo essere arrivata a 40.
Non ci sono problemi per le banche europee? Sì, ci sono, e vengono da Francoforte, dove la Bce legifera. In America i problemi sono di assetti normativi, nella Ue di assetti politici.

Verde in mimetica

Perdono consensi i Verdi in Germania, nei sondaggi nazionali e nelle elezioni locali, che due anni fa si candidavano a primo partito, ora che sono al governo. Ma non per la partecipazione al governo socialdemocratico, con la destra Liberale, di Olaf Scholz, a stare ai sondaggi. Perché non apprezzano il bellicismo della loro leader, Annalena Baerbock, in qualità di ministro degli Esteri del governo Scholz: le cronache della guerra vedono Baerbock molto militante per l’Ucraina, e quasi pronta alla guerra contro la Russia.
Il calo dei Verdi può più probabilmente essere l’effetto dell’atteggiamento moderato e pragmatico dell’elettorato tedesco, che si pone il problema di cambiare, di ventilare la politica, ma non troppo. I Verdi erano i primi nei sondaggi alle elezioni federali di settembre 2021, presero a straparlare, e al voto sono arrivati terzi.
Il cancelliere Scholz, che per statuto ha anche poteri di intervento nella gestione ministeriale (il cancelliere è una posizione molto più solida del presidente del consiglio) e ha una struttura di affari esteri, l’ha molto rafforzata in questo anno e mezzo. Tradizionalmente, anzi, è sempre stato il cancelliere ad avere la parola definitiva in politica estera, con Bismarck ma anche prima e anche dopo - Adenauer, Brandt, Schmidt, Kohl, la lista sarebbe lunga.
Baerbock aveva debuttato con un programma di “politica estera femminista” – “promuovendo le donne nel ministero, parlando delle donne, incontrandole e ascoltandole” (a questo fine ha pure avviato subito una riforma del ministero, di cui poi non si è saputo nulla). Ma anche di “politica estera basata sui valori”, e quindi poco propensa alla diplomazia, al calcolo.

L’uranio non fa male, basta non respirarlo

I proiettili a uranio impoverito non fanno male. Il generale Tricarico, ex capo dell’Aeronautica, lo assicura su formiche.net. Le polveri che rilasciano dopo l’esplosione “si disperdono nell’ambiente e quindi sono potenzialmente dannosi quando urtano una superficie dura quali una corazzatura metallica o simili. Se invece penetrano nel terreno o impattano superfici più tenere, non producono significative contaminazioni”. Gli umani quindi ne vanno esenti, che sono teneri. 
Sembra di leggere “Candido” – l’MI6 britannico, l’agenzia di spionaggio, ama ispirarsi ai classici.
Non è tutto. “Con l’impatto su superfici dure si liberano microparticelle e non nanoparticelle”, argomenta il generale: “La questione è”, manzonianamente, “dirimente in quanto solo queste ultime, le nanoparticelle, hanno dimensioni tali da penetrare nelle cellule umane e quindi, in spazi aperti, l’effetto delle polveri è irrilevante se non viene inalato per vie aree”. Basta non respirare.

Bisognerebbe mandare anche i generali alle bonifiche post-bombardamenti, aerei, di artiglieria o anche di fanteria? Il rischio è che poi non ce la raccontino, non così faceta. 

Tragedia a Milano, tra mafie d'importazione

Un poliziotto va in pensione, dopo 35 anni di onorato servizio, eccetera eccetera, e una festicciola a sorpresa gli è stata preparata dalla moglie intraprendente, ma sarà una notte dell’ultimo giorno di delitti e pene, molti delitti e molte pene. Tutto per avere sempre considerato di famiglia un cugino della moglie, che per non lavorare fa di tutto, truffe, prostituzione, contrabbando, con le mafie nigeriane, e con quelle cinesi.  
Giallo, noir, splatter, azione, film d’autore, di varie raffinatezze, e filmaccio di serie B, di poche scene, di ambienti circoscritti. Per due ore di assoluta tensione. A partire dal preliminare sorvolo di Milano in notturna, una città quasi viva, quasi calda, illuminata, per alcuni minuti – una panoramica che resterà nella storia della città. Scandite poi da un vernacolare calabro-lucano, più adatto a una storia di vincoli parentali sempre pronubi di sventure, intervallato da po’ di cinese.
Di Stefano, regista romano ma di formazione anglo-americana, soggettista e sceneggiatore dei film che dirige, esperto di suspense in ogni sua forma (“Escobar”, “The Informer” sono i suoi precedenti titoli – da regista, è anche attore molto gettonato, in una ventina di film, una decina di serie tv), si rifà, anche nell’inverosimiglianza, a Quentin TarantinoQq, ormai saldo presidiatore della miscela di generi all’insegna della violenza.
L’inverosimiglianza della trama è retta, più che da Favino-Amore, che recita se stesso, da Paola Caridi, attrice milanese (sì, ma prima?), allieva del “Paolo Grassi”, che tiene su una moglie-madre calabrese che non la cede a niente e a nessuno. Una ben diversa “donna del Sud”, più rispondente al reale. Doppiata dal cugino delinquente, altrettanto incomprimibile ma dalla parte sbagliata della vita, dell’arricchirsi a danno degli altri – un Antonio Gerardi gonfiato come un pallone. Con la curiosa adozione, da parte di Di Stefano, di una sorta di canone nel filmare scene di famiglie calabresi, con obiettivo stretto e strettissimo, quasi addosso ai visi, e con personaggi femminili, giovani e meno giovani, veloci e ultimativi: quello di Jonas Carpignano, lo specialista newyorchese quasi antropologo della Piana di Gioia Tauro, dove ha piantato la cinepresa, regista di “Mediterranea”, “A ciambra “ e “A Chiara” - ma già nel cortometraggio di dodici anni fa “A Chjana”, la Piana appunto del suo territorio.   
Andrea di Stefano,
L’ultima notte d’Amore

giovedì 23 marzo 2023

Cronache dell’altro mondo – complottistiche (256)

In attesa che il Gran Giurì si pronunci sull’incriminazione-con-arresto di Trump richiesta dal Procuratore Distrettuale di New York Alvin Bragg, i Repubblicani, in maggioranza alla Camera dei Rappresentanti del Congresso Usa, hanno mobilitato tutte le Commissioni che operano in materia di giustizia per indagare se la spesa federale è utilizzata a fini politici, per “attentato alla democrazia”, nel caso del Procuratore di New York Alvin Bragg, che vuole incriminare Trump per avere pagato la pornostar Stormy Daniels.
Il senatore repubblicano Rand Paul chiede il carcere per il Procuratore Bragg, “uomo legato a Soros”, il famoso speculatore: “Incriminare Trump è un disgustoso abuso di potere”.
La difesa di Trump è assicurata nella fattispecie dall’avvocato italo-americano Joseph Tacopina, un avvocato di New York più noto come titolare di una società di promozione sportiva a Madison Avenue, e per essere stato al vertice di molte società di calcio italiane, Roma, Bologna, Venezia, oggi Spal.
Il caso della pornostar è stato materia di molte indagini giudiziarie, anche di giudici democratici, come Cy Vance e lo stesso Bragg, che non hanno trovato notizia di reato - neanche di “pratica scorretta”, secondo Tacopina.
Se c’è complotto, se è Soros all’origine del procedimento contro Trump, tanto più curiosa è la prima definizione dell’affare Stormy Daniels cinque anni fa, sulla pornostar che accusava Trump di violenza carnale: il caso fu sollevato e alimentato dal “Wall Street Journal”, di proprietà di Rupert Murdoch, sostenitore strenuo di Trump:
http://www.antiit.com/2018/01/ombre-401.html

Ecobusiness

“Nel vecchio West in Bmw, al volante della gigantesca e potente XM ibrida da 653 cavalli con trazione integrale. Una vettura che, se si resta sotto il 140 km/h, garantisce un’autonomia in elettrico fino a 80 chilometri”. Perbacco, Roma-Ostia e ritorno, una gita. Al prezzo “a partire da 181.500 euro”.
Anche gli ingombri non sono male: tre tonnellate di peso, 511 centimetri di lunghezza, per 201 di larghezza e 176 di altezza. Un monumento ambulante, per quattro posti.
 
Si fanno piani di razionamento dell’acqua, mentre si aumentano le tariffe per contenere i consumi. Intesi come sprechi. Ma non si fa nulla per ridurre le perdite dell’acqua dalle sorgenti al rubinetto. Ufficialmente del 40 per cento, in molte aree del 50 per cento, p. es. in Puglia, e più.
 
Si scopre, con la nomina dell’ex ministro all’Innovazione e all’Energia Cingolani nel consiglio d’amministrazione, l’esistenza di un Nato Innovation Fund, dotato di un miliardi di euro, per lo sviluppo di nuove tecnologie militari eco-friendly – per una guerra “verde”?

La libertà americana è dei servizi segreti

Una spy story da camera, in due o tre ambienti, una stanza, un’automobile. Senza in effetti ambienti, solo il buio, l’obbiettivo fissato sulle facce.
Un thriller di serie B o C, una furbata, una sorta di recita teatrale firmata, con un nome di richiamo, Mel Gibson – un’altra faccia, per lo più immobile. Ma un film curioso, della mania americana del complotto. Della libertà o democrazia come complotto.
A Hollywood è un filone, tanti i film in cui le forze del bene sono i servizi segreti. Spietati, qui anche crudeli, e doppiogiochisti – in cui Bene e Tradimento si intrecciano. Si direbbe che l’America si protegge mettendo le mani avanti, mettendo in conto che la sua Bontà (Giustizia, Libertà, Generosità) possa essere tradita dagli stessi americani. Una forma suprema d’innocentarsi, in particolare con i servizi segreti, che – quelli americani perlomeno, Cia e Nsa – non hanno mai fatto del bene a nessuno. Nemmeno all’America, si direbbe, che ha perso in pochi anni quattro guerre di seguito, Afghanistan, Iraq, Libia e Siria, non per mancanza di armamento ma per non sapere nemmeno cosa andava a combattere né dove. Ma - questa la curiosità - con esclusione totale del Resto del mondo, prima e anche dopo le quattro guerre perdute, per il quale la buona America si batterebbe.
Qui la didascalia ci informa che la camera di tortura è in “un paese dell’Est Europa”, che la consente agli americani, così ci viene detto  – in Belgio no, “non abbiamo licenza legale” si dice di un rapimento di persona a Anversa. Una prefigurazione sinistra – il film è stato girato quindici mesi fa – della guerra, con gli usi e le pratiche che hanno portato alla guerra.   
Dermot Mulroney,
Agent Game, Sky Cinema

mercoledì 22 marzo 2023

L’Occidente è trilaterale

La Commissione Trilaterale celebra mezzo secolo di vita, puntando a includere la Cina.Una costola del Gruppo Bilderberg, è stata è stata costituita nel 1973, da David Rockefeller con Zbigniew Brzezinski, che ne fu il primo direttore, per allargare l’intesa atlantica al Giappone. Si nomina Gruppo Bildeberg il parlamentino di 130 personalità occidentali che ogni anno si riuniscono informalmente per discutere lo stato del mondo (Bildeberg è il nome dell’albergo dove la prima riunione fu tenuta nel 1954, su iniziativa dello stesso Rockefeller, il banchiere e politico statunitense – repubblicano liberal – erede della fortuna petrolifera Esso-Exxon, per cementare l’alleanza atlantica).
Dopo cinquant’anni i pesi si sono equilibrati, se non rovesciati - l’Asia prende un peso vieppiù maggiore. Nove personalità cinesi fanno parte della Trilateral. Ma questo non basta: molte voci, specie in Giappone, tra i membri della Commissione, chiedono più peso, pur riconoscendo che il comitato è uno dei pochi forum in cui Asia e Occidente (leggasi Stati Uniti e Europa) sono su un piede di parità. In particolare contestano da qualche tempo, prima della guerra in Ucraina e dopo, la politica di confrontation avviata da Washington con la Cina. Che la globalizzazione sia stata – o vada – spiantata dalla polarizzazione sarebbe “narrazione occidentale”, una forma surrettizia di politica aggressiva.
Tra i membri della Commissione oggi si segnalano, per la parte americana, il segretario di Stato Antony Blinken, e Jake Sullivan, National Security Adviser. La prassi è che i membri della Commissione che assumono incarichi pubblichi si astengono dai dibattiti.

Il romanzo di Mosè, autore Freud

Il primo esito delle sue riflessioni sulla Bibbia Freud elaborò in un primo tempo, nel 1934, come “romanzo storico”. Si sa che di Mosé si sa poco o niente, delle sue origini, la formazione, la vita, giusto il minimo particolare che fu salvato dalle acque – l’elemento su cui compirà poi il suo grande miracolo. Da qui la tesi, poi di Freud, che fosse un “generale” egiziano, a cominciare dal nome, che non è ebraico. Ma nel 1934, non ancora in esilio, ma già sotto la dittatura di Hitler, Freud non se la sentiva di ribaltare uno dei nodi principali della Bibbia, e per questo adottò la forma romanzo. Che non pubblicò.
Le stesse riflessioni che aveva elaborato in forma di romanzo poi rielaborerà criticamente, tra il 1934 e il 1938, pubblicando l’esito nel 1939, a Amsterdam, sotto il titolo “L’uomo Mosé e la religione monoteistica”, in forma di “tre studi”. Anche se manteneva, rafforzati, gli stessi scrupoli che l’avevano dissuaso dalla pubblicazione cinque anni prima – apriva il volume con una excusatio: “Spiegare a un popolo che non rientra nella sua identità uno che essso celebra come il più grande di tutti i suoi figli non è qualcosa che s’intraprende di buon cuore o alla leggera, a fortiori quando si è se stessi parte del popolo in questione”. Erano anche gli anni in cui Mosé assurgeva a nuovo ruolo nell’ebraismo, nell’ambito del sionismo che da lì a poco sfocerà nella creazione di Israele, come simbolo e guida.
Mosé, Freud confidava a Lou Andreas Salomé, lo aveva “perseguitato tutta la vita”. Decidendo nel 1934 di non pubblicarne il “romanzo”, Freud spiega a Max Eitingon, lo psicoanalista russo-tedesco emigrato l’anno prima in Palestina: “Una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano, due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo”. Introducendo il Mosé “romanzo storico” cinque anni prima, Freud si pone invece il problema della verità. A partire dalla formula “romanzo storico”: “Per me inventare e romanzare sono facilmente legati all’errore”.
Il suo romanzo storico di Mosé parte dal metodo scientifico: “Trattare ogni possibilità offerta dai dati come una base di lavoro, colmando poi le lacune tra un frammento e l’altro secondo il principio, per così dire, della minore resistenza, cioè favorendo le ipotesi che ci sembrano più probabili”. Una storia ipotetica, insomma. L’esito è quello noto, dei tre studi, un po’ meno conciso – ma più leggibile, seppure non convincente.
Sotto forma di “romanzo” scientifico, di ipotesi fantasiosa ma a fini di credibilità e non a sensazione, Mosè era già un classico negli anni di Freud. Dal 1790, quando Schiller pubblicava sulla rivista “Thalia” “La missione di Mosè” – Schiller è stato storico valente, prima che drammaturgo. C’era la rivoluzione francese, ma Schiller si impegnava a rielaborare, in parte confutandola, la prolusione un anno prima a Jena dell’illuminista framassone Carl Leonhard Reinhold. Con un testo fitto, di una quindicina di pagine, come la prolusione. Nell’ambito di un Antisemitismusdiskurs, un dibattito sull’antisemitismo. Schiller fa nascere la parola “ebrei” con la fuga dall’Egitto, un nome spregiativo dato ai riottosi israeliti dal faraone, che li aveva confinati in aree separate. Ma non fa di Mosè un egiziano, bensì il figlio di un’ebrea fatto crescere con un trucco dalla figlia del faraone, e quindi a scuola dai preti, dai quali apprende i Misteri di Iside. È per questo un capo opportuno ma anomalo per gli ebrei.
Il “romanzo” è più teorico che storico: Mosé non sfugge al complesso di Edipo, al complesso della liberazione – un padre padrone per gli ebrei. La salvezza degli ebrei viene dal riconoscimento della colpa per avere misconosciuto il padre Mosé. Una “colpa” che grava sugli ebrei, ma ne è anche la forza. Poiché ne precisa e salvaguarda l’identità. È la conclusione del romanzo: “La nostra indagine ha forse fatto un po’ di luce su come il popolo ebraico abbia acquisito le qualità che lo contraddistinguono”.
Vale la pena ricordare qui la perplessità che Voltaire faceva valere nel breve scritto “Auteurs”, 1770 ca, rifacendosi alla “Histoire de la philosophie” del “buon abate Bazin”, che “mai nessun autore ha citato un passaggio di Mosè prima di Longino, che visse e morì al tempo dell’imperatore Aureliano”. Il nome era noto, Giuseppe ne parla più volte, ma nessuno cita un detto o uno scritto, nessuno dei profeti autori dei libri biblici - “benché egli sia un autore divino”, aggiungeva Voltaire.  
Con una prefazione di Giovanni Filoramo, lo storico delle religoni, che fatesto a sé, per ampiezza e impianto. E il commento di Thomas Gindele alla primapubblicazione dell’inedito, emerso alla Biblioteca del Congresso di Washington, che conserva i cartoni con i manoscritti che Freud non ha distrutto.
La prima pubblicazione è stata fatta in francese, Chiara Calcagno traduce dal francese la nota al testo di Gindele, germanista francese, che ha curato la prima pubblicazione. Johanna Venneman traduce il romanzo dall’originale, un manoscritto in corsivo tedesco, una scrittura praticata fino alla guerra, che Freud usa in modo molto pulito, anche nelle cancellature, ma è di per sé una selva di ghirigori.
Sigmund Freud, L’uomo Mosè. Un romanzo storico, Castelvecchi, p. 384 € 25

martedì 21 marzo 2023

Letture - 514

letterautore


Aristofane
– Precorre i cartoon, Walt Disney. È riferimento di Vincenzo Zingaro, il regista e capocomico teatrale che ha dato una lettura ormai classica delle “Nuvole”, la satira di Socrate, del sapere di non sapere: “Ci sono molte affinità fra il mondo scenico di Aristofane e quello di Walt Disney, così presenta la sua riduzione di “Le nuvole” - che su palcoscenico fa accompagnare da musiche di stampo disneyano, con maschere fisse, come i personaggi dei cartoni animati.
 
Calvino
– Cristiano malgrado se stesso lo vuole il cardinale Ravasi, “La Bibbia vista da Calvino”, sul supplemento “Domenica” del “Sole 24 Ore”. E non alla Croce – “non possiamo non dirci cristiani” – o per l’humus culturale. Figlio di miscredenti, non battezzato, all’asilo - al rientro in Italia da Cuba - a Sanremo in una scuoletta inglese, il St. George College, alle elementari in una scuola valdese, e al liceo Cassini (con Scalfari) con l’esonero dall’ora di religione. Il tardo racconto “Giornata di uno scrutatore”, 1963, scrive però, nota il cardinale, “in territorio evangelico”. Scrutatore elettorale al Cottolengo, il comunista Ormea, dapprima irritato, alla fine della giornata si dice: “L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.  È il vangelo, dice Ravasi, l’“Ama il prossimo come te stesso”, è il “Discorso della Montagna”, “aperto da Cristo con la sequenza delle Beatitudini, la prima delle quali suona: «Beati i poveri di spirito perché di essi è il regno dei cieli»”. Ormea, che è anagramma di amore.
Calvino di suo ha spiegato di non avere sofferto di isolamento per le decisioni dei genitori, anzi di averne tratto beneficio: l’isolamento rafforza (può rafforzare), e spinge ad avere rispetto per le opinioni altrui, ha spiegato, alla tolleranza. Anche nei confronti dei religiosi: “Nello stesso tempo sono rimasto completamente privo di quel gusto dell’anticlericalismo così frequente in chi è cresciuto in mezzo ai preti” (cronologia di Mario Barenghi e Bruno Falcetto nei “Meridiani”).
 
Dante
– Era all’Indice (dei Libri Proibiti), per una condanna del trattato sula monarchia. E c’è rimasto fino quasi alla fine dell’Indice. L’Index Librorum Prohibitorum di Paolo IV è stato abolito nel 1966. L’anno prima il papa Paolo VI, a chiusura del Concilio Vaticano II, posò nel Battistero di Firenze una corona aurea su una copia della “Commedia” – la corona cui Dante aspira  nel poema. Con una motivazione a metà ironica: come gesto riparatore, benché Dante si sia attribuito il ruolo del Padreterno, quello di giudicare.
 
Si celebra il Dantedì, quest’anno per il terzo anno, istituto dal governo su proposta di Di Stefano sul “Corriere della sera”, con l’Accademia della Crusca e Luca Serianni, come primo giorno del viaggio della “Divina Commedia”, il 21 marzo, con la primavera, e con la Giornata Internazionale della Poesia, istituita dall’Unesco.
 
“Il viaggio di Dante nel Triregno inizia nel tempo umano attorno alle 6 di mattina del I giorno ed esce dal tempo umano alle 6 di sera (le nostre 18) del VII giorno, quando entra nella dimensione unificante, fuori dello spazio e del tempo, dell’Empireo”. Gioachino Chiarini, il classicista della Fondazione Lorenzo Valla, specialista di Ovidio e sant’Agostino, ricostituisce l’“orologio” del poema in un diffuso saggio su “Robinson”- “Scusi, Dante, che ora è all’inferno?”. Sul presupposto che “un poema di cento canti e oltre quattordicimila versi (meno dell’ ‘Iliade’, ma più dell’‘Odissea’ e ben più dell’‘Eneide’) difficilmente poteva aspirare a un armonico equilibrio tra forma e contenuto senza una preventiva, minuziosa, scrupolosa progettazione”.
La progettazione lo studioso dice confermata dalle ricerche di Manfred Hardt, il filologo di Duisburg autore de “I numeri nella Divina Commedia”, che ha rilevato “un legame numerico significativo tra alcuni tempi della ‘Commedia? (ad esempio Cristo in rapporto alla Croce), il numero di un determinato canto, il numero di determinati versi al suo interno”. Una complessità che necessita di un piano, una progettazione.
 
Elzeviro
– In uso nei quotidiani fino agli anni 1980, era il perno dei servizi culturali (“terza pagina”). Una colonna e mezza di “piombo” – quattro-cinque cartelle da trenta righe. Di divagazioni per lo più, evocazioni, aneddoti. Una forma partica di dare spessore culturale ai giornali, e insieme un reddito agli scrittori. Lo praticavano da ultimo Sciascia, Parise, Arbasino (in varie misure, anche la letterina). Un forma che ha cominciato a declinare già negli anni 1970, man mano che gli scrittori, a partire da Pasolini e subito poi da Calvino, sono passati a commentatori da prima pagina, combattivi, sull’attualità, anche politica oltre che sociale o culturale.
 
Guerra
– Invoglia alla lettura? “Nei primi anni di guerra, contro ogni attesa, il consumo di libri cresce”, della seconda guerra – G. A. Ferrari, “Storia confidenziale dell’editoria italiana”.
 
Ortonimia
– No ad asterischi e schwa, no all’articolo davanti al nome (la Meloni, la Schlein), no alle (re)duplicazioni retoriche, “i cittadini e le cittadine”, anzi “le cittadine e i cittadini”, e nomi di professione declinati al femminile - magistrata, avvocata, questora, e naturalmente professoressa, dottoressa. L’Accademia della Crusca, l’organo istituzionale conservatore per definizione (guardiano della purezza della lingua) risponde semplice alla Cassazione, l’organo del ghiommero burocratico. Che si vuole sempre al passo coi tempi, anzi un po’ più in là – la lingua non è della giustizia?


Pavese – Un bell’uomo appare per la prima volta a un contatto diretto, in barca sul Po, a Tina Pizzardo, la donna dalla vece “rauca e dolce” di Pavese – che si Pavese rifiuterà la proposta reiterata di matrimonio (“Senza pensarci due volte): “Alto, corpo d’adolescente annerito dal sole, mutandine da bagno e cappellaccio di feltro calcato fino agli occhiali. (C’era solo lui sul Po a portare il cappello con le mutandine da bagno, lui e i sabbiadori)”.

È poi “un uomo forte, deciso, sicuro di sé” e “un poeta”. Ma è anche “uno spregiatore delle donne”. E ancora, di nuovo: “Cesarino: a quei tempi era un bel ragazzo alto, snello, un gran ciuffo sulla fronte bassa, il viso liscio, fresco, di un leggero color bruno soffuso di rosa, i denti perfetti”. 
È poi “un uomo forte, deciso, sicuro di sé” e “un poeta”. Ma è anche “uno spregiatore delle donne”. E ancora, di nuovo: “Cesarino: a quei tempi era un bel ragazzo alto, snello, un gran ciuffo sulla fronte bassa, il viso liscio, fresco, di un leggero color bruno soffuso di rosa, i denti perfetti”. 
Per aggiungere, dopo avere spiegato per l’ennesima volta il rapporto complicato che si era stabilito nella loro frequentazione, assidua: “Chi l’ha conosciuto più tardi lo ricorda taciturno, pieno di sé, sprezzante; non può immaginare com’era facile e incantevole stare con lui giovane” – Tina aveva 31 anni e un passato convulso, Pavese 25, e posava come un ragazzino sul Po (da “sabbiadore”), quando si sono incontrati.  

“L’estetica dell’esattezza” gli attribuisce Gian Arturo Ferrari, “Storia confidenziale dell’editoria”, come autore e come editore. Ma lo è anche di Fenoglio, di Soldati, di Natalia Ginzburg - un’“estetica piemontese”. Che potrebbe attribuirsi anche al libro “Cuore”, benché De Amicis sia ligure.  
 
Sessanta
– Sono anni di “riflusso” – di delusione, di rifiuto dei migliori scrittori? Presentando “Le piccole virtù” di Natalia Ginzburg, Domenico Scarpa fa della delusione, un “sentimento d’inappetenza”, un “maladjustement”, un tratto comune agli scrittori “in quel giro d’anni - più o meno tra la fine degli anni cinquanta e la metà degli anni sessanta”: “Molti autori italiani di prima grandezza  si ritrovano come su un valico, e di lassù contemplano un paesaggio piagato e desolato: capita a Calvino come a Parise e a Pasolini, a Elsa Morante come a Zanzotto, a Caproni come a Sereni”. Negli anni più feraci e innovativi dell’Italia, nell’economia come nella cultura, il cinema, il teatro, la poesia, la narrativa, le arti figurative? Al fondo, di fatto, non detta, la delusione di molti (non di Parise, o di Caproni, non sono delusi) è del comunismo, del 1956. Dopo la mancata vittoria nel 1948, di una Resistenza ritenuta limitata al partito Comunista.
 
Standa
– Era Standard – Natalia Ginzburg compra per i figli “i quaderni allo Standard” ne “Le piccole voci”, la divagazione sul senso del denaro per i bambini, scritta a Londra nel 1960 e pubblicata su “Nuovi Argomenti”, al grande magazzino Standard.

letterautore@antiit.eu

Verso un mondo sinocentrico

Il presidente cinese Xi Jinpjng a Mosca non risolverà la guerra. Né all’evidenza se lo propone. Ne approfitta come tribuna di sicuro richiamo mondiale, con la guerra in corso, per un messaggio distensivo. In una polarizzazione che l’Occidente ha creato. Non è suo interesse della Cina che Mosca faccia pace con Kiev, o che Kiev faccia pace con Mosca: il suo scopo è diffondere il messaggio “Nessuno è superiore agli altri”. Un messaggio, per quanto non veritiero, di inoppugnabile appeal.
Il messaggio è rivolto agli Stati Uniti di Biden. Ma dipiù al mondo intero. Di cui è certo l’apprezzamento. Dell’India come dell’Indonesia, o del Brasile. Ma anche del Gippone, per dire. I dazi e contingenti anticinesi di Biden sono gli stessi tentati, e in parte applicati, dagli Stati Uniti contro il Giappone trentacinque anni fa – correvano allora pubblicazioni del genere “The Coming War with Japan”, e non per ridere – opera di George Friedman, l’imprenditore ugroamericano animatore di Geopolitical Futures (con la moglie Meredith LeBard, 1991).
Nei trent’anni della globalizzazione la Cina ha mutato le coordinate della potenza mondiale. Proponendosi non come superpotenza, o potenza “liberatrice”, “guardiana della libertà”, ma come campione del multilateralismo. Di una Nuova Globalizzazione, o Globalizzazione Riformata, in cui non c’è più l’Occidente, leggi gli Stati Uniti, a dettare le regole, ma in condizioni di stabilità e var chi aperti per tutti.
L’opinione prevalente è che Xi non farà un passo verso Biden. Non avendone bisogno sul piano economico – troppi investimenti americani in Cina, troppi investimenti cinesi nel debito pubblico americano. A Pechino si fa risalire a Biden il tentativo di aprire un “fronte Taiwan”, con la visita bellicosa di Nancy Pelosi, e altri esponenti democratici. Biden era conosciuto, quando Xi è emerso dodici anni fa, per opporsi alle politiche di apertura di Obama, di cui era vice-presidente, col trattato Transpacifico e un abbozzo di multilateralismo.
Non c’è una guerra fredda all’orizzonte. Ma la Cina sì. I cui tempi sono lunghi. Per il confucianesimo, ma anche perché non ha elezioni dietro l’angolo, o giudici e giornalisti a caccia di scandali
.

La virtù delle parole semplici

“Il ricordo sarà la vampa\ Che ancora lei mordeva negli occhi spenti” – antica sfida, o condanna, del suicida ai sodali. Come il mare, uguale a se stesso, importuno: “Le voci morte\ assomigliano al frangersi di quel mare”. Indispettita e intenerita - Cesare Pavese ossessiona gli amici - in pochi tratti, due versi dell’ampia produzione dello stesso Pavese, Natalia Ginzburg ne scolpisce l’immaturità, il disadattamento come ora la psicoanalisi la chiama, quell’introversione che preclude il mondo – “aveva un modo cauto e avaro di dare la mano nel salutare, poche dita concesse e ritorte”.
In brevi prose Natalia Ginzburg ribadisce la sua arte di far “parlare” le parole povere, l’eloquio piano, quotidiano – l’“infraordinario” di Georges Perec, suggerisce Domenico Scarpa nella lunga introduzione. Elzeviri scritti per giornali e riviste raccolti dall’autrice nel 1962. Una raccolta editoriale, per confermare ai critici e ai lettori la cifra di “Le voci della sera”, il primo libro topico, “ginzburghiano”. Pronuba di “Lessico familiare” - scritto mentre raccoglieve questi testi sparsi (sarà pubblicato l’anno successivo). Natalia Ginzburg li chiama saggi, ma non ne hanno l’impianto né il respiro, non se li propongono: sono divagazioni, di cose viste e vissute per lo più. Molti sono diventati subito “classici”.
Il confino col marito e i figli in Abruzzo nei tre anni della guerra – il rientro a Roma, dopo l’8 settembre, nei ranghi della Resistenza, sarà ferale per il marito, Leone Ginzburg. Con brevi note sui figli, Carlo, Andrea e Alessandra. E notazioni sparse che si rileggono come un’antropologia dell’Abruzzo montano, povero, isolato, a due passi dall’Aquila (con una notazione breve ma molto lusinghiera nella prefazione, brevissima, alla riedizione 1983 della raccolta). L’Inghilterra malinconica, altro pezzo famoso della raccolta, caratterizzata dall’immangiabile, chiamato genericamente food, in famiglia e fuori, sotto nomi esotici, “Le Alpi”, “Roma”, “Chez nous”. Con l’impossibiltià di avere in tavola acqua e pane. E la conversazione, stenta e formale. Per il riserbo.
Un lunghissimo, dettagliatissimo – quante cose non si fanno insieme in una coppia – “Lui e io”, lei è il secondo marito, Gabriele Baldini.
Il testo del titolo, che chiude la raccolta, è smisurato, pur nella brevità, come affannato più che conciso: tema il se e il come insegnare ai bambini il senso e il valore del denaro. Lo stesso “Il mio mestiere”, il testo che apre la parte Seconda del volume, dove si racconta profusa scrittrice dai primissimi anni, con capoverso lunghi pagine - uno dei primi “saggi”, 1949. Per il resto “saggi” tutti più o meno memorabili, “Le scarpe rotte”, “Il figlio dell’uomo”, “La maison Volpé”.
Al centro il famoso ritratto di Pavese, “Ritratto di un amico”, sette anni dopo il suicidio: “Il nostro amico visse nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così”. Natalia Ginzburg può dirlo con cognizione, avendo cresciuto tre figli turbolenti, se non con problemi – spiega Scarpa nell’introduzione. Mossa da vera pietà – la quale non vuole essere pietosa. Un ritratto di cui la chiave è nella notazione che apre il testo centrale della raccolta, “Il figlio dell’uomo”. “Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai la pace”.    
Natalia Ginzburg,
Le piccole virtù, Einaudi, pp. XLV + 155 € 11 

lunedì 20 marzo 2023

Cronache dell’altro mondo – fallimentari (255)

Il fallimento di Silicon Valley Bank, Svb, è il secondo nella storia americana – il primo è stato di Lehman Brothers, il 15 settembre 2008.
Signature Bank, la piccola banca di New York fallita a ruota (salvata New York Community Bancorp, aveva depositi per 38 miliardi di dollari. E un totale attivi per 110 miliardi.
First Republic Bank, altra “piccola” banca di New York ora in lotta contro il. fallimento, ha attivi per 212 miliardi di dollari. Lo stesso Svb.
Il ceo di Svb, Greg Becker, aveva venduto le azioni della banca in suo possesso, per 3,5 milioni di dollari, pochi giorni prima di annunciare l’aumento di capitale, e cioè le perdite incorse.
Qualche giorno dopo il Ceo, anche il direttore finanziario e il direttore marketing di Svb hanno venduto le azioni della banca in loro possesso, per 1,5 milioni.
Svb aveva un rating Moody’s di A 3 – lo stesso di Generali. Svb e Signature avevano avuto un audit positivo sui conti solo dieci giorni prima del fallimento, il 24 febbraio, da Kpmg.

Cronache dell’altro mondo – salvifiche (254)

Il governo Biden, democratico, ha salvato tutti i depositi presso la Svb, anche quelli superiori ai 250 mila dollari, che invece la legge bancaria esclude dai rimborsi. Svb è “sistemica”, così la ministra del Tesoro di Biden, Yellen, ha spiegato il salvataggio, “bisogna evitare di mettere in crisi altri grandi gruppi”.
I depositi personali o societari superiori ai 250 mila dollari non sono assicurati dal governo federale, secondo la legge Glass-Steagall del 1933.
Glass-Steagall è la legge bancaria, che istituì l’assicurazione pubblica sui depositi, la Federal Deposit Insurance Corporation. Compito supplementare della Fdic è la vigilanza sulle banche statali, a proiezione cioè locale, e non federali o nazionali (queste sono sottoposte alla vigilanza della Federal Reserve). Svp è considerata banca locale – “statale”.
Svb è sistemica perché opera nel settore delle startup, con l’intermediazione de grandi fondi finanziari dello stesso settore, l’investimento su innovazione.
Nei settori tradizionali, agricoltura, industria, commercio, i depositi individuali o aziendali superiori ai 250 mila dollari non sono garantiti dalla Fdic.
 

L’editoria dall’estetista

Mimando la “Storia confidenziale della letteratura italiana” di Giampaolo Dossena, prodotta quando era l’editoriale di Rizzoli, l’ex grand patron di Mondadori in epoca Leonardo Mondadori-De Benedetti-primo Berlusconi propone qui una storia che poi chiama romanzo. Scritta con brio, col passo, a tratti, del romanzo, mette in scena le figurine (padroni, manager, editoriali, editor) dell’editoria italiana del Novecento. Le note (Mondadori, Rizzoli, Bompiani, Garzanti, Einaudi) e meno note. Dell’editoria di Milano, con la coda Torino (Einaudi e Boringhieri).
Poche le pagine fuori Milano-Torino (anche Marsilio, veneziana, confluisce nella galassia milanese), sei o sette in tutto, con brevi note su Sellerio, Elido Fazi, il duo Sandro Ferri-Sandra Ozzola, il duo Repetti-Cesari, Fanucci, Daniele di Gennaro, per avere imbroccato la strada dei bestseller-longseller - Montalbano, Melissa P., Ferrante (e innumerevoli altri), Stile Libero di Einaudi (De Cataldo, Lucarelli, Ammaniti, Don Winslow, Fred Vargas), Philip K. Dick, Carver. Niente di Laterza e altri.
La parte più nuova e interessante è la fabbrica del libro, che per la prima volta diventa organizzata e non più rapsodica. Il personaggio centrale, ricorrente, del “romanzo”, oltre l’ombra del narratore, è Mario Spagnol nelle sue varie incarnazioni, “soprattutto” per essersi dedicato “con passione e senza pudore, al bestseller o, per meglio dire, alla costruzione editoriale del bestseller”. Arte che lo stesso Ferrari, s’intuisce, ha messo a punto, specialmente nella lunga direzione di Mondadori, con successi in serie strabilianti, come “Gomorra”.
“Gomorra” è un libro “nato figlio di numerosi padri e madri” (il cui successo però Ferrari lo ascrive alla ‘ndrangheta, alla carneficina di Duisburg: il libro, appena tradotto in tedesco, volò nelle classifiche estive in Germania, e Mondadori trovò facile organizzarne il rebound in Italia). L’editoria, spiega Ferrari, classicista di formazione. “ha a che fare con il parto”, etimologicamente, “di cui gli editori sarebbero le levatrici”. La questione “chi è il padre” anche qui restando incerta: subito dopo s’illustra “il caso Gomorra”, come libro d’autore ma senza mai nominare Saviano.
Un racconto attento anche alla parte industriale del libro, la copertina, la grafica, il titolo prima di tutto (Ferrari è titolista felice, anche quando non gli piace “La sera andavamo in via Veneto”, il primo Scalfari pubblicato da Berlusconi – non gli piace il titolo, assolutamente voluto da Scalfari), i motivi promozionali. In effetti, l’editori a italiana si è rivoluzionata: sa fare i conti, sa fiutare il mercato (gli umori, le tendenze), sa trovarsi il pubblico. Molto più industriale rispetto a mezzo secolo fa, quando era ancora artigianale, ma di qualche intuito, una sorta di editoria d’autore, e di poca professionalità. È la ricetta nobile dell’editoria americana che Ferrari ha imposto, del maggiore e più diversificato e più profittevole mercato librario: i libri si partoriscono, cioè “si fanno”.
“Fare i libri” con l’autore è la ricetta americana. L’editor americano non è un funzionario, è un “franco cacciatore”, si occupa di pochi libri, quattro, cinque l’anno, in simbiosi con gli autori. “Si lega all’autore e insieme a lui modifica, sposta parti e capitoli, ne inserisce di nuovi, consiglia tagli. Un lavoro lungo e paziente che può durare anni”.
Una sola indiscrezione - insomma, un po’ di pettegolezzo. È l’eredità Calvino, trasferita dalla vedova a Mondadori (Oscar e Meridiani) per una “cifra enorme”, seppure rateizzata su dieci anni. 
Un racconto sorridente ma un po' greve. Altre memorie editoriali, per esempio di Sandro Ferri di E/O, che ha imbroccato molti best-seller, ne fa un quadro meno infernale - commerciale: vi si può arrivare con la semplice lettura del testo, senza pubblicità, promozioni, affitti di spazi in librerie e vetrine, interviste, anticipazioni, soffietti, ci sono libri che da soli attraggono molti lettori. Quello che Ferrari non nota è che che non c’è più l’Autore. In questi cinquant’anni si è perduto, nella narrativa o nella poesia, ma anche nella saggistica, letteraria e non, nella storiografia, nel pensiero, di qualsiasi forma. Non si può più fare una storia della letteratura, poco danno, ma cosa resta? Già vent’anni fa Baricco si lamentava che Citati non volesse citarlo, ma ne aveva ragione? Si fa editoria come una fabbrica, di parole certo. 
Si pubblica di tutto, si fa molta pubblicità, diretta e indiretta, ci sono molti periodici librari, e si vende anche, libri e periodici, il business c’è. Che è un bene. Ma l’editoria non ha più lo spessore riflessivo che finora ha sempre proposto. Di innovazione, di acume, di autorevolezza. Va a briglia sciolta. Un  po’, con più peso ovviamente, come i social. Se non fosse scorretto, si direbbe che si è femminilizzata: un buon parrucchiere, un buon visagista, gradevole certo.  
Gian Arturo Ferrari, Storia confidenziale dell’editoria italiana, Marsilio, pp. 366 € 19


domenica 19 marzo 2023

La pace cinese per paura degli Usa

Perché l’Arabia Saudita, ammesso che voglia fare pace con l’Iran, nemico di millenni, passa per la Cina? In passato, tre anni fa, poteva farlo attraverso Putin, che si era offerto, ma ha lasciato cadere l’apertura. All’epoca non aveva problemi con gli Stati Uniti. Ora ce li ha.
L’Arabia Saudita è un paese feudale - patrimoniale nella terminologia sociologica, di Max Weber. Appartiene ai Saud. Ora all’ultimo dei fratelli figli del fondatore della dinastia Abdelaziz ben Saud, Salman. E per lui al principe ereditario e primo ministro, suo figlio Mohamed ben Salman,  che in poco tempo ha rivoluzionato la politica e l’economia - e anche la società. Ma è ritenuto responsabile di un assassinio politico, dell’oppositore Kashoggi, in Turchia il 2 ottobre. È ritenuto responsabile dagli Stati Uniti. Mohammed ben Salman non si fida: legge l’imputazione come un ricatto. Pechino è ora il suo ombrello - e non esclusa nemmeno Mosca, nemmeno il reietto Putin, con cui tratta un abbraccio nientemeno con Damasco, finora sempre nemica.
In Medio Oriente la politica americana dei diritti umani non è creduta. A fasi alterne, fa vittime di cui si pente – dice di pentirsene: lo scià, Saddam Hussein, Mubarak, lo stesso Gheddafi. Non la crede nessuno, non soltanto i principi e i tiranni - le donne in rivolta in Iran se ne guardano.

Ombre - 659

Ricordando la guerra dell’Occidente contro l’Iraq vent’anni fa, e le sue terribili distruzioni, con la riduzione alla fame di metà della popolazione, il primate cattolico si affida a Muqtada El Sadr, il leader politico sciita che avversò la “liberazione”, fino ad affidarsi all’Is, al terrorismo. L’“Occidente”, che ne fa vanto, non si dice la verità delle cose. E crede alla sua propaganda.
 
Sul “Sole 24 Ore” si ricorda “l’Iraq 20 anni dopo, i disastri di una guerra che andava evitata”, un paese diviso e disastrato, per “errori Usa e ricadute”, con un “conto di 134.400 morti”, quindi sicuramente molti di più di fatto, e le “bugie clamorose per giustificare l’attacco a Saddam”. Una brutta storia, che non ha insegnato niente, non all’Occidente. Non ci sono altrettanti morti nella guerra in Ucraina, che pure è materia di propaganda – forse un decimo di quelli accertati in Iraq. Dobbiamo intensificare lo sforzo?
 
Sempre, e solo, sul “Sole 24 Ore” - brutta assonanza, ma voce della verità? – si calcola un “8 percento dei laureati in fuga all’estero. Oltreconfine retribuzioni migliori, fino al 41,8
 (sic!) per cento. Una perdita pari all’1 per cento del pil”. Perfetto. Cioè male. La denuncia viene dal giornale della Confindustria. Che fa i salari. E ha scelto nei trent’anni della globalizzazione i licenziamenti di massa, un outsourcing veicolo di bassa qualità e bassi salari (l’allora potentissimo Cesare Romiti li teorizzava), e un’Italia, quinta potenza economica, in serie B.
 
Curiosamente, non una parola sulle crisi bancarie come esito prevalentemente delle politiche monetarie restrittive della Federal Reserve. Per le interconnessioni tra le banche, specie per i depositi interbancari, tra prenditori (le tre banche americane fallite) e prestatori: con il costo interessi moltiplicato in pochi mesi, non trasferibile sulle posizioni creditrici, le banche illiquide hanno chiuso bottega. In parte analoghi i problemi del Credit Suisse.
C’è invece trionfalismo sulle banche centrali, Fed e Bce, vestali di non si sa che cosa. Che vanno alla cieca, con misure da vecchio manuale, di economie novecentesche - uno ascolta Lagarde e gli viene la febbre.
 
Trump, quasi in manette, nelle cronache non è più il “tycoon”, è il “magnate”. Biden fa paura? In effetti non è più l’arzillo vecchietto saltellante. Ha molto pelo sullo stomaco, con i figli e fuori. È un guerrafondaio, freddo. E non sorride, ghigna.
 
“Le parole di Mussolini? Poteva essere Obama, oppure Shakespeare”.  Attanasio, il manager pubblico che invitava al lavoro col discorso protervo di Mussolini dopo l’assassinio di Matteotti, si difende: è stato un errore. No, la citazione era precisa, sapeva bene da dove la estraeva. È che Mussolini per molti non ha colpe. Nemmeno per molti manager. Nemmeno di avere perduto la guerra, che per un manager è delitto capitale.
 
“Ho invitato a casa Giorgia Meloni e ho cucinato per lei”, Checco Zalone confida a Cazzullo, “ma ho votato Pd”. Sembra una macchietta, l’italiano simpatico.
 
Però ha ragione: “Un Paese senza pazienza”, Zalone dice dell’Italia: “Non vuole più racconti ma sintesi. I ragazzi non guardano più la partita, preferiscono gli highlights”. Vero, le due ore di partita uno stress, in qualunque modo vada. E allo stadio “si divertono” solo i teppisti.
 
Allegria Parlamento europeo, tutte verdi le case entro dieci anni, dodici, via. Che non si sa bene cosa sia, la casa verde, ma un grosso business sì. Edilizio: di infissi metallici (tutti gli infissi da rinnovare, non sarà poca spesa), nuovi materiali a copertura dei muri, nuove caldaie per il riscaldamento… Allegria dei media: che divertimento!
 
Allegria soprattutto della sinistra maggioritaria in Parlamento, sotto tiro per le pratiche corruttive, che quindi allegramente vota transizioni verdi sempre più radicali, a scadenza sempre più ravvicinata. Da “togliere il respiro”.  
 
La sinistra non mi sta antipatica; la sinistra è antipatica”, dichiara Mentana – che fino al 1992 ha votato socialista, poi non ha più votato”: “Anche questo lo sanno tutti, come la formazione della Grande Inter”, spiega a Cazzullo, interista come lui. E continua: “È aristocratica, elitaria, convinta di essere la parte migliore, vocata a governare anche quando (quasi sempre) perde. È come la vecchia Y10: piace alla gente che piace; e dispiace a tutti gli altri”.
Il giorno dopo “la Repubblica”, motore di questa sinistra, muove guerra alla Francia per essere stata la figlia di un lettore, la quale studia Scienze Politiche a Parigi, rifiutata in discoteca perché “non arriva a 1,70”, di altezza. Senza nemmeno chiedersi se non sia una “provocazione” - Scienze Politiche a Parigi? la discoteca?
 
Le provenienze dichiarate dai migranti clandestini giunti quest’anno in gran numero in Sicilia e in Calabria si concentrano su una decina di paesi. Una delle tante prove che il traffico è organizzato: nel 2023 ha reclutatori in Guinea, Costa d’Avorio, Tunisia, Pakistan, Bangladesh.
 
Si leggono con sgomento le cronache romane che per due settimane contestano la squalifica dell’allenatore della Roma Mourinho. Uno che si sempre e ovunque illustrato per litigare con gli arbitri. Ma a Roma c’è di più: i tifosi della Roma non vivono una settimana quando la squadra perde – e perde una volta su due. Amareggiati al punto da augurare la morte alla moglie di un calciatore avversario ricoverata per una gestazione difficile. Sciocchezze? Pretesti per “uscire” sui social? No, i romanisti soffrono, incattiviscono.
 
La Juventus vince contro la Sampdoria. La pagella del “Corriere della sera” dà cinque 5 alla Juventus e sei 5 alla Sampdoria. Che ha cinque sufficienze, contro sei della Juventus, ma stentate. E la partita assortisce di una cronaca giudiziaria di si capisce poco o niente, ma sì che la Juventus, che ha vinto alcuni ricorsi al Tar e al Consiglio di Stato, non ha ottenuto niente. Il calcio è velenoso.

Mussolini franò con l'imperialismo - di cui pure sapeva tutto

Giunta al dodicesimo volume, su quattordici, la storia del fascismo scopre la politica estera, che fu il campo di maggiore interesse di Mussolini, e il più attivo, anche con qualche merito. Nello spirito dell’imperialismo, lo spirito dell’Otto-Novecento, per cui l'Italia si era anche svenata, fino alla guerra di Libia. Ma di una politica nazionale che non può fare a meno di un ancoraggio solido, e rispettato, all’estero.
Con molta intelligenza. Su Hitler fino a fine 1938. O sugli Stati Uniti, sull’imperialismo liberatore, pur sempre missionario – il “fardello” di volta in volta dell’uomo bianco, dell’Occidente, dei diritti umani. Il 1° gennaio 1919, a guerra appena finita, sapeva già: “L’imperialsimo non è, come si crede, necessariamente aristocratico e militarista. Può essere democratico, pacifico, economico, spirituale. In un certo senso, il presidente Wilson – e non è difficile dimostrarlo – è il più grande e il più fortunato degli imperialisti”.
Ma è sul fronte esterno, della proiezione internazionale, che Mussolini ha poi fallito. Non ha calcolato bene la potenza degli “anglossassoni”, che pure conosceva. E si è ingannato sulla potenza di Hitler, di cui pure non si fidava, scopertamente fino al 1938. Il 29-30 settembre si adoperò a Monaco per contenerne l’avidità. Subito dopo si tradì, tradì se stesso, per voler fare l’ideologo: il 6 ottobre impegnava il Gran Consiglio del fascismo, che pure era un organismo “suo”, in una maratona di ben trenta ore per farsi approvare le leggi razziali, talmente erano assurde.  
Emilio Gentile,
Storia del fascismo – 12. La via dell’impero, la Repubblica, pp.150, ill. € 14,90