Non sarebbero in
difficoltà le esportazioni russe di petrolio greggio. Attraverso una serie di
combinazioni che vedono coinvolte società europee, di paesi cioè che hanno
adottato le sanzioni. Senza però incorrere in comportamenti illegali, poiché utilizzano
una logistica non occidentale, e consegnano il greggio a paesi che non hanno adottato
le sanzioni.
Principali destinatari
del petrolio russo sono India, Turchia, Sri Lanka e altri apesi minori, asiatici
e africani, per il consumo interno o per la riesportazione. Per il trasporto si
utilizzano, oltre alle petroliere russe, tanker di armatori greci battenti
bandiere di comodo. Avvalendosi delle assicurazioni britanniche, specializzate per
i noli marittimi (riassicurazioni). E delle stesse banche olandesi e
giapponesi, che finanziano tradizionalmente il trading del greggio.
A parte le esportazioni
in Turchia, tramite condotte esistenti, che sono però di portata limitata, il
gas russo che l’Europa non compra più non ha sbocchi. Per venderlo in India e
in Cina sono necessarie infrastrutture complesse: molto costose e, per quanto
riguarda l’India, a rischio.
Per arrivare in
India il gas russo dovrebbe passare attraverso il Pamir e l’Everest, le catene
montuose più ardue da attraversare. Oppure attraverso l’Afghanistan e il
Pakistan, uno Stato inaffidabile e uno nemico dell’India.
La fornitura alla
Cina rientra in un progetto definito Power of Siberia. La messa in produzione
di giacimenti di gas nuovi in Jakuzia, la parte orientale e più inospitale
della Siberia. E la realizzazione di una megacondotta, lunga quasi 4 mila km.,
attraverso la Mongolia, con tubi da 1 metro e mezzo di diametro, per una portata
di 60 miliardi di mc l’anno. Un progetto da 55 miliardi di dollari. Un costo
che però sarebbe sottovalutato. Il progetto è ancora da definire – la prima
data di partenza indicata dei lavori è il 2024.
Di Power of Siberia
esiste già una prima pipeline, completata nel 2019. Che ha portato in Cina da
allora 4 miliardi di metri cubi di gas l’anno – meno del 5 per cento del gas
esportato da Mosca in Germania, Italia, e altri paesi Ue. La portata di questo
primo gasdotto a regime dovrebbe essere di 38 miliardi di mc.
Altre esportazioni
la russa Gazprom effettua sotto forma di gas liquefatto (lng), dai giacimenti artici
di Yamal, attraverso tre impianti di liquefazione e una flotta di navi
metaniere. Il gas di Yamal era fornito alla Germania prima delle sanzioni europee,
a Wintershall-Basf, con una condotta che attraversava la Bielorussia e la Polonia.
Dal romanzo
iper-venduto di Delia Owens, il ritratto di una ragazza sola, nel bosco al bordo
di una laguna, abbandonata bambina dalla madre amatissima dopo l’ennesima
violenza del padre, poi dalle sorelle per lo stesso motivo, poi dal fratello,
infine anche dal padre. A disagio a scuola, rifiutata dal villaggio, accudita
benevolmente, a distanza, dalla coppia di afroamericani senza figli che gestiscono
l’emporio. Vive cresce sola nella natura. Da cui però matura conoscenze e tratti
che la rendereanno un’esperta famosa delle specie animali e vegetali della
laguna. Conoscerà un amore puro, e uno violento. Questo finirà nella morte,
forse non accidentale, quello l’accompagnerà fino alla vecchiaia onorata e alla
morte.
Un racconto delicato.
Non fosse per la mania americana della giustizia sommaria.
Olivia Newman, La
ragazza della palude, Sky Cinema
spock
Una Passione
senza Redenzione?
Perdere il
sacro per acquisire il profano?
Se Dio è nella
lavanda dei piedi o nella resurrezione dei corpi?
O se il sacro
è sotto i ponti?
Se la fede è ragione?
Se la fede è ragione
quando la ragione vacilla?
spock@antiit.eu
C’era la corsa alla
Cina, c’è ora la corsa a disfarsi della Cina. Solo sei o sette anni fa questo sito
doveva registrare la stranezza di una Milano “cinese”
http://www.antiit.com/2017/09/il-triangolo-industriale-e-cinese.html
Si è poi smesso
con i telefoni, l’America ha detto basta, e si è continuato con i porti - Taranto
sì, Trieste forse, oppure no, il governo esercita il diritto di blocco (senza
nemmeno chiedersi perché con i cinesi i porti rendono, e con gli italiani sono
una zavorra, a carico dello Stato, e anche, per lo più, sgangherato). Ma la
tendenza è a metterli fuori, da Pirelli, dalle banche, da ogni dove. Senza una
ragione. Si dice: sono spie, preparano un’invasione, ma la verità è che l’America
non tollera disobbedienze.
Si è detto, Arbasino
ha detto, dell’Italia “un Paese senza”. Ma più senso ha dirlo “un Paese sotto”.
Sottomesso. Basta un moto del sopracciglio americano che l’Italia corre, nel senso
del servo. Magari tagliandoseli.
Diversamente
correva col “piano Mattei” propriamente detto, quando non chiedeva il permesso
per andare in Medio Oriente, in Nord Africa, compresa l’Algeria, compreso Gheddafi,
in Africa, e anche in Russia, nel 1953, anzi disobbediva.
Racconti aspri,
sotto l’ordinarietà, una quieta quotidianeità di personaggi, incontri, incroci,
scambi, eventi. Un racconto è degli
“invisibili”, di come si finisce sotto un ponte – nel caso una galleria
stradale, un sottopassagio. Altri di immigrati per qualche verso disastrati.
Racconti di
esclusione e non di inclusione, come i precedenti racconti “romani” della
stessa autrice. Di ordinaria esclusione: una lite, un commento, il condominio.
E di attimi fuggiti, anche presso gli integrati – il racconto lungo “Le feste
di P.”. Di una Roma non più benevola, come nei primi racconti “romani” di
Lahiri, ora palco inerte. Non più i suoi cieli, le piazze, gli alberi, i fiume,
i parchi, il garbo, ma sporcizia, vetri rotti, e gente distratta o inquieta,
ostile. Quale si vive oggi: una città non solo male amministrata e vecchia,
irrimediabilmente, ma senza più la caratteristica bonomia, anzi violenta a ogni
minimo contatto, anche solo visivo. La città “dell’acqua che sporca”, può dire
l’onesta lavoratrice immigrata da vent’anni a cui i bambini che accudisce possono
inviare “i bigliettini” dell’omonimo racconto per dire “non ci piaci”. Al
meglio è il finale, di manier a: “Che città di merda… Ma quant’è bella”.
Un’intera sezione,
la II, racconta “La scalinata”, il viale Glorioso a Trastevere, dove
l’“immigrata” intellettuale Lahiri ha scelto di abitare, in limnguistiica) LaHIRI HA ABITATO, in precedenza
tema di divagazioni felici, che ora espone brutture: sporcizia, urla, vetri
rotti di torme di ragazzi che ci bivaccano la notte, ladri camuffati da
carabinieri, bande adolescenti che si divertono con gli scippi. Popolate da
persone per qualche verso anch’esse escluse: la colf che faticosamente la
risale all’alba per andare la lavoro, la vedova, vecchia e perciò umiliata, la
ragazza (del liceo soprastante) a scuola isolata, non dalle compagne, dalla
famiglia di un “comunita” diversa (mai “islamica”….), l’espatriata (una sorta
di autoritratto).
Una raccolta
omogenea, raggruppando anche racconti già variamente editi, in pubblicazioni
tematiche di altro genere. Racconti di malumore, anche solo per sentirsi
apostrofare “bella moretta” dall’oste. Jhumpa Lahiri, già felicemente immersa
nel tepore romano, si scopre assediata, dalle mosche e le zanzare, “anche d’inverno”,
e dalla maleducazione, dall’indifferenza. Non benevola. I rarconti sono
diventati “romani” nel titolo della raccolta nel senso di fare i conti con la
città.
Materia greve –
romana allora in senso di greve. E anche il tratto, la scrittura. Roma pesa,
non più sogno, giardino di libertà, ma incubo, seppure a modo suo, svagato,
indifferente.
Qualche racconto è
meno “impegnato” – meno corrivo, o politicamente corretto, scontato. “La
ragazza” per esempio, quella della “comunità” diversa, che l’incubo delle nozze
con uno sconosciuto, fra dieci anni o cinque, priva delle chiacchiere con le
comoagne, della gioia di vivere. Il racconto lungo “Le feste di P.”, dove pure
nulla succede, richiama la passante di Baudelaire, che regala al poeta
un’ebbrezza duratura, un’ossessione lieve o vita immaginaria (“fuggitiva
bellezza,\ il cui sguardo m’ha fatto
d’improvviso rinascere,\ non ti vedrò più che nell’eternità?”) – e il Kafka di
“Meditazione”, il leitmotiv della sua prima raccolta di racconti: il rifiuto
del contatto per programma, quasi un’infezione.
La malinconia si
direbbe il leitmotiv della raccolta: il tema ricorrente è del rapporto
coniugale muto, se non infranto. Non solo con la città. Ma questo è il tema di
Lahiri prima dei libri romani: le famiglie. I genitori, i figli, i coniugi, le
curiosità. gli amori, i languori, le paure. Di una scrittrice che s’indovina di
forte temperamento, se non altro per la scelta di scrivere in italiano – di famiglia
indiana, nata in Inghilterra, cresciuta, istruita e affermata negli Stati
Uniti, sposata con un latinoamericano, narratrice di successo, ora
in lingua italiana, insegnante a Princeton, residente (quando può) a Roma. Ma
ossessionata dal tempo che passa, dal mutamento, anche impercettibile.
Jhumpa Lahiri, Racconti
romani, Guanda, pp. 257 € 17
letterautore
Ascendenze
– “Ben Pastor”, Maria Verbena Volpi Pastor, scrittrice
di gialli e ghost strories ampiamente pubblicata, e premiata, in
versione italiana, opera di traduttori professionali, si vuole scrittrice americana,
anche se in America è poco pubblicata. Jhumpa Lahiri, scrittrice mainstream
americana, premio Pulitzer, si vuole scrittrice italiana, la sua narrativa
scrive in italiano, la lingua che ha adottato da un decennio – la cui traduzione
in inglese vuole affidata a traduttori professionali.
Fascismo
- Malaparte lo vuole essenzialmente urbano, “il socialismo
urbanizzato”, il potere della burocrazia – “Il Ballo al Cremlino”, p. 117.
Trockij dice un Mussolini “ebreo, concionante, polemizzante, militarista, enfatico,
orgoglioso, gaudente”, etc., “perché il trozkismo è il fascismo”. Invece, “dove
è la città, il comunismo rapidamente deperisce. Fate di Parigi, di Londra, di
Roma la capitale del comunismo, e il comunismo degenererà rapidamente in
fascismo”.
Intelligence
– In voga,
se ne fanno anche corsi e istituzioni universitarie e accademiche, si può dire il marchio del secolo, ma come indiscrezione (intercettazioni, rivelazioni, ricostruzioni) e come
tecnica dell’informazione, o meglio della disinformacija, a fini
pubblicitaria, non di verità. Una tecnica ora moltiplicata dai social.
Come raccolta politica di informazioni, su ambienti, persone, progetti
ostili, o concorrenti, è indefinita – lo è sempre stata: non c’è congiura o attentato
che non avvenga, anche con le intelligence più attive. Antonio Pizzuto,
lo scrittore che fu per una vita, da dirigente di Polizia, incaricato di tenere
i rapporti con le Polizie degli Stati amici, lo dice in una piega seriosa del
racconto satirico “Il principe Racoczi” (ripreso in “Due racconti di Sallino Sallini”, p. 9: “Come da una tonnellata di pechblenda si ricava soltanto qualche
grammo soltanto di radium, così dalla massa di informazioni poste in
giro si potevano ricavare appena una o
due notizie buone, ottenibili talvolta con scambi molto onerosi: per averne una
discreta se ne dovevano dare quindici o venti meno pregiate e in certi periodi
il valore di quelle buone aumentava ancora”. Si compilano schedari. Anche per
facilitare gli scambi. Si aggiornano. E comunque “bisogna mantenere buoni
rapporti con gli agenti nemici”. Anche perché i capi più avversi poi si parlano:
“Non erano forse corrette e perfino cortesi in casa nostra, a suo tempo, le relazioni
fra Crispi e Giolitti?”
I servizi più attivi, quelli americani, non prospettano mai un pericolo
reale, e sono attivi solamente nelle guerre o complotti che attuano.
Manomorta
– Sarà il “sistema” nazionale, l’appropriazione dei
beni altrui, da parte dello Stato, per farne merce politica, di scambio? L’ultima
sarebbe quella delle borghesie meridionali – a carico loro. “Un sistema che ha
prodotto una gigantesca manomorta pubblica”, scrive Alessandro Barbano,
“L’inganno”, p. 92, è quello delle confische giudiziarie come attività di
prevenzione contro le mafie. Gestite dal 2010 da un’Agenzia nazionale dei beni
confiscati. A danno spesso anche di persone incensurate e incensurabili, e sempre
senza nessun utile per lo Stato, come per le manomorte di appropriazione
classica -le ecclesiastiche, le terre comuni, etc.. L’Agenzia non conosce peraltro
il numero e la tipologia dei beni confiscati, né la loro destinazione. Che va in
mano a commissari privati e privatissimi, nominati a caso, senza cioè dei criteri
prestabiliti, a uzzo dei prefetti. Si possono confiscare i beni senza una condanna,
in via preliminare. Nei casi noti di successiva assoluzione, sono stati restituiti
senza più alcun valore, e in disarmo.
Mosca
– Era ancora “la Città Santa della Russia” per Malaparte
in visita nel 1929, “l’antico e nobile limitare dell’Asia, la Terza Roma”. E in
quanto allora bolscevica, sovietica, “capitale di un impero «continentale» di
contadini, di soldati, d’impiegati, di studenti, di ebrei, di cosacchi, di
tatari, dominato da un piccolo esercito di operai comunisti, pallidi e
taciturni”. Con l’aggiunta: “Nel Cremlino, sull’antico trono degli Zar
ortodossi, sedeva un uomo di bassa statura. Dalle braccia corte, dagli occhi nerissimi
e lucenti. Il suo nome era: Stalin”. Ma, ancora in quegli anni, Mosca era
“l’antica città ortodossa dalle mille chiese”. Dalle “mille cupole, coperte di
maioliche verdi, rosse, gialle, turchine”. Alla cui ombra vegetavano ancora le
case in legno risparmiate dall’incendio antinapoleonico del 1812.
Proust
- Sarà stato “sovietico” - il mondo che ha creato lo
era? Così lo vuole Malaparte. Il mondo sovietico era “proustiano” già nel 1929,
dopo solo un decennio di potere, subito dopo Lenin, prima di Stalin, per
Malaparte, nel ritratto che di quella che sarà chiama la nomenklatura
sovietica fa al primo capitolo de “Il ballo al Cremlino”, il romanzo-reportage
rimasto incompiuto. Alle prima righe Malaparte presenta il. suo progetto come
un quadro proustiano: “Un romanzo nel senso proustiano”. Rifacendosi al Proust
di Thibaudet, al plan de desintéressement di cui Albert Thibaudet parla
a proposito di Proust, dove Proust ha portato “l’analisi psicologica”, che
“investe anche la morale”. Il tutto dominato dalla “fatalità” – “gli episodi di
questa «cronaca di corte» sono legati da una fatalità che li convoglia”, “corpo
sociale” più che individui. Al modo di Proust: “Come non è un individuo, uomo o
donna, il barone Charlus e Swann o madame de Guermantes, Odette o Langeron,
l’eroe dei romanzi di Proust, ma la società, il mondo della Parigi, quella nobiltà
francese, parigina, cioè tutta una società, un corpo sociale”. Senza fare del
moralismo – da qui il plan de désintéressement.
Sallino Sallini – Lo
pseudonimo scelto da Antonio Pizzuto quando ancora era in servizio nella
Polizia di Stato è
uno “spaventoso capobrigante italiano”. Vero? Englisch, “L’eros nella
letteratura”, p. 231, ne fa un personaggio letterario. Wikipedia lo presenta così,
con la copertina e il titolo di un libro: “Sallo Sallini, il più temibile
brigante in Italia e Boemia”, sottotitolo “un romanzo di briganti e di
fantasmi”. Opera di un F.F. Froelich, spiega un Carl Schopfer che lo edita. In
realtà, sembrerebbe, opera dello stesso Schopfer, metà Ottocento circa, che ha
prestato il suo nome di battesimo C(arl) F(riedrich) a un “Froelich” che vuole
soltanto dire “allegro, cuor contento”.
Ci sono invece
vari Carl Froelich reali, senza il F.(riedrich). Uno è apprezzato passeggiatore
nell’Appenzello, alcuni decenni prima di Robert Walser, un botanico. Il più
famoso è un regista che piaceva a Hitler, in attività dal muto al 1944, autore
peraltro di film apprezzati: “Giovinezza”, “Le cortigiane del Re Sole”. “I vinti”,
“Heimat”, premiato a Venezia nel 1938 - e nel 1931, “Ragazze in uniforme”, il
primo film forse delle pulsioni omoerotiche di quattro ragazze in collegio.
Sciascia
– Il Tar del lazio respinge una richiesta di variazione
anagrafica, del nome – che copre con omissis, ma s’indovina essere da
Sciascià a Sciascia – di un ricorrente che si voleva contiguo di Sciascia, lo
scrittore, e spiegava che il suo nome è di derivazione greco-albanese. Il Tar
nega la derivazione, che invece asserisce essere araba. Basandosi sullo stesso Sciascia,
con riferimento a quanto scrive in “La Sicilia come metafora”, dove spiega che
il cognome non è greco (dove avrebbe il senso di “cattivo”) ma arabo. Senza semplificare
di più. Mentre sarebbe semplice: deriva dal berbero in realtà. Si fa molta confusione
nel Sud Italia sugli “arabi”, che per la gran parte erano berberi, sia quelli
dell’occupazione del nono secolo, e degli emirati avventurosi sulle coste della
Calabria e del Salento, che quelli del regno di Andalusia, e poi delle scorrerie
saracene. Sciscì n berbero vuol dire berretto, e se ne fa uso idiomatico,
per dire di un rapporto stretto, familiare o di amicizia: due teste e un
berretto.
Nella forma Sciascia
il nome si ritrova in Sicilia e in Calabria, nella forma Scisci in Sicilia e in
Puglia.
Ucraina
- La vita breve di Paul Celan Marino Freschi sintetizza così, sul “Venerdì
di Repubblica”: “Era nato a Czernowitz nel 1920”. Quindi rumeno: “La città, la
«piccola Vienna», fino al 1918 era stata asburgica, poi rumena, poi sovietica,
ora ucraina”.
Leopoli, nome latino
di Lemberg (tedesco), Lvov (polacco e ucraino), ha cambiato mano. È stata
polacca fino al 1939, la seconda città polacca per popolazione e vivacità
culturale, e anche commerciale. Polacca di lingua e tradizioni, con una minoranza
di lingua ucraina nella periferia orientale, prossima ai campi. Passò nel 1939
all’Unione Sovietica, nel quadro della spartizione della Polonia con la Germania
di Hitler (patto Ribbentrop-Molotov), e da Mosca assegnata amministrativamente
all’Ucraina.
letterautore@antiit.eu
Un’esperienza di
vita. E di artista, tra Italia, dove la scultrice opera, e Finlandia, il paese
di origine. Ma in Italia è cresciuta, nell’infanzia a Roma, col padre
diplomatico presso la Santa Sede, e poi negli studi, all’Accademia di Firenze,
a scuola di disegno di Primo Conti. E all’esordio, alla galleria Castelli di
Milano nel 1970. Con la sensibilità del design finlandese, che la stessa
Milano, la Triennale, aveva accreditato già vent’anni prima, nel 1951, con
l’opera di Tapio Wirkkala. Ma con un uso dei materiali che la accomuna subito,
benché giovanissima, a Burri, Consolazione, Viani, e a Tapiès, Giacometti,
Brancusi – ma anche a Marino Marini e Melotti, figurativi.
Grande maestria
dei materiali il volume documenta, specie travertino e legno, che Stenius compone
in combinazioni fantasiose, in forma di steli, bassorilievi, anche monumentali
- alcuni trittici di chiesa. Molto si diletta anche di grafica, nella quale più
confluisce la sua doppia “natura” o esperienza, del mondo finlandese (di lingua
svedese….) e di quello italiano, fiorentino, romano. Anch’essa “materiale”, pietrosa,
terrosa. Nella sintesi delle critiche d’arte Lorella Sacco e Stella Bottai che
introducono il volume: “Costante del lavoro di Stenius è la costruzione di
forme astratte pervase da elementi narrativi, lirici: poemi velati, in legno,
alluminio, marmo, e travertino, contrappuntati da rigonfiamenti in superficie,
che lei chiama «emozioni del materiale»”.
Un’edizione ricca,
perfino sontuosa, di un’opera minimalista. Dei materiali, poveri, pratici, e
dei volumi. Di un minimalismo informale. “L’informale contro la Geometria” e
fra le sue prime creazioni - e “In attesa del silenzio”. Di oggetti semplici,
come di una “moltiplicazione dei pani”, di visione, senso, augurio, desiderio.
E di ricerca coloristica, sottile ma marcata. Nelle tonalità del grigio (bigio
si direbbe meglio), e del blu. “Il blu non esiste nella lingua finlandese”,
argomenta Timo Keinänen, “quello di Stenius si direbbe di lapislazzuli”, il più
cangiante, il più lieve anche.
Con saggi, oltre
che di Sacco e Bottai, dei curatori: la pittrice Elisabeth Mladenow, altra
finlandese trapiantata (a Berlino), e Timo Keinänen, “il professore innamorato
di Noto”, storico dell’arte. Una riflessione di Severi Parko, il rispettato
storico dell’arte finlandese deceduto diencui anni fa. E una testimonianza
dello scrittore Pirrko Peltonen.
Di Peltonen la monografia
riproduce la breve, ipnotizzante, introduzione al catalogo di una mostra di Lilli
Stenius molti anni fa a Roma, “Lungo i sentieri dell’acqua”: “Come sappiamo,
molte lingue hanno più parole per «blu». Il finlandese non ce l’ha, così devi
specificare : blu cielo, blu chiaro, o blu scuro. Ma sempre blu. Il «blu» di Lilli
è decisamente il blu dei lapislazzuli”. Il più magnetico, e cangiante. Ma anche
quello, ricorda lo scrittore, riservato nel Medio Evo e nel Rinascimento alla
Vergine Maria, perché di materiale raro: “Quel «blu» è divenuto il colore della
spiritualità. E dell’innocenza” – “poi c’è il nostro blu. Il blu dei laghi
finlandesi….”, a volte brillante, a volte profondo, scuro, perfino cupo”.
Molto altro, moltissimo,
Peltonen dice nelle due paginette. Degli Stenius, dunque Lilli, finlandesi parlanti
svedese, di religione cattolica romana. E dell’amicizia intrecciata con Lilli
insieme con Dario Fo. Che nel 1966, ben prima del suo straordinario successo di
pubblico in Italia (nel 1975 la rivista “Time” gli assegnerà un record di mezzo
milione di presenze, benché Fo fosse tenuto fuori dai circuiti teatrali), dava
una mano alla messa in scena a Helsinki di “Chi ruba un piede è fortunato in
amore”. La produzione aveva assunto Peltonen nel ruolo di assistente e interprete.
Insieme con Lilli, per la sua conoscenza dello svedese, lingua da cui la pièce
veniva adattata, e di italiano. I tre uscivano insieme la sera, dopo le prove.
Fo fu predentato a Lilli come “un esponente della upper class”, da un Peltonen
figlio di Guardie Rosse – le due famiglie, Stenius e Peltonen, si
fronteggiavano sullo stesso lago in estate, da opposte rive. Fo dell upper
class non è male.
Timo Keinänen-Elisabeth Mladenov (a cura di) -
Lilli Stenius, Echoes of silence, De Luca Editori d’arte,
pp. 143 sip
Si processa Trump non per ricatto, di
un portiere di albergo e di una prostituta, ma per 34 capi d’accusa su ricatto
di un portiere d’albergo e di una prostituta.
Il procuratore di New York che ne ha
voluto e ottenuto l’incriminazione, Alvin Bragg, è un politico - la carica è politica. La giuria che lo ha
condannato al giudizio preliminare, è anch’essa scelta politicamente, non a
sorteggio.
Il giudice del processo, che dirige il dibattito
in aula, è anche lui un politico, nemico dichiarato di Trump da tempo. Sua
figlia Lore ha diretto la campagna elettorale digitale di Kamala Harris, la
vice-presidente di Biden.
Il processo, “media
circus”, con Trump in “stato di arresto”, libero su cauzione, durerà diciotto
mesi, fino a ottobre 2024 . Il 4 novembre si vota.
La giustizia in America
è come nei western: chi spara meglio quello ha ragione. Il vecchio “giudizio di
Dio”.
L’Italia è l’unica
grande economia europea con una politica dell’immigrazione solo restrittiva. Il governo
conservatore inglese, che minaccia la deportazione degli immigrati irregolari
in Ruanda, nel 2022 ha regolarizzato oltre mezzo milioni di nuovi arrivi – a fronte
dei 90 mila italiani. La Francia, che ha semplificato le procedure giudiziarie
per l’espulsione degli indesiderati, ha creato corridoi di regolarizzazione semplificata
nei settori produttivi e di servizi a carenza di manodopera.
In Italia il calo
demografico è più accentuato che in Gran Bretagna, Francia e Germania, e tuttavia
non ha una politica di compensazione attraverso una immigrazione regolarizzata
qualificata (rispondente ai bisogni): l’immigrazione resta irregolare, casuale,
poco o nulla qualificata, regolarizzata ex post, per numeri sempre insufficienti,
e casualmente – un continente semi-sommerso, poco o nulla produttivo.
Per i prossimi quindici
anni l’Istat certifica, sulla base delle nascite degli ultimi quindici anni, una
diminuzione della popolazione in età lavorativa, tra i 15 e i 64 anni, di
cinque milioni – il 13 per cento del mercato del lavoro. Mentre solo per
attuare i progetti del Pnrr sarebbero necessari quest’anno e il prossimo 375
mila lavoratori in più – secondo una prospezione della Banca d’Italia. In
aggiunta a quelli che ormai da un anno e mezzo mancano nei servizi alla persona
– ristorazione, accoglienza, collaborazione domestica – e in agricoltura, sia
braccianti che operai qualificati (allevatori, trattoristi, etc.).
Dall’opposizione
cristiano-democratica la politica di attivazione dell’immigrazione che il
governo del cancelliere socialista Scholz persegue è criticata come limitata: i
Popolari tedeschi spingono per la creazione di un’Agenzia federale per
l’immigrazione. Che operi per reclutare “attivamente” lavoratoti qualificati
stranieri.
È prossimo il varo
a Berlino del pacchetto legislativo predisposto in primavera per una politica
attiva dell’immigrazione. Sul presupposto che il paese ha bisogno di “più lavoratori
qualificati”, da “stabilizzare più rapidamente”, per averne accertato “un
bisogno urgente in molti settori produttivi”. Le nuove norme renderanno “più
agevoli i ricongiungimenti familiari”, quasi automatici – com’era l’uso nei
apesi anglosassoni. E semplificheranno le procedure amministrative per la residenza
e i permessi di lavoro.
La coalizione di
governo, cosiddetta “semaforo”, rossa, verde e gialla, socialdemocratica,
verde, liberale, è compatta E anche l’opposizione cristiano-democratica,
guidata da Friedrich Merz, concorda su questo punto. Per la destra al governo,
i Liberali del ministro delle Finanze Lindner si limitano a chiedere che
l’immigrazione sia “controllata” - ma riconoscendo il “cambiamento demografico”.
L’Oim-Onu, l’organizzazione
internazionale per le migrazioni, definisce la rotta del Mediterraneo “la più
pericolosa al mondo” per le ondate migratorie, calcolando in oltre duemila l’anno
i morti nei venti anni del millennio. Una stima che precisa essere “minima”, o
al ribasso. Non tenendo cono cioè dei migranti morti nell’avvicinamento alla
costa mediterranea, nei trasferimenti o nelle lunghe attese, spesso in campi di
vera e propria detenzione.
La stessa
organizzazione valuta il fenomeno migratorio inarrestabile, in conseguenza dei
processi di urbanizzazione e proletarizzazione accelerati in corso da un paio
di decenni in Africa e in Asia meridionale - nonché in alcuni paesi dell’America
Latina, il Perù in primo luogo, l’Ecuador e l’area caraibica.
Nel quadro
statistico-demografico dell’Organizzazione, il movimento migratorio non è solo
di espulsione ma anche di attrazione: l’Europa occidentale e il Nord America
sono aree di attrazione “naturale” per via del “inverno demografico”, della
denatalità. Dall’effetto tanto più pronunciato in quanto si produce in aree di
forte intensità produttiva.
In questo quadro,
perfino un paese a grande popolazione come la Cina comincia a soffrire di mancanza
di manodopera.
Volkswagen, Siemens,
Basf e molti altri gruppi tedeschi moltiplicano gli investimenti in Cina nel
dopo-covid. I maggiori con l’obiettivo di diventare “gruppi cinesi per la
Cina”, cioè per il mercato cinese.
Per i tre gruppi
citati il radicamento viene spiegato e promosso dai capi azienda, come piano
strategico. Il decoupling che l’amministrazione americana richiede nei
confronti della Cina viene attuato nel senso che la produzione la produzione
tedesca in Cina si vuole cinese – una sorta di decoupling aziendale.
“La Cina diventerà
una seconda sede mondiale del gruppo Volkswagen”, secondo i responsabili della casa
di Wolfsburg: “Non indeboliremo la nostra posizione in Cina esclusivamente per
motivi politici. Lo stesso per Ronald Busch, il ceo di Siemens. “Siamo un’azienda
locale in molti mercati. Produciamo localmente per i mercati locali, sia negli
Stati Uniti che in Cina”. Lo stesso il per il ceo di Basf, il gruppo chimico:
il mercato cinese “rappresenta già quasi il 50 per cento del mercato globale
del nostro gruppo” ed è un’economia “molto dinamica”.
Con la Russia e con
la Cina la Germania marcia come vuole il governo americano, ma “con juicio”.
Mantiene in vita, con le assicurazioni appena rinnovate, e con la manutenzione per la tratta in mare, il NordStream 2, la gigantesca condotta di gas dalla Russia, anche dopo il
sabotaggio fatto operare da Biden - la condotta è praticamente nazionalizzata, avendo Berlino rilevato le quote del socio russo, Rosneft, e nazionalizzato Uniper, il socio tedesco. E i carri armati Leopard 2 che ha deciso di
fornire all’Ucraina ha limitato a un reggimento, tre compagnie carri da 6 – un supporto simbolico,
poco utile militarmente, tanto più considerando
che un reggimento carri si ritiene operativo quando ne funzionano 12 su 18 (il tank
è un mezzo sensibile, nell’elettronica, la meccanica, i cingoli).
Cosenza “celebra”
con alcune ricerche e un convegno i bombardamenti americani del 1943, benché
città e comprensorio di nessun interesse militare. Questo il comunicato di Editoriale
Progetto, che edita gli studi e li presenta, di eventi ignorati dai più e comunque
rimossi, benché con molti morti e molti mutilati.
“Lunedì 12 aprile 1943 Cosenza veniva
bombardata dagli aerei americani; in quella incursione morirono 75 persone, tra
cui 5 scolari che uscivano dalla Scuola elementare dello Spirito Santo. La
morte arrivò dal cielo e nuove incursioni aeree colpirono la città con altri
lutti e feriti.
Nella storia recente di Cosenza, non c’è data come quella di
lunedì 12 aprile 1943 che possa raccontare un episodio più drammatico; nessun
cosentino avrebbe mai pensato che in un giorno di primavera dal cielo
piovessero bombe e morte. Nessuno fu risparmiato, dai più piccoli agli anziani,
ai negozianti, agli artigiani a quelli che lavorando alle ferrovie, erano tutti
intenti a trasportare le persone dalla città capoluogo ai vari paesi che fanno
da corona a Cosenza.
“C’era anche un circo equestre che aveva montato
le sue tende nei pressi del Crati, per strappare un sorriso a chi poteva
comprare il biglietto per lo spettacolo. Poi dall’azzurro del cielo… il nero
della morte, la distruzione, case bruciate, vite spezzate o mutilate, niente
più come prima.
“L’orrore della morte che veniva dal cielo si ripeterà per
altri 150 giorni; la brutalità della guerra non risparmiò i luoghi della
cultura e finanche ospedali, orfanotrofi, conventi e chiese”.
Le notizia della guerra
in Ucraina danno conto di morti qua e lì, sotto i missili, una dozzina qui, una
dozzina lì, talvolta anche bambini, e sembra una catastrofe. E lo è. Ma sono poca
cosa a fronte dei bombardamenti che una semplice città, non al fronte, non base
o obiettivo militare, nella remota Calabria, come già in Sicilia prima dello
sbarco, e dopo, ebbe a soffrire.
La storia dei
bombardamenti, che non si fa, è peraltro solo una piccola parte della storia della
Liberazione che non si fa. E dei successivi, anche attuali, assetti internazionali,
specie dell’Europa.
Due racconti d’avventure
senza avventure. Due feroci parodie. “Il principe Racoczi” del solito intrigo
di terroristi e spie a Ginevra. “Il capitano misterioso” del compotto, per
sentito dire: dell’avventura che nasce in piazza, basta uno sconosciuto che l
traversi in macchina, una “piccola vettura” che si fa vedere “ogni giorno e proprio
durante l’ora più calda; o per meglio dire la si sarebbe potuta vedere, se ci
fosse stato qualcuno fuori di casa” a quEll’ora.
Il primo racconto,
di bombe che viaggiano fra spie, terroristi, e e zii ignari, prende un po’ di
sale come parodia dell’esperienza che Pizzuto stesso ebbe a vivere come funzionario
del Quirinale addetto alle riuonini periodiche dei servizi internazionali di
sicurezza: una presa in giro della intelligence (sic, già allora) – di cui
ora si fa invece grande spolvero, come di una scienza, ci sono pure corsi
univevrsitari appositi.
Due racconti del
primo Pizzuto, 1949-1950, quando ancora non aveva sposato l’incomunicabilità –
il romanzo delle parole, dei suoni più che dei singificati (“La Signorina Rosina”
e seguenti). Ma già corrosivi. Demistificanti dello storytelling, destrutturanti.
Pizzuto ancora non si prendeva sul serio – non erano ancora anni di avanguardie
lettearie, di demolizione del testo.
I due racconti
sono stati esumati dalla figlia Maria. Il primo era uscito in “Mediterranea”,
Almanacco di Sicilia, 1949 (un volume di 632 pagine, molto illustrato, strenna del Banco di Sicilia), il secondo nello stesso almanacco, l’anno dopo. Entrambi
sotto lo pseudonimo di Sallino Sallini, che è una storia a parte – è il nome
di capobrigante italo-boemo, di un romanzo tedesco di spiriti e ladroni di metà
Ottocento.
Antonio Pizzuto, Due
racconti di Sallino Sallini, All’insegna del pesce d’oro, pp. 69 (maremagnum)
€ 15)
Sempre meno addetti nell’industria metalmeccanica, il
cuore del settore industriale, meno pagati. È il tratto dell’Italia al semplice
confronto, sindacale (Fiom-Cgil e Fim-Cisl), con la Germania.
Gli occupati nel settore erano nel 2020 in Germania
4.769.000, contro i 1.943.000 in Italia. Dove ogni metalmeccanico aveva lavorato
in media 1.553 ore, contro le 1.389 di un metalmeccanico tedesco – 164 ore in
più, quasi un mese di lavoro. Con una produttività ben superiore in Germania:
57 euro di valore aggiunto per ogni ora di lavoro in Germania, 39 in Italia.
Una produzione, in Italia, meno qualificata. E –
perché – parcellizzata. Cioè con investimenti in macchine e tecnologie
inferiori, e retribuzioni inferiori. “La composizione dimensionale delle
aziende” vede in Italia “principalmente aziende medio piccole (“in media 11
dipendenti in Italia contro 42 in Germania”).
La ridotta dimensione aziendale ha effetti anche sui premi
di produzione. La ricerca Fim-Cisl, su un campione di 867 aziende, con 288 mila
dipendenti, cifra un premio medio nel 2022 di 2.171 euro. Ma con una grossa differenza,
quasi di due a uno, fra i 2.470 euro delle imprese con più di 600 dipendenti, e
i 1.272 delle imprese con meno di 100 dipendenti. Il nanismo dimensionale è un
freno agli investimenti, e anche alla crescita salariale.
Un numero straordinario
di attori di richiamo per “santificare” le feste comandate, Natale, Capodanno,
San Valentino, 8 marzo. Un film a episodi: quattro storie in agrodolce, che i
due registi, soggettisti, sceneggiatori, attori si sono divisi equamente, di
liti furibonde, tradimenti complicati, femminismi esasperati, e un Capodanno
magistrale, sulla traccia di “Andare verso il popolo”, di Moravia dei “Raconti
romani”.
Non si ride, ma si
sorride, non c’è angolo riposto di abitudini, modi di fare, modi di dire, pregiudizi,
presunzioni, per quanto scervellato e masochista, che non sia dispiegato. Di
felice inventiva lessicale e psicologica. In dialoghi svelti, informati,
minuziosi, delle abitudini quotidiane, dei vizi si direbbe – il Bruno no-wax
del santo Natale non si perde una piega.
Programmato per
Capodanno, può avere guastato le feste di molti – non se ne sono fatte molte recensioni,
non laudatorie. Che però sono affluiti lo stesso in gran numero, a credere alle
cifre degli incassi. Una vecchia formula del cinema italiano forse sempre
vitale.
Edoardo
Leo-Massimiliano Bruno, I migliori giorni, Sky Cinema
Giuseppe Leuzzi
Sudismi\sadismi
Il giornale “la Repubblica” dice che il governo è in difficoltà con la
Ue sulla realizzazione del cosiddetto Pnrr. E illustra la cronaca politica con
una grande vignetta, firmata Ellekappa, che ne fa una questione meridionale,
cioè di corruzione: sotto il titolo “codice d’onore” un imbonitore assicura:
“miliardi e miliardi di appalti senza gara, senza una minchia di controlli...”,
davanti a molte braccia protese, “Pnrr cosa nostra è”, “Amici siamo…”, “Povero
picciriddu, ti aiutiamo noi a spenderli…”. Poi dice che il razzismo non c’è – a
sinistra, che “la Repubblica” presidia, non solo nella Lega.
Lo stesso giornale sullo stesso tema dà spazio al sindaco di Milano
Sala, “che chiede che i fondi (del Pnrr, n.d.r.) si diano «a chi sa
investirli», come la sua Milano appunto”. Con l’aggiunta: “A volte sembro un
provocatore – ammette Sala – ma non lo sono”. È uno che passa per alfiere di
sinistra, progettava di farsi segretario del Pd, venendo dai ranghi di Letizia
Moratti, che lo fece manager. Ma questo è solo per confermare che il razzismo
non ha colore.
Devoluzione legale al Sud – diversamente colpevole
In attesa della devoluzione (“autonomia differenziata”) di Calderoli
per il Sud, c’è già, da un decennio, un diritto penale speciale per lo stesso
Sud: colpevole fino a prova contraria. Non un diritto, una giurisprudenza - ma
è la stessa cosa: né il Parlamento né l’opinione pubblica osano mettersi di
traverso.
Solitamente il diritto agisce in senso opposto: si è innocenti fino a
prova contraria – il delitto va provato. A Sud da provare è l’innocenza.
La prima garanzia d’innocenza a cadere, spiega Barbano ne “L’Inganno”,
è stato l’indizio della illiceità della ricchezza, del patrimonio accumulato da
una persona, quando si decise, trent’anni fa, che non è più necessario che sia
“notevole”: chiunque può essere perseguito per arricchimento illecito. La
seconda è stata, da quindici anni, la confisca del patrimonio di una persona
senza più una sua condanna, e nemmeno un rapporto di polizia che ne adombri la
pericolosità sociale: si può confiscare tutto come si vuole, a giudizio dei
prefetti – le polizie si limitano a portare le pezze d’appoggio, anche
falsificandole. Il terzo è la “confisca di prevenzione retroattiva”, anche dopo
la morte dell’indiziato, anche “a distanza di decenni”. “La terza (in realtà la
quarta, n.d.r.) garanzia abolita è quella che circoscrive il perimetro della
mafiosità…. Se i tribunali ordinari hanno esteso la colpevolezza dalla
partecipazione organica alla mafia al concorso esterno, inventandosi di sana
pianta un reato che il legislatore non ha mai scritto, i tribunali di
prevenzione hanno esteso la pericolosità del concorso esterno a una contiguità
generica sondata con gli strumenti della sociologia. Così nel giro di pochi
decenni sono arrivati a confiscare beni agli incensurati, agli assolti perché
il fatto non sussiste, alle vittime della mafia sottoposte al ricatto del
pizzo, ai terzi in buona fede, fino agli eredi ignari” – “l’assoluzione non
esclude la confisca”. C’è di peggio della mafia?
Il giudice meridionale ha molte sorelle
Una (simpatica) macchietta Tina Pizzardo, l’ex musa di Pavese, fa nelle
memorie, “Senza pensarci due volte”, pp. 219-221, del giudice mandato a Torino
da Roma, dall’Ovra secondo le badanti carcerarie, la polizia segreta di
Mussolini, a giudicare il Gruppo di Giustizia e Libertà arrestato il 15 maggio
1935. Tina ha passato “più di un mese in carcere” quando la chiamano “dal
Giudice istruttore”. Che nel vederla ha “un moto di meraviglia, di delusione”.
Di cui si farà questa ragione quando saprà, alla liberazione, che ognuno degli
altri tre arrestati, perché in collegamento con lei, aveva detto “che
frequentava casa mia perché innamorato di me”. Da qui la delusione del giudice, non essendo
Tina la “donna fatale” che si aspettava - anche perché vestita come al momento
dell’arresto, da maestra che va a insegnare dalle suore, “in classica camicetta
banca e severissimo tailleur grigio-ferro”, da orfanella diremmo noi, risultato
“una vivace e schiva zitella un po’ mascolinizzata”. Inoltre, dopo tanto
carcere, con i capelli cresciuti e arruffati, tenuti a bada in treccine legate
con lo spago. Ma, sorpresa, presto “il moto di meraviglia è seguito da
un’espressione di sollievo”. E perché? “Il giudice, che è meridionale, diffida
delle torinesi seducenti, non di quelle occhialute con treccine”. E perché?
Tina s’inventa che, “avendo ormai trentadue anni”, è sembrata al giudice
in seconda battuta una in cerca di marito. Convincendosi che quei tre li “tiene
a bada per fare una scelta ponderata”. E questo lo ha commosso, il “giudice
meridionale”: “Il Giudice deve avere una caterva di sorelle da accasare, perché
consente con simpatia”. A tutto quello che Tina gli impapocchia. Le crede.
Anzi, la consiglia: “Pavese è da scartare, un presuntuoso”, “Maffi deve essere
un gran bravo figliolo, però ha troppa voglia di ridere e giocare, e non ha una
posizione”. Il terzo, Henek, polacco, che Tina sposerà, è “l’unico serio, che
da affidamento: un gentiluomo”.
L’istruttoria comunque le è andata effettivamente bene, Tina, che è
l’unica perseguibile, i fogli antifascisti essendo stati trovati in casa sua, è
prosciolta.
Il giudice non è vero - non dell’Ovra – ma fa un bel personaggio.
Credibile malgrado tutto – malgrado le formule di rito (“Lei non sembra
meridionale”).
Craxi e Berlusconi nascosti nell’agrumeto
Craxi e Berlusconi battevano la Piana di Gioia Tauro, soli, a piedi,
tra gli agrumeti, nel 1978, per cercare voti e soldi della ‘ndrangheta. È un
episodio della malagiustizia che Alessandro Barbano evoca in “L’inganno”, e
vale la pena circostanziare.
Intanto, gli agrumeti c’erano, questo è vero, nel 1978. La notizia dei
due pellegrini è invece del Sostituto Procuratore di Reggio Calabria Giuseppe
Lombardo, comunicata a ottobre al processo in Appello per l’assassinio nel 1994
di due Carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Craxi e Berlusconi non
c’entrano con gli assassinii, ha argomentato il Procuratore, ma sì per avere
“insanguinato questa nazione tra il ’91 e il ‘94”.
Di Craxi e Berlusconi parla, nei documenti del giudice Lombardo, nel
2009, per sentito dire, un pentito poi morto, Gerardo D’Urzo. La stessa notizia
è ripresa in un verbale del 10 marzo 2021 da un altro pentito, Girolamo
Bruzzese, che 43 anni prima, quando aveva quindici anni, li aveva visti
nell’agrumeto di un Peppe Piccolo, dove il padre latitante si nascondeva, con
un Piromalli, capomafia di Gioia Tauro. Bruzzese ne sa di più, aggiunge
infatti: “Alloggiavano, penso in incognito, all’hotel 501 di Vibo Valentia” –
il “501”, da poco aperto, era diventato subito famoso per avere “rubato” Miss
Italia, il concorso, a Salsomaggiore, roba di vamp.
Per trovare “chi e perché ha insanguinato questa nazione tra il ’91 e
il ‘94”, il Procuratore Lombardo ha chiesto una verifica, continua Barbano, il
3 marzo 2022, alla Direzione investigativa antimafia. Ricevendone sei mesi dopo
un’informativa di 170 pagine, “in cui”, sempre secondo Barbano, “attorno alle vicende
della ‘ndrangheta reggina è riscritta la storia d’Italia e del mondo dal
dopoguerra a oggi”. Un capitolo s’intitola: “La politica estera
filostatunitense e il suo declino: dal riformismo craxiano alla crisi di
Sigonella”. Opera di un commissario capo dell’Antimafia, Michelangelo Di
Stefano. Dove si afferma tra l’altro che “alcune lobbies di potere interno con
frange deviate dei nostri servizi d’informazione avrebbero condizionato la
rielezione del presidente uscente Carter, favorendo l’elezione di Ronald Reagan
nelle presidenziali americane del gennaio 1981”. Le elezioni in realtà furono
il 4 novembre 1980, ma non importa. È la teoria dello “Stato parallelo”,
conclude Barbano, dello Stato-mafia.
Però, Craxi, alto uno e novantadue, e Berlusconi coi sopratacchi
nell’agrumeto fanno una bella scenetta. Appiedati, a braccetto?, sperduti nella
campagna - molta gente sa genericamente dov’è la Calabria, pochi dov’è Gioia
Tauro, che comunque non ha agrumeti (gli agrumeti sono – erano – a Rosarno,
altra ‘ndrangheta, niente Piromalli, e da tempo sono scomparsi per fare posto
al porto, alle servitù del porto, e a un deserto di molti kmq., detto zona
industriale). Con le scarpe inzaccherate, è da presumere, perché gli agrumeti
vengono in zona umida. Ma se era primavera col profumo della zagara. Craxi, segretario da un anno o due del partito Socialista, non lo controllava, non ancora. Berlusconi, immobiliarista di riconosciuta abilità, aveva una tv cittadina, Telemilano, per abbonati via cavo entro la città, come la legge imponeva, che usava a scopo promozionale, per vendere Milano 2 che intanto costruiva.
Non è il solo racconto meraviglioso di Barbano – di cui il sito si è
giustamente occupato con approfondita recensione.
(continua)
leuzzi@antiit.eu
Dopo Huawei, TikTok: l’amministrazione
Biden ha messo sotto torchio l’amministratore delegato Shou Zi Ciu, accusandolo
di raccogliere dati per il regime cinese sui suoi utenti americani – TikTok continua
a essere l’app più utilizzata in America.
In alternativa, una legge si prepara
per bloccare, per motivi di sicurezza, le app cinesi preferite dai consumatori
e gli utenti americani, un Restrict Act, su iniziativa parlamentare Democratica. I due siti di vendite che si sono affermati sula scia
di Alibaba, Shein e Temu, da quattro mesi i più utilizzati dai consumatori americani,
provano a “denazionalizzarsi” per evitare il blocco. Shein, la catena di approvvigionamento
più utilizzata, ha trasferito la sede prima a Hong Kong, poi a Singapore. Temu,
la piattaforma specializzata nella fornitura di prodotti cinesi a basso e
bassissimo costo, ha preso sede a Boston, e domicilio legale nel Delaware.
Gli Stati Uniti ripetono
con la Cina la guerra commerciale condotta contro il Giappone a cavaliere del 1980.
Allora la guerra era alle automobili e all’elettronica di consumo. In
particolare, si ricorda per le videocassette l’imposizione come standard internazionale
dell’ingombrante VHS, invece delle compatte e
eleganti cassette Sony.
Un rifacimento che
non ha nulla dei precedenti, né la passione del primo film, protagonisti Spencer
Tracy e una giovanissima Liz Taylor, né del secondo, da ridere, con Steve
Martin. Qui è un matrimonio tra latinx, come la nuovissima grammatica gender
free li vuole, tra latino-americani, ma ben diversi tra di loro, cubani e
messicani. Una sorta di ritratto sociale, del multiforme mondo latinoamericano
in America.
Una storia più acre che lieve. Su stereotipi, probabilmente, che però sono
nuovi e quindi significanti. Un po’ come il “Grosso grasso matrimonio greco”
portava sulla scena una porzione sconosciuta dell’America, presente ma ignota –
e questo è curioso, poiché i latynx sono ben un 19-20 per cento della
popolazione americana, e in Florida molti di più.
Una famiglia cubana
e una messicana vengono a contato per un matrimonio. Con un Andy Garcia
irriconoscibile, maturo architetto che si è fatto da sé, approdato negli Usa da
Cuba ragazzino su un barcone, che si è mantenuto agli studi con lavori meniali, architetto
a lungo senza clienti, e ora fra i più apprezzati, è il padre della sposa. Che
si presenta all’improvviso fidanzata, da New York dove si è confinata, e anzi con
un matrimonio da celebrare a breve, con un ragazzo messicano. Celebrare per modo
di dire, senza chiesa, senza benedizione, senza niente. Un racconto del rapido
avvicendamento di fedi e valori. Il finale è purtroppo hollywoodiano nella
maniera più melensa, ma il ritratto comunitario, di due comunità, è apprezzabile.
Gary Alazraki, Il
padre della sposa – Matrimonio a Miami, Sky Cinema
“Mi è spesso stato
chiesto”, dice Thatcher in un’intervista immaginaria ricostruita da Fulvio Cammarano
su “La Lettura” con brani tratti dai suoi libri, “come ci si sentiva a essere
un primo ministro donna. Io ho sempre
risposto: «Non so, non ho mai sperimentato l’alternativa»”. La domanda era
maschilista? O femminista?
Il Corriere della
sera” apre l’incriminazione di Trump, un fatto grave di diritto
costituzionale e di scontro politico, in regime di libertà legale, con un’intervista
alla pornostar che da alcuni anni ci marcia,
proponendosi per interviste a pagamento ai giornali, e cause civili per danni -
che inevitabilmente perde (ma agli avvocati a percentuale, contingency lawyers,
sono in America falangi). Paghiamo il giornale per un’intervista pagata, a
una pornostar, per una difesa della democrazia, e dei diritti delle donne? Per sprezzo
del ridicolo, e del lettore?
Una ricattatrice mette
a rischio la pace in America, e la stessa funzione democratica - nonché la pace
razziale, il suo patrono essendo un giudice afro-americano – dopo essere stata
rifiutata da altri tribunali. Si dice che la democrazia americana è in crisi,
ma lo si dice da molto tempo. Da Nixon, da Reagan, da Trump. Minata da complotti
a ripetizione. Da ultimo un Russiagate commissionato a una ex spia inglese
dalla Fondazione Clinton. Di più lo è all’esportazione. Nel Kosov, in Afghanistan,
in Iraq, in Egitto, in Libia – ma anche in Italia: pagava la Democrazia
Cristiana, ha combattuto Craxi, ha spiato tutti i governanti degli anni
Duemila.
Il giornale “la
Repubblica” è angosciato per lo smashburger (?) di Bastianich, se è buono
oppure no. Confronta, e fa confrontare dagli specialisti, quello servito a Roma
all’apertura di apposito locale, con quello che si serve nel locale di Milano
già attivo. Ma una volta, non molti anni fa, quando fu introdotto da MacDonald’s,
l’hamburger non era cattivo – grassi, unto, puzze? E americano poi.
“È troppo
rischioso tentare il furto nel corridoio principale della stazione” Termini,
spiega lo stesso giornale, presidiato dalla polizia, “allora le giovani rom
costrette dai loro mariti a rubare per mantenere la famiglia….”. Costrette dai mariti?
A rubare “per mantenere la famiglia”? Si fa il giornalismo in clausura, nei
conventi buoni?
Crozza ridicolizza
Fitto che dice che alcuni progetti Pnrr vanno rivisti, altrimenti impraticabili,
Nel mentre che da Bruxelles si fa sapere che già sono stati analizzate e approvate le prime revisioni predisposte da tre paesi (tra essi Francia e Germania, n.d.r.), e che quando
l’Italia presenterà i nuovi piani, questi saranno valutati per la loro fattibilità.
Il tema non è da ridere insomma. Nemmeno Fitto – se non per un difetto di
pronuncia che Crozza involgarisce come difetto “meridionale”. Ma fa scompisciare
il pubblico. Un pubblico del Pd? I giovani non sanno “un cazzo”, per parlare come
Crozza? E per chi fa un comico allora la satira?
Nel 1991, a
Londra, “al G 7 prevalse la linea degli Stati Uniti e del Regno Unito: l’Occidente
si rifiutò di concedere a Gorbaciov un prestito intorno ai 500 milioni di dollari”,
racconta a Montefiori su “7” l’ambasciatore Baldini, già consigliere
diplomatico di Craxi. Al g 7 di Tokyo, due anni dopo, “l’Occidente che aveva
rifiutato mezzo miliardo a Gorbaciov ne concesse sette a Eltsin”, per “attuare il
mercato”. Eltsin che aprirà la strada alle mafie, agli oligarchi, e poi a
Putin, l’inevitabile uomo d’ordine.
Agli ottant’anni,
Baldini si concede qualche indiscrezione. Dopo Sigonella, “a palazzo Chigi
l’ambasciatore americano Maxwell Rabb venne a parlarmi pretendendo che consegnassimo
loro Abu Abbas, pur senza alcuna prova della sua colpevolezza. Al mio rifiuto
Rabb mostrò i pugni dicendo: «La pagherete!»”.
Von der Leyen si
accorda con la Germania per i motori a scoppio nell’età dell’elettrico. E con
Macron per andare in Cina. Cioè? Meno male che non c’è più la Gran Bretagna: si
sarebbe accordata con Sunak per il nucleare, o col re Calo III? Non è un’Europa
a due velocità, non è niente.
“Bill Bryson,
giornalista e scrittore statunitense, è autore del celebre libro ‘Una
passeggiata nei boschi’, in cui svela paradossi e meraviglie dell’arte di
camminare”. E si vede in fotografia camminare in campagna con le mani in tasca.
Camminare con la mani in tasca? In campagna?
Sconcertato dalla
Svizzera, che rimborsa gli azionisti (arabi) della banca fallita, ma non gli
obbligazionisti, e dalle banche americane, un quarto delle quali non assicura i
soldi dei depositanti, Ferruccio de Bortoli si chiede: “Perché le democrazie
rappresentative non riescono a domare questi eccessi?” Come perché? Perché saranno
pure rappresentative ma non democratiche – chi ha soldi si paga l’opinione con
i media, e con i contributi volontari e le fondazioni quelli che fanno le leggi,
parlamentari e governanti.
Pia Klemp, la
comandante della nave “Louise Michel” adattata da Banksy al soccorso ai
migranti nel Mediterraneo, sotto processo in Italia per traffico di immigrazione
clandestina, è premiata a Parigi, così come già Carla Rackete, con un’onorificenza
dal Comune di Parigi. Dalla Francia, cioè, che gli immigrati persegue a fucilate
nelle Alpi Marittime, e tiene prigionieri in un lager a Calais. C’è molta ipocrisia
in questa “avventura”, a danno soprattutto delle donne africane – arrivano più
donne che uomini”, dice il medico di Pantelleria, “soprattutto gestanti”.
La rivoluzione che
non ci fu. Delle masse al potere. In un’organizzazione gerarchica che le vedeva
alla pari con gli iteressi capitalistici e imprenditoriali. All’indomani del
grande crac del 1929. In una con le riflessioni che in Germania Ernst Jünger
andava svolgendo e troveranno presto sbocco ne “L’Operaio”: l’unità sociale
attorno al lavoro, alla manifattura. Il corporativismo.
Una rivoluzione mai
tentata, se non formalisticamente in Italia. Anche irrisolta sul piano teorico.
Ma felice com intuizione – e come tale vedrà una ripresa negli anni 1980, in Germania, Giappone Stati Uniti, marginalmente anche
in Italia, sempre sul piano teorico.
Il concetto si fa
luce a metà 1930, in un volume celebrativo voluto da Mussolini, “Lo Stato
mussoliniano e le realizzazioni del fascismo nella nazione”. “Gli unici saggi
propriamente politici”, spiega Gentile, “e complementari, erano i primi due”
del volume, “quello di Rocco sulla trasformazione dello Stato e quello di
Bottai sullo Stato corporativo”. Il fascismo è lo Stato, argomentava il giurista.
“Volendosi definire lo Stato fascista”, aggiungeva Bottai, “distinguerlo dalle
altre forme dello Stato, già storicamente realizzate, si dice che esso è uno
Stato corporativo”. Cioè, “uno Stato a composizione sindacale e a funzione
corporativa, in quanto come Stato veramente sovrano intende adeguarsi alla
società civile…., e come Stato avente scopi propri, distinti da quelli della
società civile, ha per finalità permanente di creare attraverso la propria
azione, e di realizzate storicamente, l’unità morale, politica ed economica della
Nazione”.
Bottai era già
ministro delle Corporazioni, ma la materia era – e resterà – ancora confusa. Ne
tenterà su “Critica fascista”, che dirigeva, ripetutamente l’elaborazione. Ma presto
vene a cadere l’appoggio politico, malgrado la costituzione, il 20 marzo 1930,
del Consiglio nazionale delle corporazioni. Mussolini condivideva l’impostazione
ma, spiega Gentile, “non si faceva illusioni sulla conversione degli
industriali al fascismo e al nuovo ordinamento
della produzione, sotto l’egida dello Stato” - «anche se li copriamo di tessere
– disse il duce commentando il rapporto del federale di Torino del 15 gennaio 1930
– non li dobbiamo credere fascisti; non accettano la concezione del Fascismo e
meno che mai quella sindacal-corporativa”. Nel clima odierno, benché per più
faglie scricchiolante, il corporativismo di direbbe un’aberrazione, “fascista”.
Emilio Gentile, Storia
del fascismo – 13. Gerarchi, masse, popolo, GLF-“la Repubblica”, pp.
159, ill. € 14,90