skip to main |
skip to sidebar
spock
“La passione si spegne appena è soddisfatta”, Madame de
Lambert?
“L’amore, senza timori e senza desiderio, è senz’anima”,
Id.?
“C’è sempre una specie di crudeltà nell’amore””, id?
“L’amore si nutre di lacrime”, id.?
“Lo spirito che dà l’amore è vivo e luminoso”, id.?
“Niente può piacere allo spirito che non sia passato dal
cuore”, id.?
spock@antiit.eu
L’altra
settimana il “New Yorker” ha scelto di commemorare la Pasqua dei cristiani con
un vecchio saggio di Gopnik, la sua firma di punta. Che pone la questione di
cosa è reale e cosa no nei vangeli. Partendo dalla constatazione che il
racconto di Gesù è “una costante editoriale e una passione popolare”.
Se
non che Gopnik pone i problemi, e ne presenta le interpretazioni più aggionate,
ma sulla linea delle “toledoth Yesu”, i commenti puttosto aspri, quando non satirici
o blasfemi, sulla vita di Gesù. Che Riccardo Calimani, “Gesù ebreo”, dice “racconti di matrice ebraica carichi di
diffamazioni contro Gesù Cristo e contro il primo
cristianesimo, una sorta di antivangelo a uso interno, ironico, dissacrante,
sarcastico” – interno, cioè familiare (racconti e interiezioni correnti
anche nell’ebraismo romano, fra gli “ebrei del papa”, il rabbino Di Segni ne
aveva fatto a suo tempo una raccolta e uno studio, “Il vangelo del Ghetto”). Il
che non è strano, molte vite di Gesù sono di questo tipo. Strano è che Gopnik,
che la sua biografia dice di famiglia ebraica, mostra di farlo
inavvertitamente, involontariamente.
Non
ci sono ingiurie in questo scritto, tanto meno bestemmie. C’è un divertito
excursus delle fonti storiche su Gesù, fino alle più recenti – come sono
cambiate. E un paio di divertiti lapsus di traduzione, errori che si sono tramandati
par secoli, come verità di fede. Senza infierire, anzi con apparente maganimità:
“Le intrattabili complessità di fatto producono le inevitabili ambiguità di
fede. Più si sa, meno si sa”. Senza ironia? L’invitabile apparentamento con
Buddha qui viene esteso a Gandhi e a Sherlock Holmes. Non c’è una maniera laica
di approcciare vita e opere di Gesù – che qui non è mai Cristo, come fu a
Pasqua?
Adam
Gopnik, What did Jesus do?, “The New
Yorker”, 9 aprile 2023
Ian
McEwan, che pubblica un saggio su Orwell, “Lo spazio dell’immaginazione”, dice a
Cristina Taglietti su “La Lettura”: “Non ho dubbi che oggi combatterebbe in Ucraina”.
Improbabile. Volontario entusiasta, Orwell fu presto deluso dalla guerra, anche
minacciato dai suoi stessi compagni, gli stalinista, o marxisti-leninisti, nel maggio catalano che segnò l’eliminazione
degli anarchici (tanti) e dei (pochi) “trockisti” del Poum, nel quale si era inquadrato,
e segnò l’inizio della fine della Repubblica. Non fece un anno di guerra. E ne
scrisse subito criticamente: l’“Omaggio” fu pubblicato, nel 1938, un anno dopo
il ritorno a Londra, con la guerra civile ancora in corso. E scrisse con levità
di tratto, che fa la lettura ancora interessante. Ma la verità del suo racconto
è nel ritorno in patria: “E
finalmente l’Inghilterra: l’Inghilterra meridionale, forse il più mite
paesaggio del mondo. È difficile, quando la si attraversi, soprattutto mentre
ci si riprende dal mal di mare, col velluto di un treno internazionale sotto la
testa, credere che qualcosa stia accadendo nel mondo… L’Inghilterra della mia
infanzia: la linea ferroviaria scavata nella parete rocciosa e nascosta dai
fiori di campo, i prati profondi dove i grandi cavalli lustri pascolano
meditabondi, i lenti rivi orlati di salici, i verdi seni degli olmi, le peonie
nei giardini dei cottages; e poi l’immensa desolazione tranquilla
della Londra suburbana, le chiatte sul fiume limaccioso, le strade familiari, i
cartelloni che annunciano gare di cricket e nozze regali, gli
uomini in cappello duro, i colombi di Trafalgar Square, gli autobus rossi,
i policemen in blu: tutto dormiente del profondo, profondo
sonno dell’Inghilterra, dal quale temo a volte che non ci sveglieremo fino a
quando non ne saremo tratti in sussulto dallo scoppio delle bombe”.
Appena
tornato aveva pubblicato un articolo disilluso, “Sono stato testimone a Barcellona”, sulla
rivista “Controversy” in agosto.
In
questo “Omaggio alla Catalogna” la partecipazione di Orwell si condensa nella prima
pagina, nell’incontro col volontario italiano, ignoto ma dalla stretta di mano generosa,
confidente, che dà un senso alla guerra. Questo “soldato
italiano” ritornerà negli appunti successivi, “Looking back on the Spanish
War”, 1943, come una delle due immagini che la guerra automaticamente genera in
Orwell. Una è l’ospedale di Merida, “l’altro ricordo è del miliziano italiano
che mi strinse la mano al corpo di guardia, il giorno in cui mi arruolai nella
milizia. Ho scritto di quest’uomo all’inizio del mio libro sulla guerra di
Spagna (“Omaggio ala Catalogna”, n.d.r.) e non voglio ripetermi. Quando ricordo
– oh, quanto vividamente! – la sua uniforme trasandata e la sua faccia fiera,
patetica, innocente, le complesse questioni della guerra sembrano svanire e
vedo chiaramente che non c’era comunque alcun dubbio su chi aveva ragione.
Malgrado i giochetti politici e le bugie giornalistiche, il punto centrale
della guerra era il tentativo di gente come lui di guadagnarsi una vita
innocente che sapevano essere loro diritto per nascita. È difficile pensare
alla probabile fine di questo specifico essere umano senza varie dosi di
amarezza. Quando l’ho incontrato alla caserma Lenin era probabilmente un
trockista o un anarchico, e nelle speciali condizioni di questi anni le persone
come lui quando non sono uccise dalla Gestapo sono di solito uccise dalla Gpu”,
la polizia politica staliniana.
Un lamento per i caduti
senza storia della guerra di Spagna, sul fronte giusto, repubblicano,
democratico, nel quale Orwell aveva militato, che è anche un lamento contro la
guerra, ogni guerra. L’omaggio è a una guerra inutile, anche se combattuta per un
ideale. Tanto idealismo, tanta generosità, che la stretta di mano del proletario
italiano volontario trasmettono, non
meritano la morte, la sfida della morte. L’immagine del volontario italiano
ritornerà anche in un poemetto, nove quartine, “The Italian Soldier shook my
Hand”: uno che “era nato sapendo già
quello che io avevo imparato\ dai libri, e lentamente”. Una stretta che è
iniezione di coraggio, di vita: “Al tuono dei cannoni\ oh, che pace
ho conosciuto in quei giorni!”. Il tardo poemetto restò sommerso nel rifiuto di
Orwell antibolscevico. Anche se storicamente fondato: nella guerra di Spagna i
comunisti di Togliatti andavano al fronte contro le forze reazionarie come
contro gli “altri” socialisti. Orwell era fiducioso che la poesia avrebbe
superato questo rifiuto: “La faccia di quest’uomo, che ho visto per uno-due
minuti, mi rimane come una sorta di promemoria visivo di per che cosa la guerra
si faceva. Simbolizza per me il fiore della classe lavoratrice europea,
tormentata dalle polizie di tutti i paesi, gli stessi che riempiono le fosse
comuni dei campi di battaglia in Spagna e imputridiscono ora, a milioni, nei
campi di lavoro forzati”. Non lo dice, ma la guerra da volontario ha vissuto
come un incubo.
Il “miliziano italiano”
che apre questo “Omaggio alla Catalogna” ha segnato Orwell a vita per la carica
di umanità e di speranza. La guerra poi, nelle prime pagine, è come avrebbe
potuto vederla un italiano. Si capisce da altri “Ricordi della guerra di Spagna”,
prose variamente sparse. Pagine di fame, freddo, paura, non come ci hanno
abituati a vedere la guerra i film di guerra, di soldati scattanti, con le
scarpe lucide e armi tuonanti. Che ammoniscono, giova ricordarlo leggendo “Omaggio
alla Catalogna”, contro le rappresentazioni che della guerra danno i media, i
quali, spiega Orwell, scrivono ciò che “devono” scrivere, ognuno secondo le
proprie “fonti”. Una lezione, si vede, ancora da imparare.
La riedizione è curata
da Andrea Bonelli, specialista di inglese e traduzione.
L’edizione Newton Compton è ritradotta e presentata da
Francesco Laurenti, accademico di Teoria e Prassi della Traduzione.
George
Orwell, Omaggio alla Catalogna, Feltrinelli,
pp.336 € 13
Oscar,
pp. 280 € 19
Newton
Compton, pp. 320 € 5
letterautore
Amore – È francese, sostiene Madame de
Lambert – scienza, o meglio arte, francese. L’Italia addirittura lo ignora. È francese la “scienza” dell’amore, argomenta la
marchesa nelle “Riflessioni sulle donne”: “Bisogna convenire che non c’è che la
nazione francese che si sia fatta un’arte delicata dell’amore. Gli Spagnoli e gli Italiani lo hanno ignorato”
– le donne essendo nei due paesi “quasi rinchiuse”, gli uomini non se ne sono
dati pensiero.
Bolla – Quella finanziaria è termine
coniato nel 1720 per il “sistema Law”, l’economista scozzese esperto di speculazione
e di carta valuta, nominato per questo ministro delle Finanze della Reggenza francese, del duca d’Orléans.
Caffettano
– Fu l’abito maschile in Russia fino al primo
Ottocento – c’è nei racconti di Puškin. E anche dei polacchi (oggi in Polonia è
quasi abito cerimoniale, di un gruppo di ebrei ortodossi). Un lungo camicione,
derivato dalle tonache monacali, si presume, ma colorato, e arricchito da ricami,
balze, filamenti in argento e in oro. Pietro il Grande lo proibì, aggiungendo gli
abiti alla sua crociata per l’occidentalizzazione. Ma Puškin lo fa accogliere
il suo “negro”, l’amato figlioccio africano che aveva mandato a istruirsi in
Francia, vestito con un “ampio caffettano”.
Tradizionalmente
associato agli arabi e ai turchi, divenne diffuso a Costantinopoli inviato dal
Marocco, dove anche sarebbe stato mutuato dalle tonache monacali. Nel lessico
italiano la parola risale al Quattrocento, al “Morgante Maggiore” del Pulci,
VIII, 27.
Crimea – Un’intera raccolta di Adam Mickiewicz, il poeta polacco, è ispirata alla
Crimea, “I sonetti di Crimea”, che sentiva come “un Oriente in miniatura” -
un melting
pot di popolazioni, tutte più o meno orientali: ebrei, russi, khazari,
tartari, persiani, armeni.
Don
Chisciotte – Ha avviato il declino della Spagna, spiega Madame
de Lambert, nelle “Riflessioni sulla donna”: “Un autore spagnolo diceva che il
libro di ‘Don Chisciotte’ aveva perduto la monarchia di Spagna, perché il
ridicolo che ha sparso sull’onore, che questa
nazione possedeva un tempo a un grado molto eminente, ne ha rammollito e
snervato il coraggio”.
Imperialismo russo – Si teorizzò già due secoli fa, quando il risorgimento polacco
riacquistò vigore. Adam Mickiewicz, che era stato russofilo, e rimarrà grande
amico di Puškin, lo denunciò nel lungo poema “Digressio” nel 1832 - a seguito della insurrezione polacca del 1830.
Mickiewicz è considerato
poeta nazionale anche in Bielorussia, oltre che in Polonia e in Lituania – Puškin
si complimentava con lui, per esempio per “I sonetti di Crimea” come col “Vate
della Lituania”. Mickiewicz era nato nel vecchio granducato di Lituania, dell’Unione
o Confederazione polacco-lituana , attiva per quattro secoli, fino al 1795,
prima della terza spartizione della Polonia, fra Russia, Austria-Ungheria e Prussia.
Improvvisatore – Figura italiana, in russo, anche in inglese, di cui Puškin fa il
protagonista del racconto “Le notti egiziane”. Il poeta capace di improvvisare
a tema. Già Coleridge aveva pubblicato nel 1827 un breve dramma, proprio col
titolo “The Improvvisatore”. E poco dopo, nel 1833, anche in Russia Vladimir
Odoevskij aveva pubblicato un racconto con lo stesso titolo. Puškin ne fa il personaggio
principale delle “Notti egiziane”.
Un grande
improvvisatore, ammirato sia a Mosca che a Pietroburgo, era Adam Mickiewicz –
di cui Puškin resterà amico dichiarato anche dopo la critica dell’espansionismo
russo, fatta da Mickiewicz nel poema “Digressio” – Puškin se ne ispirerà per “Il
cavaliere di bronzo”. A un ricevimento a Pietroburgo nel 1826, Puškin sarebbe
rimasto talmente entusiasta secondo i
biografi da esclamare: “Che genio! Che sacro fuoco! Cosa sono io al confronto?”
Leonardo
- Era arabo? Lo sostiene il sito
fiortentininelmondo.it. Sulla base di uno studio condotto da Alfred Breitman e Roberto Malini del
Gruppo Watching The Sky”: “Lo affermano con grande convinzione Breitman e
Malini, in base ad alcune evidenze. La più importante è costituita dal
ritrovamento di un’impronta digitale di Leonardo sul dipinto “La dama con
l'ermellino”. Impronta che, “secondo l'antropologo Luigi Capasso….è caratteristica
del 60% degli individui provenienti dai paesi arabi”. Magari da un inserviente
arabo a bottega, che ha spostato incauto la tela? Capasso è un ortopedico, dell’università
di Chieti, con la passione delle ossa antiche – “da Ercolano a Roberto Calvi”,
il banchiere, spiega nel suo ultimo libro.
“L’ipotesi
di un origine araba del maestro non è tuttavia nuova”, continua il sito: “È risaputo
che il nome della madre di Leonardo, Caterina, era attribuito con frequenza
alle schiave arabe acquistate in Toscana e provenienti da Istanbul”. Non
distinguendosi più tra arabe e “circasse”
“Anche il
professor Alessandro Vezzosi, celebre studioso del Rinascimento”, finisce
fiorentininelmondo, “è convinto dell’origine araba dell’autore della Gioconda e
possiede documenti che suggeriscono l’origine orientale di Leonardo Da Vinci”.
Vezzosi in effetti, un pittore che si è fatto a Vinci un Museo Ideale Leonardo
da Vinci, con un Giardino di Leonardo e di Utopia, è autore di molti volumi su Leonardo, compresa “La Gioconda
Nuda”, e avrà pure opinato di un Leonardo arabo, va’ a sapere.
Ma ora c’è “Il
romanzo di Caterina”, che in 500 pagine definitivamente stabilisce che la madre
di Leonardo era una schiava, però circassa, come è giusto – sottinteso: bianca.
Del professor Vecce, che insegna Letteratura Italiana, ma è anche poeta, e
drammaturgo.
Milionario – La parola viene coniata nel 1720, a
Parigi, in francese, per designare i beneficiari del sistema Law, che non
sapevano dove mettere più i franchi. Fu inventato insieme con “bolla”, la “bolla
del Mississippi”, nome quasi fogazzariano, scoppiata nello stesso anno. Gli investitori nella Compagnia del
Mississippi, creata tre anni prima da Law per gestire lo sfruttamento della
valle del fiume, erano diventati tanto ricchi con la moltiplicazione del valore
nominale del titolo che non si sapeva come chiamarli altrimenti. Prima dello
scoppio della bolla – di fatto la compagnia gestiva campi di tabacco, e gli
schiavi per coltivarlo.
Occidente – Era l’Europa. In Grecia si diceva fino a ieri, per andare verso
Occidente: “Parto per l’Europa”. Poi l’Europa è stata soppiantata dalle Americhe
– con un pizzico di Russia: per “emisfero occidentale” la geografia intende il
Pacifico.
Poesia
– Cambia tono e ampiezza col passaggio al mercato.
Quando cioè, nel Sei-Settecento, senza più il patrocinio dei ricchi e potenti,
passa al mercato – ai librai, ai lettori, alle vendite. Puškin, avendo deciso
di vivere di scrittura, dopo l’abbandono dell’impiego pubblico che lo zar benevolente
aveva creato per lui, se ne lamenta, nel
poemetto “Conversazione tra un libraio e un poeta”, risolvendosi poi per un bon mot: “L’ispirazione non si può
vendere, ma si può vendere un manoscritto”. Lo steso problema si poneva in
contemporanea a Leopardi.
Russi
– Erano scandinavi? A lungo furono indecisi, nei primi decenni dell’Ottocento, dopo l’espansione
territoriale sotto Caterina II e la nascita di una letteratura europeizzante,
se definirsi di radici culturali slave oppure scandinave. Se ne trova traccia anche in Puškin, “La
storia del villaggio di Goriukhino”.
letterautore@antiit.eu
Il
titolo non sarebbe piaciuto alla marchesa, per lei n on c’era un “femminino”
identitario, cioè esclusivo. La teoria che le si deve, dell’“altra metà del
mondo”, è di una metà integrata e non pugnace, divisiva.
Si
riscopre la marchesa – già scoperta da Leopardi, che molto ci dialoga nelle
prime pagine dello “Zibadone”. D i fatto nuova solo per questo, per l’attacco
dei “Consigli”, che parte dalla constatazione semplice che le donne vengono trascurate
“senza pensare che compongono la metà del mondo”, e che non c’è uomo senza la
donna.
Una
lettura gradevole. Ma d’interesse solo nel personaggio: i consigli e le
riflessioni conservano interesse storico, di una donna che è protagonista
dell’intellettualità parigina della Reggenza, colta, ascoltata, e arguta. In
dialogo con Montesquieu, Fontenelle, l’abbé de Saint-Pierre, Marivaux, Bachaumont.
Dall’altra metà del mondo semplicemente riconosciuta, come chiunque che abbia
qualcosa da dire, pianamente, senza esclusioni o rivalse.
Le
due edizioni condividono due saggi, “Avvisi di una madre alla propria figlia” e le “Riflessioni nuovissime
sulle donne” - o “Metafisica dell’amore” . Marco Lanterna, che cura l’edizione
italiana, riprende anche “La bellezza
che salva il mondo” e il “Trattato della vecchiaia” – cioè, in pratica, della rassegnazione.
Nell’edizione francese, presentata da Benedetta Craveri, ci sono le
“Riflessioni sul gusto”.
Madame
de Lambert, L’altra metà del mondo.
Scritti sul femminino, La Scuola di Pitagora, pp. 128 € 15
Avis d’une mère
à sa fille,
Rivages poche, pp. 153 € 7,60
Fox News (Rupert
Murdoch) ha transatto per 787,5 milioni
di dollari la causa per danni reputazionali intentata da Dominion Voting Systems - che chiedeva 1,6
miliardi – subiti dall’emittente con la campagna sulla inattendibilità del voto
presidenziale di fine 2020. Il procedimento così non si è aperto. Ma resta il
dubbio se l’azione di Dominion aveva fondamento giuridico oppure è stata
avanzata a scopo promozionale.
Fox ha cercato la
transazione perché era certa della condanna, per gli orientamenti noti del
giudice monocratico .
La cifra pagata
da Fox per danni non ha precedenti, di gran lunga, nella storia giudiziaria americana,
che pure ha nelle cause per danni il campo prevalente di attività.
In vista del dibattimento,
si discuteva se l’azione promossa da Dominion non confliggeva col diritto d’opinione.
Ma i pareri erano divisi per opinione politica: le destre, repubblicane e non,
con Fox, i liberali contro.
Fox avrebbe
proposto la transazione, per quanto a cifra altissima, perché avrebbe comunque guadagnato
in audience attaccando il risultato
delle presidenziali 2020: la sconfitta di Trump ne aveva ridotto
considerevolmente la audience. Che
invece è tornata a crescere con la contestazione del risultato elettorale.
Una
miniserie di alto impatto emotivo, toccando lo sport, il settore dello
sport ritenuto il meno commerciale, l’atletica,
e nell’atletica la disciplina più francescana, la marcia. Protagonisti giovani
e belli. Con risultati sempre migliori. Finché non cadono nel doping: non propiamente nella
dipendenza, nella droga, ma nell’uso di sostanze energizzanti proibite, perché fisicamente
debilitanti, proibite dai regolamenti.
Questa
è la parte giusta della vicenda che la serie mette in mostra. Il suo senso, “ilcaso”,
è invece del doping istituzionale. Di
quando un ateta, Alex Schwazer, dopato confesso, scontata la pena ritorna a primeggiare,
e le federazioni internazionali dell’atletica, la Iaaf e la Wada, si mobilitano
per eliminarlo – la parola non è eccessiva – con un’analisi “doparta”. Con un
finto riscontro di doping in una finta analisi sulle urine di Capodanno.
Sembra
uno scherzo e invece è successo. Perché non è vero che l’atletica è vergine, il
gesto atletico è la punta di un iceberg
torbido, di interessi nazionali, di cordate politiche, e anche di
corruzione.
Massimo
Cappello, Il caso Alex Schwazer, Netflix
zeulig
Amore – È un rapporto. Senza
un ruolo attivo della donna, dice Madame de Lambert nelle “Riflessioni sulle donne”,
la marchesa, dell’Altro si direbbe oggi, “l’amore non è piccante; sembra che
sia l’opera della natura, e non quello dell’amante”.
L’amore è opera
degli amanti. “È un’arte”, dice la marchesa, per la quale ci vorrebbe una
scuola: “Ci sono tante scuole create per coltivare lo spirito, perché non
averne una per coltivare il cuore? È un’arte che è stata dimenticata” – già a
fine Seicento. Benché, più di altre, andrebbe coltivata: “Le passioni sono
corde, che hanno bisogno della mano di un grande maestro per essere toccate”.
Mentre succede il contrario. Allora, nel Seicento, probabilmente come sempre di
più successivamente, a parte la parentesi romantica: “L’amore non era denigrato
dagli Antichi come lo è oggi….Platone ha un grande rispetto per questo
sentimento: quando ne parla, la sua immaginazione si scalda, lo stile s’imbellisce;
quando parla di un uno colpito: Questo amante, dice, la cui perona è
sacra, etc. Chiama gli amanti amici divini, ispirati dagli
dei”.
Ma non era un amore
sessuale, come poi con l’America e Hollywood: “Gli Antichi non credevano che il
piacere dovesse essere il primo obiettivo dell’amore”.
L’amore, però, è resistenza più che
accettazione, secondo la marchesa: “La passione si spegne
appena è soddisfatta. L’amore, senza timori e senza desiderio, è senz’anima”.
Montaigne ne parla
come di un trasporto ingovernabile: “Mi sentivo rapito, benché vivo e sveglio (tout
vivant et tout voyant). Vedevo la mia ragione e la mia coscienza ritirarsi,
mettersi da parte, e il fuoco della mia immaginazione mi trasportava fuori di
me stesso”, Un fatto fisico, di ormoni.
Un fatto
spirituale nel Tasso, al canto II, 16 del poema, dove il giovane Olindo - “che
modesto è sì com’essa è bella”, essa Sofronia - “brama assai, poco spera, e
nulla chiede”.
Un esercizio
onanistico? Sofronia, invece, “vergine era fra lor di già matura\ verginità”.
Un trucido Shakespeare del sonetto trenta
e qualcosa - se è lui (che astuzia quell’esserci e non esserci) – vuole il suo
amore una tomba, adorna dei trofei dei vecchi amanti. L’amore sarebbe malsano? Esaltazione, per inconfessata avidità: il
Pirro di Racine è consumato da più fuochi di quanti ne aveva accesi. O era
Andromaca che si consumava? Andromaca è, come tutti i machos, di solito
uomini, una combattente - combatte gli uomini, la moglie e madre esemplare, i
ruoli erano in antico ambivalenti.
Sono gli uomini, sentimentali, che
eternizzano l’amore. Sono affaticati, gli uomini, e quindi ansiosi, possessivi,
inopportuni, insistenti, sudano, telefonano, mandano gli amici. Le donne per un
po’ ci stanno ma poi si stancano. Essendo pratiche e quindi ragionative - è la
schiavitù all’origine della filosofia? la vera filosofia si nasconde, e la
cattività spinge a non dichiararsi – rimettono le cose a posto: una toccatina
non è la fine del mondo, il resto è convenienza, la sottigliezza non s’addice
al cuore.
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, dell’amata
che non ama, dice Pavese, suicida. Gli occhi di chi? Dell’amata che non ama? La
mancanza d’amore può uccidere, ma gli altri, non se stessi.
Amore e odio è altro cliché. “L’Amore
viene dall’odio” è “opera mediocrissima” già in Stendhal. Raro è il suicidio
per il bene di chi si ama, spiega bene Rensi, l’egoismo viene prima. Per amore
si può anzi decidere di voler vivere, costi quello che costi. Se ci si uccide è
per astio - o è una bestemmia contro Dio o l’esistenza (una vendetta contro se
stessi, il suicidio è sempre odio di sé).
L’amore è “amore amato”, spiegava bene Ramon Llull, italianizzato in Raimondo Lullo, che pure
era un teologo, al tempo di Dante.
Dio – “Era dottrina
dei nostri maggiori\ che è per gli dei che si vive,\ essi ci hanno rimeritato\
(con il loro sacrificio ci han dato la vita)” – “Coloquios y
DoctrinaChristiana”, in Miguel León-Portilla, “Il rovescio della conquista”, p.
28. Così confidavano i savi e i sacerdoti aztechi sopravvissuti alla conquista
del Messico ai frati francescani accorsi nel 1540 nella Nuova Spagna. È però
vero che Moctezuma e i suoi savi e sacerdoti avevano visto in Cortès e i suoi
uomini degli inviati divini.
Felicità – Gianfranco
Ravasi sceglie di legarla a due poeti liguri, cioè “sommessi” (discreti,
contegnosi, non espansivi…), Montale e Sbarbaro. Alle immagini che ne ebbero in
gioventù: “Felicità raggiuta, si cammina\ per te sul fil di lama.\ Agli occhi
sei barlume che vacilla,\ al piede, teso ghiaccio che s’incrina”, Montale,
“Ossi di seppia” – e ancora: “Nulla paga
il pianto del bambino\ a cui fugge il pallone tra le case”. Sbarbaro:
“Felicità, ti ho riconosciuta al fruscio con cui ti allontanavi”. Immagini di
fragilità. Di “gracilità strutturale” dice Ravasi, che pure è cardinale, uomo
di fede.
Europa – Era il Vecchio
Mondo già nel Cinquecento.
Ridicolo – Se ne è persa
la cognizione, nella cura della persona, l’abbigliamento, le posture,
soprattutto l’eloquio, specie in tv, specchio dei tempi, e nei social, di parole
o di immagini – e le interviste seriose a una pagina a una squinzia, che parla
come Freud, o a un bullo, gente che parla come i tatuaggi. Senza più misura.
Per non dire degli onorevoli che dicono le frasi fatte, guardando fisso l’obiettivo,
veti secondi esatti.
Se ne perde il
senso con la libertà – la libertà è liberare i buoi?
Il senso del
ridicolo è stato forte quando la società era rigida. Per esempio la Francia di
fine Seicento-primo Settecento – se ne è fatto anche un film, “Ridicule”. Si
esercitava allora contro la saccenteria – oggi si direbbe l’intellettualità. Quindi
retrogrado. Anche perché è arbitrario – non ha canoni: dipende dai gusti, dalla
disposizione d’animo di ognuno, sia pure dei gruppi prevalenti, e dell’epoca,
dai linguaggi dell’epoca. Ma la sua assenza – la mancanza di una sensibilità
del ridicolo, del cosiddetto “senso del limite” - è generazionale e sociale: è
il terrapiattismo della parola, della démarche (contegno), dello
spirito.
zeulig@antiit.eu
Serata tranquilla
a “Report”, dove si dicono come ovvie cose turpi. L’ex dirigente della Juventus
Moggi, radiato dalla professione per corruzione, spiega che su 170 mila
intercettazioni, solo 25 riguardavano la Juventus, il suo operato.
Non c’era nessun
atto di corruzione degli arbitri a carico della Juventus, neppure un pranzo o
una cena – solo un biglietto omaggio in tribuna, e una maglietta. In compenso,
l’allora designatore degli arbitri Bergamo racconta in trasmissione di una cena a casa Moratti,
cioè dal presidente dell’Inter.
Moggi può anche
dire: “Berlusconi mi aveva avvisato che mi stavano intercettando ma mi disse di
non preoccuparmi perché non c’era nulla di penalmente rilevante”. Berlusconi,
cioè Galliani, cioè il potere non tanto invisibile del calcio, oggi come
allora, della Federazione e della Lega, “sapevano”.
E a proposito di pranzi
“Report” si è dimenticato di ricordare che l’uomo del Milan per gli arbitri, “addetto
agli arbitri”, questa la sua qualifica, il ristoratore Meani, parlava e s’incontrava
settimanalmente con l’arbitro Collina. Il quale parlava anche con Galliani –
finirà con un contratto pubblicitario Opel, che sponsorizzava il Milan.
Un film – per una
volta non americano - sul mondo “grigio” dell’informazione. E su un crimine
russo in Ucraina, lo “Holodomor”, la morte per fame - che l’Ucraina commemora
come crimine contro l’umanità: la storia della carestia degli anni 1932-1933,
che si vuole provocata da Stalin, dal regime sovietico di Mosca (la produzione
agricola veniva requisita per l’esportazione). Una carestia comunque provocata,
in un paese agricolo, con milioni di morti.
I due delitti,
dell’informazione e di Stalin, sono scoperti – vissuti personalmente - e denunciati
da un giovane reporter britannico, Gareth Jones. Uno che voleva l’alleanza con
l’Unione Sovietica e si reca a Mosca sicuro di potere per questo parlarne con Stalin.
Un ingenuo, che a poco a poco scopre che la rivoluzione non c’è, e nemmeno l’esperimento
sociale, solo una tirannia – “come?”, si chiede in continuo, “i giornalisti non
possono uscire da Mosca?”. O non proprio un ingenuo: la sua curiosità è come fa
l’Urss a spendere, per fabbriche, infrastrutture, merci, così tanto in anni di
depressione, terra promessa per l’industria britannica e l’industria americana,
dove prende i soldi. Ma da rivoluzionario sincero – andrà in Ucraina sui luoghi
dove la sua mamma, volontaria della rivoluzione, ha insegnato per qualche tempo
l’inglese ai bambini (nella realtà era stata istitutrice in casa degli imprenditori gallesi che avevano aperto il centro minerario di Donetsk, poi diventato la grande città di oggi, da un milione di persone).
Un film verità, in
un certo senso: di denuncia. Di fatti storici. L’ingenuo Jones circuito dai marpioni
sovietici, con ospitalità in primario albergo (il solito Metropol, vigilato
ancora negli anni 1970 dalle donne al piano), e controlli discreti. Il decano
dei corrispondenti stranieri, Walter Duranty, giornalista del “New York Times”,
premio Pulitzer proprio per le corrispondenze da Mosca, che negherà ancora fino
al 1937, al suo rimpatrio, l’Holomor - forse solo per cinismo: vive di droghe,
e aiuta obliquamente i giornalisti che sa in pericolo (la natura della carestia,
che c’è stata, è rimasta dibattuta ancora dopo la seconda guerra mondiale, malgrado
la “guerra fredda”, e tuttora non è pacifica, il Pulitzer non è stato ritirato
a Duranty).
Un film quindi in
un certo senso anch’esso americano, sui tranelli dell’informazione, dell’opinione
pubblica. Ma fatto in Polonia, da una quasi ottantenne Agniezska Holland, “Europa
Europa”, “Poeti dall’inferno”, “Io e Beethoven”, tornata dietro la macchina da
pesa per questo atto d’accusa contro Mosca, di Polonia e Ucraina per una volta
unite nella lotta. Realizzato nel 2018 e proiettato nel 2019 – non distribuito
in Italia, perché giudicato di poco interesse... Testimonianza di un’inimicizia
probabilmente incancellabile, ben prima della guerra aperta.
Indirettamente,
una testimonianza di come il bolscevismo era una rivoluzione sociale per
politici e intellettuali in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – e anche in
Francia. Riguardato con interesse e anche simpatia - a differenza che in Italia
e in Germania. In Francia ci sono voluti i viaggi di Céline, di Gide, organizzati
dagli stessi sovietici, nel 1936-37, per cominciare a sapere di che si trattava
(Céline era già informato di Jones, leggeva la stampa inglese e americana. In America e in Inghilterra il favore intellettuale è durato ancora dopo la guerra.
Jones morirà due anni dopo la denuncia, in Manciuria, vittima della sua guida,
che era dei servizi sovietici. Ma moriva incognito. Tra gli intellettuali,
compresi Graham Greene, e soprattutto H.G.Wells, che con la baronessa Budberg
sua amante, una lettone spia di Stalin, teneva salotto a Londra, il mondo nuovo
fu a lungo quello sovietico. Il film fa inconrtrare Jones con Eric Blair, “Orwell”
da giovane, anche lui socialista appassionato, che dalla vicenda avrebbe tratto
lo spunto, nel 1943-1944, ancora in guerra, con l’Urss alleata, per “La
fattoria degli animali”. Ma Orwell veniva sospettato all’uscita dell’apologo, a
Ferragosto del 1945, di essere un mestatore, uno spione di qualche servizio
segreto.
Agniezska Holland,
L’ombra di Stalin, Sky Cinema
Giuseppe Leuzzi
Il signor latitante
– o la lotta alla mafia
Più si va avanti,
per giunta stancamente, in questa vicenda di Messina Denaro più si resta
sconcertati. Come il giudice Montalto, uno specialista dei “concorsi esterni”, ma
anche di più. Che l’uomo più ricercato d’Italia frequentasse familiari,
parenti, amici, conoscenti. Girasse in automobile, da solo, senza staffette o
guardie del corpo, a rischio incidenti, o multe. Con più di una residenza. Uno
che faceva la spesa. E probabilmente andava al ristorante. Non ogni giorno,
certo, ogni tanto, come tutti. Con i suoi tratti fisionomici, senza maschere né
plastiche. E per contrasto, scorrendo il giornale, si legga delle indagini a
tappeto, con schieramento di almeno tre giudici della Procura di Torino, e di
decine o centinaia di Guardie di Finanza, per ascoltare, registrare,
selezionare le conversazioni quotidiane di decine di dirigenti e impiegati di una
squadra di calcio, per giorni, settimane, mesi, probabilmente anni, alla
ricerca, con insistenza, acribia, determinazione, di un qualche fumus delicti.
E questo è il quadro: al Sud si può delinquere impuniti, anche di delitti gravi
e gravissimi, mentre di una squadra di calcio si cerca anche il pelo nell’uovo.
Si dice che Messina Denaro è stato protetto dall’omertà. Non lo è stato (quanta
omertà ci sarebbe voluta nel suo caso? o, allora, si tratta di omertà dello Stato?), è stato protetto dal menefreghismo. La
stessa lentezza con cui la miriade di contatti “normali” del superlatitante emerge
dice che non c’era molto materiale già raccolto su di lui. Che si procede a
naso – a tentoni si direbbe nel falso toscano. Di fatto, senza interesse, senza
impegno, nemmeno “normale”.
Ma se l’omertà ci
fosse, di decine, centinaia di siciliani dell’agrigentino, quelli del
commissario Montalbano, e avesse protetto Messina Denaro, si capirebbe: non si
può fare il poliziotto contro lo “Stato” – c’è nei gialli americani, che il detective fa la giustizia che lo Stato non fa, ma sono
buffonate. Il servizio “I” della Guardia di Finanza, che controlla fino al
cosiddetto buco del culo della Juventus, a Torino come già a Napoli, non lo
permetterebbe.
Si potrebbe pensare
Messina Denaro protetto dall’incapacità. Ma lo stesso giudice Montalto ha
smosso montagne per avere i fratelli Graviano testimoni contro Berlusconi. Come
già la Guardia di Finanza con le sue perquisizioni quotidiane, e biquotidiane,
negli uffici e le residenze del tycoon milanese: quando si vuole si fa
l’impossibile. Il problema del Sud è che non ha Agnelli o Berlusconi, roba in
grado di stimolare il fiuto degli investigatori – non si fa carriera. Una volta
si diceva dei funzionari pubblici per un qualche motivo in disgrazia che sarebbero
stati mandati a Petralia Sottana, oppure “in Sardegna”. Si vede che non era, non
è, un modo di dire.
La bistecca
sintetica era già nata, e morta, a Reggio Calabria
Avvicinandosi
alla fine, il protagonista del romanzo di Rocco Carbone “L’apparizione”, 2002,
ritorna alla città natia, dal padre, e in macchina si spinge poi oltre, fino a
“una fabbrica, costruita a ridosso della costa, accanto alla spiaggia”, in
stato di abbandono. La città è Reggio Calabria, e la fabbrica è Saline Joniche,
costruita sotto Reggio Calabria perché senza spese, a carico dello Stato, per
la “chimica dei “pareri di conformità” dei governicchi andreottiani del compromesso
storico nei secondi anni 1970. Un luogo abbandonato che a Carbone è sembrato
propizio per ambientarvi l’esito tragico del romanzo.
Il protagonista del
romanzo “conosceva quel luogo”: “Era stato costruito quando lui era un ragazzo
ed era l’unico grande impianto industriale di tutta la regione. Avrebbe dovuto
produrre materiale biochimico, ma non era mai entrato in funzione, perché nel
lungo tempo impiegato per la sua costruzione si era scoperto che i rifiuti di
produzione erano tossici”. Il “materiale biochimico” era la “bistecca
sintetica”. Un derivato dal petrolio, su licenza della British Petroleum, che
però non l’aveva mai sperimentato industrialmente, per non sprecare
l’investimento.
L’impianto costò
la carriera a Guido Papalia, il magistrato che s’illustrerà a Verona nella
liberazione del generale Dozier, l’unica azione condotta positivamente contro
le Br. Ma anche nella lotta puntuale alla corruzione, attorno alle Casse di
risparmio, e contro le melensaggini terroristiche dell’indipendentismo padano,
del primo Bossi. Senza però andare oltre l’incarico di Procuratore Capo a
Verona, perché classificato al Csm di destra. A causa dell’indagine che aveva
aperto a Reggio Calabria sulla bistecca sintetica. Sul gruppo della bistecca
sintetica, la Liquigas di Raffaele Ursini, un ragioniere di Roccella Jonica
portato alla grande finanza da Michelangelo Virgillito, operatore di Borsa, milanese
di Paternò vicino Catania. Sul traffico di influenze, o corruzione, che aveva
facilitato i trasferimenti pubblici alla “bistecca”. E sul trasferimento di parte
di questi “trasferimenti” alla “Svizzera”, via la capogruppo Liquigas, cioè al
tesoro personale di Ursini. L’inchiesta gli fu scippata – finirà insabbiata – e il giovane
Papalia fu trasferito lontano.
Siete meridionali? State confiscati!
Stia punito! Era il leitmotiv del servizio
militare quando era d’obbligo. Ora la leva non c’è più, ma l’ordine dei servitori
dello Stato non è venuto meno: invece che punire, confiscano – e poi arrangiatevi.
Alessandro Barbano, “L’inganno”, denuncia
un “sistema” dove l’eccezione diventa regola. Al Sud sequestri e confische di
beni e patrimoni colpiscono a caso, migliaia di cittadini e imprenditori mai
processati, oppure assolti, ma con “sentenze” di condanna comunque indelebili
emesse dagli inquirenti sui media. O anche liberamente – nomn c’è
bisogno di condanna - applicati ai patrimoni dai “tribunali speciali” addetti alla
“prevenzione” del crimine. Questi giudici possono, senza dover provare niente,
sequestrare, confiscare e anche alienare i patrimoni di gente anche onesta, a
uzzo di voci e convinzioni, che spesso non è condannata – in un paio di casi nemmeno
indagata – e perde tutto (quando il patrimonio viene restituito è sempre azzerato
di valore: le confische servono a riempire le tasche di amministratori che il
tribunale di prevenzione nomina liberamente, tra amici e consoci). Barbano ricostituisce
anche storie di eredi, figli o nipoti, confiscati perché non provano in tutti
i dettagli la provenienza del patrimonio.
Si anticipano giudizialmente e si impongono leggi
inutili o cattive. Si moltiplicano i reati e le pene. Professando di fatto il
rovesciamento dello Stato di diritto, sotto l’apparenza di una migliore difesa
contro le mafie. Con un uso spropositato delle punizioni amministrative, non
contestabili, in uso nel fascismo, quali appunto le interdittive antimafia e la
carcerazione preventiva. Assortite dagli scioglimenti a iosa dei consigli
comunali, solo per distribuire incarichi e prebende ai funzionari prefettizi. Per
non dire degli arbitrii giudiziari veri e propri, che in un ordinamento costituzionalmente
regolato sarebbero materia penale. Sotto le bandiere dell’antimafia, che poco
cura le mafie, giusto quanto basta alle carriere.
Barbano cita i numeri di una ricerca dello
scrittore Mimmo Gangemi – che non è riuscito a pubblicarla – sulle retate periodicamente
disposte dal Procuratore Antimafia Gratteri e le condanne: ogni volta centinaia
di arresti, e poi una decina di condanne, anche meno. Cita anche almeno un caso
di manipolazione delle prove, a opera degli inquirenti – ma si sa che la pratica
è costante: una registrazione tagliata a metà prodotta in aula come testimonianza
d’accusa. Della moglie che chiede al marito, di una persona di cui si parla:
“Ma è mafioso?”, che diventa: “Ma è mafioso”.
E non è tutto, qualcosa
ancora andava detto, perché è il nodo centrale di un’antimafia che è diventata
una questione politica del tipo “leghista” - si ricordano ancora con orrore le
maledizioni, non remote, di Bobbio, che sulla “Stampa” di Torino il Sud voleva
recintato con i cavalli di frisia, e di Galli della Loggia, che ipotizzava un
nuovo decalogo, sempre sulla “Stampa”, “contro la mafia”, attorno al principio
che “lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”, tagliando
l’acqua, la luce e il telefono, togliendo la patente - e poco efficace sul piano criminale, della
prevenzione e del contrasto al crimine. Le “retate” di Gratteri nascono dalle
informative che i comandanti delle stazioni locali dei Carabinieri quotidianamente
redigono, senza accertamenti, sulla sola voce popolare. La quale, essendo i
Carabinieri ormai da quarant’anni barricati dentro caserme con le sbarre, è
quella degli informatori. I quali più spesso sono gestiti dai mafiosi. Con
l’effetto che si parla da anni, da decenni, da poco meno di un secolo ormai, degli
Alvaro di Sinopoli, dei Mancuso del Monte Poro, marine del capo Vaticano incluse, dei Grande Aracri di Crotone, che sono sempre lì – i Piromalli di Gioia Tauro, i
Mammoliti di Castellace, i Pesce di Rosarno, i Pelle di San Luca, i Crea di Rizziconi,
i Cordì e i tanti altri di Locri sono andati in bassa fortuna, ma per errori o
impicci loro.
Se mafioso era Pantaleone
Si ricorda
ancora con raccapriccio l’uso disinvolto che di queste informative, o note di
servizio, fu fatto dalla prima Antimafia parlamentare - che il giornalista “Straccio”,
Paolo Liguori, documentò sul “Giornale” di Montanelli. Le tante cattiverie raccolte
dai Carabinieri di Villalba (Caltanissetta), negli anni 1940-1960 a carico di Michele
Pantaleone, socialista,
sociologo e parlamentare, che documentò gli intrecci politici della mafia
siciliana, con libri importanti, valutati e pubblicati da Einaudi: “Mafia e
politica”, 1962, “Mafia e droga” 1966. Riproponendo tutte le voci
che lo davano intrigante in paese, borsanerista in guerra, incettatore di grano
nel dopoguerra, adultero, eccetera.
Già nel 1969 Pantaleone poteva pubblicare, sempre da Einaudi, “Antimafia:
un’occasione mancata”. Ma le voci di cui si nutriva la prima Commissione erano
le Note di servizio dei Carabinieri di Villalba, notorio centro di mafia,
controllato fin dal primo dopoguerra da Calogero Vizzini – le Note di servizio
raccolgono le voci degli informatori, che a giudizio del maresciallo comandante
la stazione, o brigadiere, hanno qualche fondamento. Oppure sono utili allo
“Stato” - al ministro, al potere.
Sicilia
È la regione italiana
con il maggior numero di abbandoni scolastici, il 21,2 per cento nel 2021, un
ragazzo su cinque.
Il presidente
della Regione Schifani dice no ai pannelli solari: “Ho deciso di sospendere il
rilascio delle autorizzazioni per il fotovoltaico. Questa attività porta
lavoro? L’energia rimane in Sicilia? No. Rimane il danno ambientale”. Elementare:
consumo e desertificazione del territorio – il verde spesso si morde la coda.
Natalia Ginzburg vi è nata, a Palermo, ma ne ha poco ricordo,
nelle tante memorie. Giusto una filastrocca, probabilmente memorizzata dalla
madre: “Palermino, Palermino,\ sei più bello di Torino”. Se ne dispiace:
“Io
ero, a quel tempo, una bambina piccola; e non avevo che un vago ricordo di
Palermo, mia città natale, dalla quale ero partita a tre anni. M’immaginavo
però di soffrire anch’io della nostalgia di Palermo, come mia sorella e mia
madre; e della spiaggia di Mondello, dove andavamo a fare i bagni, e di una
certa signora Messina, amica di mia madre, e di una ragazzina chiamata Olga,
amica di mia sorella, e che io chiamavo «Olga viva» per distinguerla dalla mia
bambola Olga”. Ma non ci è mai tornata. Neppure per presentare un libro o una
sua commedia. Era nata un 14 luglio, che è la presa della Bastiglia ma anche la
festa di Palermo, di santa Rosalia.
Palermo invece la ricorda, in due modi, come scrittrice
e come figlia: una via le ha intitolato, nella parte Est della città lungo l’Oreto,
tra la stazione centrale e Brancaccio, col nome Natalia Levi Ginzburg. Col
nome cioè anche di famiglia, il padre, professor Giuseppe Levi, insigne
anatomista, essendo stato professore a Palermo per cinque anni, dal 1914 al
1919 (con lunghi intervalli al fronte, volontario ufficiale medico), prima del
trasferimento a Torino – che si considera “la” città di Natalia.
Trattamento inverso la città riserva al padre, il professore Giuseppe Levi: nessun ricordo. Pur essendo stato, il padre di Natalia, maestro di tre premi Nobel: i torinesi
Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini, e il calabrese (di Catanzaro) Renato
Dulbecco. La letteratura sì, la scienza non è siciliana?
“È nato mio
fratello, nella nostra famiglia siciliana c’è molta frenesia per il figlio
maschio”, racconta Stefania Craxi sul “Corriere della sera” della sua infanzia.
Domanda Cazzullo, l’intervistatore: “Suo padre non era milanese?” “Era nato a
Milano, parlava dialetto milanese, sapeva tutte le canzoni popolari, oltre a tutte
le canzoni politiche, da quelle anarchiche a quelle fasciste; ma era un siciliano”.
“Era un papà
molto fisico”, continua Stefania Craxi: “Non abbiamo una sola foto insieme in
cui non siamo abbracciati o per mano. Ma era un padre impossibile. Era
gelosissimo di me”. Tutto verosimile, al limite della caricatura – ma Craxi
allora sicuramente siciliano in questo, che non teme l’eccesso, la caricatura.
Fra i tanti questori
e commissari con cui Tina Pizzardo, la fiamma di Pavese a metà degli anni 1930,
antifascista, ebbe a che fare nel decennio, di uno conserva memoria perfino
grata, nel postumo libro di ricordi “Senza pensarci due volte”: “Un giovane siciliano
alto, con un grande naso a vela”, che si presenta come “dottor Lutri dell’ufficio
politikco”, e sbriga subito le formalità perché Tina possa andarsene dopo una
convocazione in questura. “Negli anni a venire avrò spesso da fare con
l’ufficio politico”, continua Pizzardo, “”e troverò sempre nel dottor Lutri
correttezza, comprensione e, per quanto possible, protezione dai soprusi
polizieschi”.
“Vorrei far
notare”, lamenta Sciascia con l’intervistatore del “London Magazine” Ian
Thomson, giugno 1985, “che noi siciliani abbiam scritto sporadicamente libri
storici e sociologici sulla mafia. Ma per quanto riguarda il racconto, non c’è
quasi nulla sull’argomento”. Cioé: siamo ottimi e numerosi scrittori di
racconti, ma è come se non ci fossimo, siamo solo scrittori di mafia.
Ma è “colpa” di
Sciascia. Col successo del “Giorno della civetta” ha aperto un grasso filone a
Milano, all’editoria. Un filone doppio, alle storie di mafia e ai gialli, che
in Italia fino a lui pochi amavano.
Anche Riina, per
la verità, ha contribuito, il tranquillo padre di famiglia che organizzava e
ordinava stragi a ripetizione, di mafiosi, e di giudici, politici, militi, generali,
giornalisti. Col senno di poi, anche nel suo caso l’antimafia sembra sia stata
a lungo debole, debolissima. L’antimafia vera, dell’apparato repressivo.
leuzzi@antiit.eu
“I pogrom in
Ucraina e Polonia alle origini del genocidio degli ebrei” è il sottotitolo. Di
un volume di ricerca documentaria. Che potrebbe – dovrebbe – riaprire la
questione delle origini dell’Olocausto, prima di Hitler.
Il genocidio prima
di Hitler era caduto in desuetudine, dopo lo “scandalo” Nolte, lo storico che
attribuiva al massacro turco degli armeni una prima idea di genocidio, di annientamento
di un popolo, poi germogliata nella mente di Hitler contro gli ebrei.
Veidlinger, professore di storia e studi giudaici all’università del Michigan,
non ha i limiti di Nolte – il sospetto, o la tentazione, di revisionismo: non fa
ipotesi, esamina numeri, eventi, modalità operative. La didascalia al sottotitolo
ne proclama il metodo: “Analisi dettagliate dei massacri avvenuti in Ucraina e
Polonia nel 1941”, nei paesi occupati dai tedeschi, ma a opera degli autoctoni.
I massacri sono del tipo che si è prodotto nella ex Jugoslavia alla dissoluzione
della federazione, ma di ampiezza e crudezza molto più ampia, scrive Veidlinger
nella sintesi introduttiva alle sue ricerche: “Circa un terzo delle vittime dell’Olocausto
furono uccise a distanza ravvicinata, vicine alle loro case, con la collaborazione
di persone che conoscevano, prima ancora che gran prte dei campi di sterminio entrassero
in funzione nel 1942”.
“I sopravvissuti a
questi massacri li chiamavano pogrom”, continua lo studioso. Collegavano
l’improvvisa recrudescenza dell’antisemitismo a un modello noto da gener
azioni, di furie improvvise antieb aiche, e soprattutto alle persecuzioni di
cui avevano più fresca memoria, del 1918-1921. Ma i pogrom di vent’anni
prima erano già stati di tipo particolare: non soltanto furie improvvise di
masse caotiche, “anche di azioni militari perpetrate da soldati addestrati”,
sia in Ucraina che in Polonia. I prototipi degli Einsatzkommandos o Einsatzgruppen, per lo più
composti anche sotto Hitler da baltici, ucraini e polacchi, che decimavano gli
ebrei ammassati nele piazze con armi dabraccio a ripetizione.
I pogrom
postbellici vengono solitamente spiegati con la paura del bolscevismo, continua
Veidlinger, con gli “eccessi del bolscevismo: la requisizione forzata dei beni
di proprietà privata, la guerra alla religione, gli arresti e le esecuzioni
degli oppositori politici”. Una sorta di transfert in realtà, una falsa giustificazione,
anche storica, di un odio immotivato. Di intensità ed effetti duraturi, lo
storico prova, al contrario: “Quanto è accaduto agli ebrei in Ucraina durante
la seconda guerra mondiale ha radici in ciò che era accaduto agli ebrei nella
stessa regione appena due decenni prima”.
Le Einsatzgruppen
che aprirono nel 1941 la caccia agli ebrei, nei paesi baltici, in Polona e in
Ucraina, vi trovarono modalità e attitudini già provate: “Quando arrivarono,
carichi di odio antibolscevico e ideologia antisemita”, a metà 1941, “i
tedeschi trovarono un terreno di caccia vecchio di decenni, dove l’uccisione di massa
di ebrei innocenti era impressa nella memoria collettiva, dove l’inimmaginabile
era già diventato realtà”. Veidlinger cita a questo proposito il monito di un
demografo, Jacob Lestschinsky, alla vigilia dell’invasione tedesca dell’Urss: “Il
«patrimonio di atrocità» lasciato dagli «orrori ucraini» del 1918-1921 non si è ancora del tutto rimarginato”.
Jeffrey
Veidlinger, L’Olocausto prima di Hitler, 1918-1921, Rizzoli, pp.
480 € 25
Fubini e il “Corriere della
sera” devono farsi dire da Landini, il segretario focoso della Cgil, che “i
profitti eccessivi delle imprese stanno gonfiando l’inflazione in Italia”. Cioè
quello che il governatore della Banca d’Italia Visco e il rappresentante italiano
alla Banca centrale europea, Panetta, ripetono da qualche mese. Non c’è più
religione?
Giuliano Ferrara con D’Alema,
spiega Stefania Craxi a Cazzullo sul “Corriere della sera”, avevano ideato di
fare operare Craxi in Francia. “Il giorno dop uscì il comunicato del premier
Jospin: Craxi in Francia non era gradito”. I terroristi sì, Craxi no. Jospin
era “Uno dei massimi sponenti del partito Socialista”, dice wikipedia, come Mitterrand
del “lodo Mitterrand” che vuole i terroristi italiani intoccabili.
Una pagina per Stefania
Craxi che parla di Bettino e di alcune questioni internazionali sul “Corriere
della sera” oggi, e una pagina, subito dopo, per Beppe Caschetto che parla di Alessia
Marcuzzi. Una pagina non si nega a nessuno – il giornalismo è equanime.
Giletti ha visto Berlusconi
in foto con Graviano per programmare le stragi del 1993. Pietro Orlandi ha
visto papa Woytila di notte per Roma con suore giovani e cardinali atletici, a
caccia di fumo e alcol. Entrambi non vogliono dire come e quando – Orlandi lo
ha visto di sicuro nei serial tv di Sorrentino. Tutto si può dire, e perché non
dirlo?
Il Tribunale di Milano fa
sapere, con discrezione, attraverso Ferrarella sul “Corriere della sera”, che l’umo
d’affari russo Artem Uss era ai domiciliari perché la richiesta Usa di estradizione
non era documentata, e nel fatto principale era sbagliata -il “crimine” per cui
chiedeva l’arresto diceva commesso a New York, dove però l’uomo non era stato.
Cinonostante dall’America si fa un gran battage: l’Italia ha lasciato
fuggire un criminale. C’è un motivo? Sì, l’America “fa” spesso la politica italiana,
può farla.
Curioso è semmai che
questa volta il gioco si gioca a parti invertite. Paladini dell’America sono ora
in Italia le sinistre, tradizionalmente sospettose delle disinvolte pratiche
Usa. Sotto tiro invece è la destra. Non c’è più religione?
Arianna Meloni, “la sorella”,
deve lamentare gravi bugie che sui media di opposizione circolano su di lei.
Che ha fato fare presidente di una grande una persona che non conosce. Che suo marito
ha fatto una figlia con un’altra. Una volta il gossip politico era di
destra, i “forchettoni”, “donna Carla” Gronchi, la moglie di Leone. Ora è di
sinistra? O la sinistra si è spostata a destra?
Arianna Meloni può
lamentarsene solo dul “Foglio”.
Ci sono problemi legali
con squadre di calcio di gran nome, Barcellona, Manchester City, Paris
Saint-Germani, ma non c’è la “giustizia sportiva” che c’è in Italia, contro sempre solo un club, a opera di giudici sempre napoletani,
e di un “giustizia sportiva” che oggi fa capo a Chiné e Gravina, un tempo
Petrucci dall’alto del Coni (sopra l’onesto Carraro, il cache-sex),
ma sono sempre le maschere dei Galliani e Lotito che “gestiscono” la Federazione
calcio – tutti ricordano la faccia schifata di Lippi quando dovette celebrare
il campionato del mondo 2006 con Petrucci.
Sono
di Calenda i contribuenti più ricchi. Si vede dal 2 per mille 2022 (sui redditi
quindi del 2021): i
quasi 50 mila sottoscrittori del 2 per mille per Azione hanno garantito al partito
un’entrata media
di
25,56 euro. Poco meno del doppio della media nazionale di chi ha utilizzato il
2 per mille, 14,25 euro.
Il meno ricco, dei simpatizzanti di partiti nazionali, è l’elettore socialista,
con 10,45 euro di media
a testa.
I
contribuenti politici più numerosi sono del Pd, quasi mezzo milione, un terzo
del totale (ma nel 2015
e ancora nel 2016 totalizzava più della metà).
Secondo
nelle scelte è il partito del presidente del consiglio, Fdi, col 16,34 per
cento delle firme di sostegno.
Parla sempre romanesco, ma è il primo capo di governo
in Italia, dopo De Gasperi, con
la sola eccezione forse di Craxi, che ha un programma di politica estera, anche
più importante delle questioncelle italiane, e lo attua. Il piano per l’Africa, che ha avviato
subito in Algeria, Tunisia,
Libia, Corno d’Africa, è perfino geniale; l’Europa non potrà sottrarvisi, a una
politica africana.
E una politica per l’Africa è la cosa più giusta, l’unica, anche per
disinnescare
l’immigrazione
selvaggia, compresi gli indesiderati, e a rischio di morte. Regolandola. Con accordi di
immigrazione, visti, viaggi aerei.
Meloni
parla romanesco, quasi accentuandolo, con le nasali, quando parla italiano. Non
quando parla
inglese o spagnolo - anche francese, che però padroneggia con qualche difficoltà,
anche se minime.
Come se essere se stessa è legato all’elemento Garbatella – Roma è razzista, si
parla diverso
da quartiere a quartiere (i primi a scandalizzarsi di Meloni sono ai Parioli,
che infatti votano a
sinistra).
Rai
2 programma informazione di destra – direttore del Tg 2 era il ministro
Sangiuliano, dopo Mauro
Mazza, ex “Secolo d’Italia” – e filmati invece fuori ordinanza Rai: passioni
gay, famiglie
scomposte,
“canne” di gruppo goduriose. La Rai è sempre ferma alla “riforma” del 1976: la
1 alla Dc,
la 2 ai laici e socialisti, la 3 al Pci. Solo che i socialisti non ci sono, e
la 2 è passata alla destra: la
Rai non se n’è accorta?
Più
che il carattere ibrido di Rai 2 tra informazione e programmi, è curiosa la divisione
dei ruoli tra Rai
1 e Rai 3: due reti per un partito, il Pd, che ormai non rappresenta più i
comunisti, e nemmeno i
democristiani.
Ma è una singolarità rivelatrice: di un potere immutabile sotto le diverse sigle, coloriture
politiche di facciata: un po’ di papa, un po’ di morti sul lavoro, Benigni e la
costituzione,
e
giudici inflessibili. Un potere trasversale: ora al Tg 2, dopo Mazza e Sangiuliano,
c’è Mario Orfeo,
democristiano (ex?) del Pd.
“Dal Sudamerica al
Golfo lo yuan conquista i Paesi non allineati, titola “Il Sole 24 Ore”. Cioè,
fino ad ora, solo Lula, il presidente brasiliano, che da Pechino ha lanciato un
appello a “emanciparsi dal dollaro”, a disintermediare il dollaro quale valuta
internazionale, di pagamento e di riserva. Non è vero: i principati arabi del
Golfo e lo stesso Iran sono saldamente legati al dollaro, e ai bond
americani – come lo stesso Brasile, del resto, fino a ieri governato da un
presidente non anti-yanqui, e anzi “amerikano”, Bolsonaro. Ma non è
nuovo: periodicamente insorge la “scomparsa”, il “crollo”, la “sconfitta” dell’impero
americano, che subito poi si rivela invece il germe del rilancio della potenza
americana stessa – come se l’America crescesse facendosi piccola.
La prima “notizia”
è di metà anni 1950, a Bandung, Indonesia, una conferenza promossa sempre dalla
Cina, che adottò i Punch Shila, i cinque principi della coesistenza pacifica,
tra non-allineati, al culmine della confrontation russo-americana,
bolscevico-capitalista. Poi, dopo il Vietnam, il dollaro allo sbando a Ferragosto
del 1971, non più convertibile in oro, e la crisi petrolifera dell’autunno 1973
- crisi che fu gestita dagli Stati Uniti, e rilanciò potentemente il dollaro. Poi
con le presidenze deboli dell’ultimo Nixon (dopo l’apertura alla Cina…), Ford e
Carter, col varo nel 1981 dei diritti speciali di prelievo, l’unità di conto
del Fmi, una media ponderata del dollaro Usa, lo yen, la sterlina e l’euro
(agli inizi il marco tedesco e il franco francese). Da ultimo con le criptovalute. Ora col yuan?
Il crollo del dollaro
è generalmente annunciato in una con la crisi del sistema produttivo americano. Un sistema produttivo
che da un secolo e mezzo marcia più spedito e più robusto di qualunque altro. Crea
crisi finanziarie a cascata, da capitalismo selvaggio, ma è quello che meglio e
più velocemente le supera. Anche ora: l’economia americana è quella che meglio
(più rapidamente e con maggiore consistenza) è uscita dal blocco del covid. Senza
paragoni. E più si è avvantaggiata della guerra in Ucraina, senza subire i rincari
dell’energia. Tornando la più attrattiva per ogni operatore, anche tedesco, o
francese, anche cinese. Perfino a premio sulla stessa Cina, che pure paga profitti
alti. L’“Economist” questa settimana lo nota con sorpresa, ma la cosa è nei
fatti, lo è sempre stata.
Più che del
consenso di massa, del popolino, questo capitolo finale della storia di Gentile
evidenzia indirettamente il consenso di una vasta fascia intellettuale. Anche
di nomn fascisti, anzi specie di non fascisti: urbanisti, architetti, grafici,
registi di cinema, autori e registi di teatro. Per quel tratto di novità che negli
anni 1920 e 1930 il regime favorì e finanziò.
Il progetto
corporativo nacque morto, si può dire. Ci sono scioperi, per ilcrac del 1929 e
dopo, protestano le donne, a vario titolo, la corporazione si riduce
all’assistenzialismo, scuole reali, colonie marine, sostegni alla demografia. Mentre
gli anni si rivelano fertili per una sorta di illuminato (aperto) dirigismo
artistico.
Lo storico si sofferma
su Roma, ma molto si fece nell’urbanistica e l’architettura altrove. Nelle città
lombarde, Brescia soprattutto, in Romagna, nelle ex paludi pontine, e molto si
costruì, con indirizzo modernista, case del fascio e scuole elementari, asili, municipi,
nei paesi.
Alla Mostra della
Rivoluzione Fascista, per il decennale della presa del potere, a Roma nel 1932,
“collaborarono i maggiori artisti italiani del tempo, con Enrico Prampolini,
Giuseppe Terragni, Leo Longanesi, Antonio Valente, Achille Funi, Domenico
Rambelli, Mino Maccari, Marino Marini” e Sironi. Roma, per il bene e per il male,
ebbe un primo assetto urbanistico moderno, con l’apertura di alcune vie di
comunicazione nel centro storico – la più importante, e più discussa, quella
dei Fori Imperiali. “Era dai tempi dei grandi pontefici costruttori come Giulio
II”, scrive Gentile, “che non si radunavano a Roma tanti talenti di artisti e
architetti, molti dei quali giovani, chiamati dal duce a compiere trasformazioni
urbanistiche e a innalzare costruzioni ornamentali”. Erano “creatori e interpreti
dei miti totalitari del fascismo quanto lo era Mussolini, e forse, per mlti
aspetti, lo erano molto più del duce stesso” – l’artista ha una sola visione,
si sa, la sua: “Erano i più originali architetti e artisti dell’epoca, dal più
anziano classicheggiante Marcello Piacentini, potente e prolifico architetto
del duce, ai giovani modenisti Enrico Del Debbio, Gaetano Minnucci, Giuseppe
Pagano, Mario De Renzi, Adalberto Libera, Mario Ridolfi, Luigi Moretti”.
Si conclude una storia
del fascismo come movimento, dalla guerra civile agli anni del consenso. Senza
l’impero, l’isolamento (le sanzioni), l’Asse e la guerra. Un movimento
mussoliniano, un partito del capo, ma mirato al consenso, in queso senso
politico, ad ampio spettro. Un approccio originale. Ma mirato soprattutto a penerare
i pregiudizi, i giudizi somari. Dall’anonimo antifascista che nel 1944
pubblicava l’opuscolo “Il fascismo non è mai esistito”, dice Gentile nellanora
editoriale all’edizione originale Laterza, all’“illustre intelletuale antifascista”
che nel 1994 dichiarava “il fascismo è eterno” – Umberto Eco? nel 1995.
Emilio Gentile, Storia
del fascismo – 14. Masse e regime, pp. 156, ill. € 14,90