sabato 29 aprile 2023
Ombre - 665
La
guerra più sanguinosa dell’ultimo anno”, può titolare l “Economist”, ”non è stata
in Ucraina, è stata in Etiopia, contro la regione secessionista del Tigré (Macallè): il mediatore della tregua, l’ex capo di Stato nigeriano Obasanjo, ha calcolato 600 mila morti. A capo dell’Etiopia c’è un premio Nobel per la pace, Abiy
Ahmed Alì. Che Meloni ha appena incontrato, tra larghi sorrisi e promesse di cooperazione. L’Africa è ancora un continente sconosciuto.
Galiani protofemminista
Si
ha nozione dell’abate Galiani ilare e spiritoso, nelle lettere, gli scritti e
la conversazione, a Parigi come a Napoli. Tanto quanto era disgraziato nel
fisico – o saggio nelle quesioni di economia. Ma in questa silloge non diverte quasi in
nessun aneddoto. Lo spirito non va esibito.
Il
napoletanistta Altamura, però aggiunge alla sua silloge delle spiritosaggini un
saggio breve, anzi brevissimo, in forma di lettera da Napoli a Maname d’Épinay
a Parigi nel 1771, sulla parità dei sessi, “Croquis d’un diaogue sur les
femmes”, abbozzo di un dialogo sulle donne, che è un gioiello, di humour e
finezza: l’anticipazione di un paio di secoli di molto femminista. La raccolta
è per lo più di aneddoti “grassi”, boccacceschi – donne furbe e mariti cornuti,
la solita solfa. Ma la realtà era già un’altra.
Antonio
Altamura, Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani
venerdì 28 aprile 2023
Secondi pensieri - 513
zeulig
Castità – Ritorna con la
queer theory o i queer studies. Come una forma di sessualità non prevaricatrice. Come
ipotesi, più che come verità, è studiata dalla slavista americana
(afroamericana) Jennifer Wilson, che alla Penn State University ha avviato un
progetto che che intitola “Chastity
and the Political Imagination in 19th Century Russian Fiction” – già autrice di
una ricerca “Radical
Chastity: The Politics of Abstinence in Late 19th Century Russian Literature”,
e di un saggio “(Drag)ging Tolstoy Into Queer Theory: On the Cross-Dressing
Motif in War and Peace”. Nella letteratura russa dell’Ottocento Wilson ha
rilevato una serie di pratiche ascetiche come pratica politica, di attivisti
radicali in opposizione alla società borghese. Contro la pratica borghese del matrimonio
e contro il corteggiamento, pratica basata sull’ineguaglianza di genere.
Piuttosto che al’amore libero, altra pratica borghese, questa opposizione ssarebbe
sfociata nella pr atica dela castità, “una forma autonoma di sessualità che non
apriva spazi di sfruttamento o di sentimenti proprietari”.
Filosofia - “Vista dall’interno
la caverna è meno oscura di quello che i filosofi pensano”, nota Mauro Bonazzi della
caverna di Platone, dell’ambizione della filosofia di uscire dall’oscurità: “È
rumorosa certo, ed imperfetta, ma forse anche colorata, e di sicuro meno noiosa
di quel pieno luminoso e tutto uguale” là fuori. Soprattutto più conoscibile,
senza speciale illuminazione. Specie per la filosofia politica – la notazione
di Bonazzi è riferita a Hannah Arendt, che alla fine confessa di non potersi
dire filosofia perché non aveva preveduto il nazismo. Ma il nazismo non era da
prevedere, solo da leggere.
Imperialismo – Il conto del
dare e avere è sempre in perdita. Anche nella formula “spese pubbliche, utile privato”.
È un esercizio di potenza, non economica. O allora: cosa è economico,
redditizio? Ma non, allora, in chiave ragioneristica, di dare e avere, seppure
in un arco di lungo e lunghissimo periodo. Non di contabilità da quadrare di
conti numerici, misurabili in cifre. In questa chiave è un investimento. A rischio e non a termine, per quanto lungo. È
l’economia del principato, dell’investimento a perdere, per un utile politico –
politicamente economico, cioè durevolmente, a temine “storico”.
L’imperialismo
ribalta il concetto economico, l’economia dell’economia. A meno che non si trasformi – elevi – a
economia suntuaria, di spreco.
Populismo – È inteso reazionario,
o controrivoluzionario. Ma fu teoria e opera di apostoli della rivoluzione,
Mazzini per primo e più a lungo – finché non debordò nel messianismo: “Dio e
popolo” a lungo è stato incitazione di libertà e alla libertà. Fu opera anche,
commossa, di Michelet.
Mazzini
poi deriverà alla causa della Gran Madre Latina, del popolo che reincarna la
grandezza di Roma, che sarà fatta propria da Mussolini – ne costituirà anzi il
solo verbo costante, la sola ideologia immutabile e di maggior richiamo. Ma ci
arrivava nel mezzo di una corrente di moda, se non di pensiero, ai primati nazionali,
da Gioberti a Bismarck – dagli Stati (nazionali) ai primati. Mazzini non si può
biasimare, non commise alcun atto imperialista o di esclusione – se un rimprovero
gli si fa nella storia è di essere rimasto sempre fedele a quello degli inizi, un
politico senza duttilità politica . Da credente e apostolo, del popolo e per il
popolo. Pur con tutta l’ambiguità che ciò comportava – che Bakunin gli faceva
rilevare alla sua tarda età: del nazionalismo cioè: “Per Mazzini il popolo è
una parola astratta che identifica tutti gli abitanti dell’Italia, siano essi
nobili o plebei, vittime o carnefici; e
questo preteso popolo deve sacrificarsi per fare dell’Italia una potenza di
prim’ordine in Europa e per conquistare la propria sovranità, cioè non avere più
re che lo comandi!”. Per uno scopo quindi di libertà. Quanto al primato, è pur
vero che esso ha valore, prende valore, oggi, nel mondo unipolare, in termini di
brand, nel commercio cioè, come un
marchio - rientra nelle tecniche di marketing.
Ha
acquisito in Europa e negli anni Stati Uniti nel Duemila nuovo spazio per un
evidente sbracamento del progressismo, in favore del mercato, delle banche, della
finanza. Che non hanno prodotto più ricchezza, come garantivano, non in Europa,
nei mercati industrializzati in genere, e li hanno soggiogati e interessi rapaci.
E ingovernabili. Uno slittamento evidente in paesi come l’Italia, senza forza contrattuale
propria, dove le forze progressiste hanno quasi fatto a gara per distinguersi nell’acquiescenza alle pratiche più viete del mercato
– non solo in termini sociali, anche produttivistici, di creazione e difesa della
ricchezza (della ricchezza nazionale non di quella dei ricchi e potenti). In
questo quadro si può dire il populismo sociale, o socialmente impegnato. E
progressista di fatto.
Religione – Vico la
intende (giustifica) come coscienza dell’umanità e origine della civiltà.
È guardare
fuori e in alto per capire (vivere) dentro e in basso.
È “soprannaturale
perché è fuori della natura”, è l’argomento di Galiani nell’“Abbozzo di un dialogo
sulle donne”: “La natura non ce ne dà alcun istinto; non appartiene a nessuna
classe di animali; la dobbiamo esclusivamente all’educazione; ed è ben la sola
che distingua l’uomo dalla bestia: la religione costituisce la nostra caratteristica.
Invece di dire: «L’uomo è un animale ragionevole», bisogna dire: «L’uomo è un
animale religioso». Tutti gli animali sono ragionevoli, solo l’uomo è
religioso. La morale, la giustizia, il sentimento sono un istinto, la fede in
un essere sopranaturale non lo è affatto”.
E
ancora: “L’idea della religione” è “credere all’esistenza di uno o più esseri
che non sono percepiti da nessun senso, che sono invisibili, impalpabili e così
via…. Ciò che distingue l’uomo dalla bestia è un effetto della religione:
società, politica, governo, lusso, ineguaglianza delle condizioni, belle arti,
etc., tutto noi dobbiamo a questa caratteristica della nostra specie.
Storia – Puškin, che
amava narrare e poetare di personaggi e eventi storici, aveva una partita aperta
con la storiografia francese dominante del suo tempo, o della storia come fato,
il destino delle nazioni. Criticando Guizot, scrive: “Non si dica: non poteva essere altrimenti. Se questo
fosse vero allora lo storico sarebbe un astronomo, e gli eventi della vita dell’umanità
si predirebbero in calendari come le eclissi di sole”.
Vero-falso – Ritorna la querelle, sull’onda dell’intelligenza
artificiale. Che però si ripropone come alla sua età della pietra – come già
con le fake news, che poi sono
propaganda o disinfornacija, e con i
social “liberi tutti”, twitter e meta-instagram. Ferraris propone di non
fasciarsi la testa: il vero d’invenzione è sempre esistito in letteratura – e nel
mito, perché no, testi sacri compresi. E suggerisce di enucleare il “finto” dalla
dicotomia vero-falso: molto si fa per leggerezza, per divertimento o
provocazione (p.es. le fake news, che
sono sempre grimaldello di qualcosa.
Cosa
s’intende per vero e cosa per falso? Vera è madame Bovary, dice Ferraris: “Non
è falso che madame Bovary fosse una moglie infelice”. Ma non è tutto: Emma
Bovary è moglie infelice ma anche stordita e\o stupida.
Il
vero è multiplo. O anche: il vero non è tutto – non esaurisce la verità.
Per un rientro soft dall’inflazione
Le
banche cenTrali haNno trascurato e forse attivato l’inflazione? Con i tassi zero o negativi, con quantitative
easing a catena, il riacquisto di
titoli di Stato, la liquidità illimitata – il “whatever it takes” di Draghi? Sì, ma non potevano fare altro, negli
Stati Uniti dopo la crisi bancaria del 2007, in Europa dopo la crisi del debito
del 2011-2012. Tassi zero e credito a gogò hanno ubriacato la politica, i governi,
i parlamenti, in una sorta di “licenza di spesa senza redini”, e di “qualcosa
per ognuno”.
Dovevano
le banche centrali ammonire contro questi eccessi? Il quantitative easing è stato quasi doveroso anche a fronte della
pandemia, che nessuno poteva prevedere. E poi c’è stata la guerra della Russia,
anch’essa non prevedibile, che ha disorganizzato il mercato internazionale delle
merci, specie delle materie prime.
La
reazione all’insorgenza dell’inflazione è però pericolosa, se rallenta troppo
le economie. Mettendo a rischio le politiche dei redditi – il rischio è di
avviare una ricorsa salari-prezzi. L’ex governatore della Banca Centrale
Indiana è per un rientro soft dell’inflazione
- dovuta a due emergenze, oltre anche alla politica monetaria permissiva. Per
una politica di austerità solo per questo aspetto: rientrare dagli eccessi
politici, dal deficit spending attraverso
il quantitative easing.
Raghuram
Rajan, For central bankers less is more,
“Imf F&D Finnce and Development”, marzo 2023, free online
giovedì 27 aprile 2023
Il mondo com'è (460)
astolfo
Bolla – Assunse il significato che ha nella terminologia
finanziaria nel 1718-1720, nella breve e
vistosa speculazione che culminò in una Bolla del Mississippi. La
moltiplicazione fittizia di valore di titoli azionari e di titoli di Stato del
cosiddetto sistema Law. Dal nome dell’economista scozzese John Law, apologeta
della carta moneta, la moneta fiduciaria del tempo.
Entrato in contatto col duca d’Orléans, il fratello di Luigi XIV divenuto
reggente alla morte del Re Sole per conto del successore Luigi XV in minore
età, Law ne fu nominato Controllore Generale delle Finanze di Francia. Creò subito,
nel 1816, la Banque Générale, una sorta di banca centrale, istituzione allora
nuovissima, col potere di emettere carta moneta. E nel 1717 una Compagnie
d’Occident, aperta agli investitori parigini - poi (1719) Compagnie des Indes.
Inizialmente dotata della privativa della valorizzazione della valle del
Mississippi – tabacco e schiavitù - e successivamente di tutto il commercio
coloniale francese.
La aspettative moltiplicarono il valore delle quote in poche settimane per
36, da 500 a 18 mila lire tornese. E moltiplicarono anche le emissioni: 625 mila
azioni furono emesse in poche settimane. Law alimentava la speculazione perché
puntava a ripagare l’enorme debito pubblico accumulato da Luigi XIV. Fuse anche
la Banque Générale con la Compagnie des Indes, mettendola quindi al servizio della
speculazione. E avviò l’emissione di obbligazioni pubbliche, i billets d’État, che anch’esse
moltiplicarono in pochi giorni le quotazioni.
La carta moneta stampata senza limiti alimentava la bolla. Ma di pari passo
con la stampa crebbe l’inflazione. I billets
d’État e la carta moneta cominciarono a perdere quota. Il ribasso si accentuò alla scoperta che i profitti della Compagnie
des Indes non c’erano – non nella misura fantasticata. E il ribasso fece rapidamente
valanga. La “bolla” scoppiò a dicembre 1720, Law lasciò prontamente Parigi, il
debito pubblico sarà pagato con le tasse.
Caterina
I – Zarina di Russia alla morte del marito Pietro il Grande, era una
contadina di famiglia polacca, nata (1684) e
cresciuta in Lituania, Marta Elena
Skowrońskaja, figlia di un Samuelis Skowroński, contadino. Era stata sposata
nel 1701, a 17 anni, a un dragone svedese, trombettista del reggimento, di
stanza in Lituania in una delle tante guerre russo-svedesi. Era in corso la Grande
Guerra del Nord, per l’egemonia nel Baltico (marzo 1700- settembre 1721) dell’alleanza Russia-Danimarca-Polonia-Sassonia
contro Carlo XII di Svezia. Che in un primo momento, il 20 novembre 1700,
sconfisse l’alleanza, alla battaglia di Narva.
Il trombettista presto scomparve, e Marta Elena
Skowrońskaja si impiegò come domestica da un pastore tedesco, Ernst Glück,
a Marienburg. Durò poco: il pastore fu arruolato contro la Russia ai primi
del 1792, Marienburg cadde in mano russa, Marta fu catturata dai russi, e adibita
alla lavanderia del reggimento che l’aveva prigioniera.
Non aveva vent’anni e aveva un bel corpo: fu quindi
mandata a servizio dal principe Menshikov. Alexander Danilovich Menshikov,
mercante di bassa estrazione diventato intimo di Pietro il Grande, che l’aveva
nobilitato col titolo di principe per avere ammassato una enorme fortuna, in
gran parte con la corruzione, ma esemplare della classe borghese, industriosa,
che lo zar voleva impiantare in Russia. Menshikov se ne fece l’amante. Per
poco: nel 1703 lo zar, in visita dal neo-principe, si prese Marta per sé - ai
diciannove anni, quindi. Due anni dopo la fece convertire alla chiesa
ortodossa, con un nuovo nome, Ekaterina Alekseevna Mikhailova. Successivamente
la relazione volle consacrata con matrimonio solenne, il 9 febbraio del 1712, quando
Caterina aveva 28 anni, nella cattedrale sant’Isacco da poco completata a San
Pietroburgo (ma un matrimonio sarebbe stato celebrato in segreto, in una data
imprecisata tra il 23 ottobre e l’1 dicembre 1707).
Nei ventidue anni di vita con lo zar Pietro, che morì nel
1725, gli diede dodici figli. Ne sopravvissero solo due, Anna ed Elisabetta,
future zarine – la prima nata nel 1708, la seconda nel 1709. Nel 1724 ebbe il
titolo di zarina, e fu associata alla gestione dell’impero. L’anno dopo, alla morte
improvvisa di Pietro I, senza l’indicazione di un successore, si fece
proclamare dalla Guardia Imperiale imperatrice regnante. Con l’aiuto i Menshikov,
il suo vecchio amante, e col sostegno, dal 1726, di un consiglio privato di sei
membri da lei nominato - ma sempre controllato da Menshikov. Per due anni, fino
alla morte nel 1727. A Caterina si attribuisce la capacità di calmare Pietro il
Grande nelle sue frequenti collere, oltre che di assisterlo in più crisi
epilettiche.
Donetsk
– La città al centro della guerra russo-ucraina
è di origini recenti. Fondata come Hughesiovka, la città di Hughes, dall’industriale
gallese John Hugues. Un accenno
indiretto è rimasto nel film “L’ombra di Stalin”, 2019, di Agnieszka Holland,
sull’esperienza del giornalista gallese Gareth Jones, che per primo scoprì e
denunciò nel 1933 l’Holodomor, la carestia provocata da Stalin in Ucraina, imponendo
l’ammasso del grano e degli altri cereali per l’esportazione, per finanziare
con la valuta il suo piano quinquennale industriale. Jones si reca in Ucraina
per cercare il luogo, di cui ha un foto, dove la madre, Annie Gwenn Jones,
aveva lavorato nella prima guerra mondiale, come istitutrice dei figli di
Arthur Hugues. Figlio di John. Oggi (prima della guerra) città da poco meno di
un milione di abitanti, fu creata come colonia mineraria e industriale nel 1869
da Hughes padre. Ebbe statuto di città cinquant’anni più tardi, nel 1917. Successivamente
ribattezzata Stalin, nel 1924, poi Stalino, 1929-1961. Fu distrutta completamente
già una prima volta durante l’occupazione tedesca. Ricostruita nel dopoguerra, prese
tardi, anche dopo la destalinizzazione, la nuova denominazione, dal fiume Donec
che l’attraversa.
Adam Gannibal – Originario del lago Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno
materno di Alexander Puškin, che ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da
mulatto, il colorito scuro e i capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di
antica nobiltà. Ma il bisnonno materno era africano: un bambino rapito a otto anni e venduto come schiavo a Costantinopoli,
dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante serbo, lo acquistò, per poi farne dono allo zar Pietro il Grande.
Il quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò
l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di
bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al
grado di generale.
Gannibal era
conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato, ancorché oscuro.
Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato
probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle
tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non
si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo
dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe
il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò
Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò
a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per
tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà
importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di
Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte. La zarina
Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a Mikhailovskoje,
e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo piccolo feudo, Puškin
scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero che era diventato un
nobile russo visse fino alla fine della sua vita come un philosophe francese”.
È in questa stessa proprietà, ancora di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827
il suo primo romanzo, “L’Africano di Pietro il grande” – che lascerà incompiuto.
Mettendo a frutto i ricordi familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio
del bisnonno, ancora in vita.
Andrej
Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto sul suo
aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più intensamente
della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur facendo parte dell’establishment,
il suo rapporto con lo zar Nicola II, suo protettore, assimilando a quello di
Gannibal con Pietro il Grande – un paragone lusinghiero per lo zar, che lo
puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero
della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi capolavori, il dramma storico
“Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del capitano”. Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno
africano, il personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo,
rimasto poi incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La
figlia del capitano”.
Guerre russe – La Russia è
stata sempre in guerra, dal Cinquecento a oggi. Nelle due guerre mondiali
naturalmente, e contro Napoleone nel 1812. Nel dopoguerra in Ungheria (1956),
Cecoslovacchia (1968) e Afghanistan (1979-1989), come impero sovietico, oltre
alle tante ingerenze armate in Polonia e a Berlino. E in Cecenia e Georgia la
Russia post-sovietica, prima che in Ucraina.
Numerose
e interminabili le guerre russo-svedesi: 1554-1557, 1558-1583 (nel quadro della
Prima guerra del Nord, contro lituani e svedesi), 1610-1618 (Guerra d’Ingria),
1656-1658 (nel quadro della Seconda guerra del Nord, o conflitto
polacco-svedese), 1700-1721 (la Grande Guerra del Nord, con la vittoria decisiva
su Carlo XII di Svezia nella battaglia di Poltava, 1709, che consacrò Pietro il
Grande negli equilibri europei), 1741-1743, 1788-1790.
Ripresa nel contesto delle guerre napoleoniche, come guerra di Finlandia: la Svezia,
sconfitta nel 1808-1809, cedeva alla Russia la Finlandia.
Contro la Finlandia indipendente da fine 1917, dopo la rivoluzione
d’ottobre a Mosca, la Russia mosse guerra nei tre mesi invernali 1939-1940, strappando alla fine alcuni territori, come
la Carelia - il 10 per cento della superficie finlandese.
La
lunga serie di guerre (anti)napoleoniche, in alleanza con la Prussia e
l’Austria-Ungheria.
Contro
la Polonia: 1654-1667, 1792, 1794 (insurrezione polacca).
Le
quattro guerre contro la Persia: 1722-23, 1796, 1804-13, 1826-1828. Intervallate
da guerre contro i khanati del Caucaso, detti anche khanati persiani e khanati
azeri, o khanati iraniani, più o meno sotto sovranità persiana, negli odierni Azerbaigian,
Armenia, Georgia e Daghestan.
Le
guerre russo-kazane di metà Cinquecento – fra le tante guerre contro i khanati,
i domini tartari disseminati nella Russia occidentale.
La
guerra di Crimea, 1856, per il controllo
dei Luoghi Santi a Gerusalemme, disputato alla Francia.
La lunga serie di guerre russo-turche –
Mosca si vuole la Terza Roma, dopo Roma e Bisanzio-Costantinopoli: otto guerra
tra il 1568 e il 1829 (senza contare, nei primi anni 1820, il sostegno
Alla indipendenza greca, nella comune
ortodossia religiosa: 1568-1570, 1676-1681, 1686-1700, 1710-1711, 1735-1739, 1768-1774, 1806-1812, 1828-1829.
Contro il Giappone, 1904-1905 – la prima sconfitta di una potenza
europea per mano asiatica.
astolfo@antiit.eu
Il Sud vince, ma non si capisce bene
Il
bosco verticale, il design della
“pienezza del vuoto”, l’evento, l’affare a Milano. Tutto futuro e gelido. E
l’improntitudine, la cialtroneria, il vecchio padre, la vecchia madre, tra
Bitonto e Bari. Il gelo e il calore, naturalmente – la scommessa è vinta
d’anticipo su chi vincerà.
La
solita pochade tra vecchio e nuovo, tra
città e campagna, tra Nord e Sud. Non incommestibile in tempi in cui la famglia
è ogni male – è il rifacimento di un film digrande successo in Francia, “Ti
ripresento i tuoi”, si vede che anche in Francia c’è nostalgia della famiglia,
di fratelli, cognati e nipoti. Con un argomento in più nel fim di Carteni: la
varietà – diversità - linguistica. Peccato che col sonoro indistinto se ne abbia
una sensazione vaga - le batturte di spirito, se ci sono, non si afferrano.
Alla
fine un polpettone, troppa farsa e insieme non abbastanza, troppi cliché. Uno sceneggiato (oggi “serie”),
modesto.
Umberto
Carteni, Quasi orfano, Sky
Cinema
mercoledì 26 aprile 2023
La scoperta dell’Africa - geniale
Detto
“Piano Mattei” per non dire “Piano Africa” per un sospetto di politicamente
scorretto, quello su cui marcia il governo Meloni, con cinque visite importanti
in cinque mesi, Algeria, Tunisia, Libia,
Etiopia (e India), è un piano facile facile. Geniale.
Meloni
ha cominciato dove l’Eni ha tratto molti profitti e ha molte relazioni, il Nord
Africa. Ma punta fuori, in realtà, degli orizzonti e degli interessi del gruppo
petrolifero fondato da Mattei. Punta all’Africa. Fa la famosa “scoperta dell’Africa,
la quale era stata scoperta prima di Gesù Cristo”. Ma è poi rimasta ignota all’Europa,
che pure ne aveva fatto una seconda casa, di comodo, per quattro o cinque secoli. Un’idea
semplice, e sicuramente vincente. L’Africa è piena di risorse naturali, ma
senza capitali e senza know how. Ha
una demografia esplosiva, da alcuni decenni, per la migliorata sanità, in cerca
di di un posto al sole in Europa
comunque, a qualsiasi prezzo – ma di cui, in realtà, l’Europa ha bisogno. È vittima
di sfruttamento, economico e politico, oggi come sempre. È trascurata, anzi
abbandonata, dal cosiddetto Occidente. È sola con la Cina, che però non sente
propria, non sente vicina – il colonialismo ha lasciato un imprinting.
Dappertutto Meloni ha aperto speranze, accolta come si è visto con gratitudine,
anche se non portava nulla, solo un po’ d’attenzione.
L’Italia
per anni, per decenni, ha lavorato a Bruxelles per una politica mediterranea, e
per una politica africana. Poi, negli anni 1990, con l’avvento dell’economicismo
(monetarismo) nordeuropeo, ha cessato pure di insistere. Meloni ha aperto una miniera
spalancata. Senza bisogno di passare per Bruxelles – dove ancora non hanno
capito.
Immettere
l’Africa in scena è semplicemente nell’ordine delle cose. Che non ci pensi l’Europa
è comprensibile, perché è un’Europa centro-orientale, continentale. Ma non è
detto: il piano Mattei sarà il capitale di Meloni per i suoi conservatori
europei, e per il futuro asse con i Popolari a Strasburgo dopo il voto del
2024? Non è da escludere, e fa il piano Mattei ancora più geniale.
Che
in Italia non ci abbia pensato la sinistra, come sembrerebbe ovvio (la
cooperazione, gli aiuti, lo sviluppo), al governo per dieci anni, è incomprensibile
- se per sinistra s’intende qualcosa di più che non il giubilo di stelle e
stelline, capitane e non, e di parole d’ordine corrette.
È difficile dirsi fascisti
Non
c’è un’ortodossia fascista. Un’organizzazione, una tessera, una sezione,
riunioni periodiche, una vigilanza e una ortodossia, con radiazioni e
scomuniche - nella migliore delle ipotesi, p. es. l’espulsione di “quelli del
‘Manifesto’”, le cistke sovietiche,
cui anche il buon Pajetta sovrintese, potevano essere letali. C’era la tessera
negli anni del fascismo, ma era un obbligo di polizia, e quasi una tassa.
Si
moltiplicano attorno al 25 aprile le accuse di fascismo, le privative di
antifascismo, le lezioni totalitarie di democrazia. Ma, poi, fascista è un
epiteto, si dà a chiunque anche fuori della politica. Questo fa anche sì che
uno che è fascista di fatto – nazionalista, razzista, violento – possa dirsi
costituzionalmente democratico: se tutti siamo fascisti nessuno lo è. Ma non è
questo il punto. È che una non buona – anzi cattiva – politica si è retta, e
evidentemente ancora si regge, sull’antifascismo. Cioè, ha bisogno del
fascismo. Che nel 2023, dopo quasi ottant’anni dalla cacciata di Mussolini, è
un’esagerazione e anche un’incongruenza. Dov’è il razzismo? Nei buu delle “curve”
allo stadio? Sono le “curve” (i popolari) fasciste? Quella della Roma si vuole comunista.
Ci
sono dei fascisti, certo. Dichiarati. Ma allora: si è fascisti perché ci si
dichiara fascisti. Contro la Costituzione. Contro la Resistenza all’occupazione
tedesca. Contro il Parlamento. Contro anche il Sud – ma quanta Resistenza non è
(diventata) leghista?
Se
c’è una costituzione che da tutti è osservata e da nessuno contestata, elezioni
periodiche, anche troppo, e mai discusse, un governo eletto dal Parlamento e
dal Parlamento dipendente, anche troppo, dov’è il fascismo? I naufragi? Quanti
naufragi con Napolitano o Minniti all’Interno – il naufragio non si provoca, avviene
quando il soccorso è impossibile o ritardato, nessuna guardia costiera sta lì
col binocolo a vedere gli africani affogare.
C’è
speculazione. Non da oggi, Cutro non è una novità. Ma è giornalistica. Di un giornalismo
che non sa come altro vendersi, se non c’è scandalo. E di una politica che
sopravvive solo su questi giornali.
Rinascere a trent’anni
’Tutti
amavano Jeanne. Che non amava, e non ama, nessuno. L’amavano a scuola, in
Portogallo. Una francese a Lisbona. Troppo bella. Determinata. Quasi “donna
dell’anno” in Francia, a trtent’anni o poco più. E invece fallita. Progettualmente
- una macchina che (non) raccoglie la plastica nei mari profondi - ed economicamente.
Indebitata
e sensa risorse, col bancomat del fratello fisioterapista, torna a Lisbona. Dalla
madre che vi aveva eletto residenza. Finché, solitaria, trascurata anche dai
figli, non si era buttata giù dal ponte. Torna per fare liquidità, vendendo la
casa. E ci trova un ex compagno di scuola. Altrettanto folle e solo. Il “cuore
di pietra” si scioglie.
Un
fait divers, un evento qualsiasi, che
cambia una vita, le vite. Un racconto di formazione in età adulta – “non è mai
troppo tardi”. In forma di féerie, sullo
sfondo di una Lisbona pastello, raccontata da fantasmini guizzanti.
Céline
Devaux, Tutti amano Jeanne, Sky
Cinema
martedì 25 aprile 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (523)
Giuseppe Leuzzi
Tre
allenatori delle quattro squadre che si contendono la Champions League sono
italiani. Tutt’e tre sono emiliani: Ancelotti di Reggio, Pioli di Parma,
Inzaghi di Piacenza. È un caso, certo. Eppure, un fondo tribale c’è: la
capacità di gestire venti-trenta atleti – l’empatia di oggi.
Gianni
Infantino, calabrese di Seminara, capo della Fifa, progetta un calcio sempre più
caro – che solo i molto ricchi possono giocare. Un Mondiale e periodicità ravvicinata,
ogni due anni, per club, in aggiunta a quello quadriennale per Nazioni, e un campionato
annuale mondiale per club, una specie di Superlega. Competizioni che solo
organici di quaranta-cinquanta atleti possono permettersi. È l’ingordigia che
viene dalla fame?
“Il
pubblico migliore è quello del Nord”, Checco Zalone confida a Cazzullo sul
“Corriere della sera”, “perché è un coacervo, c’è di tutto. È pieno di terroni civilizzati”.
I “terroni
civilizzati” di Checco Zalone sarebbero i baresi (o i salentini?): “A Bologna ci sono più salentini che a Lecce;
e i salentini per noi di Bari sono i veri terroni”. C’è sempre un Nord, non
solo nelle bussole.
La donna del Sud
“Il
Sole 24 Ore” dedica il pranzo domenicale di Paolo Bricco con un’ospite a Antonella
Sciarrone Alibrandi. Docente di diritto dell’economia alla Cattolica, direttrice
dell’Osservatorio sul debito privato, membro del consiglio Asif, l’Autorità
finanziaria del Vaticano, ora nomina dal papa sottosegretario alla Cultura. Il
nome Sciarrone suona familiare. E in effetti lo è: “Lei è una figlia di Milano”,
esordisce Bricco sul giornale milanese: “Di una Milano fatta, insieme, dalla
gente del Nord e dalla gente del Sud”. Lei spiega: “Mio padre Vincenzo era di
Messina. Mia madre Enrica, che oggi ha 93 anni, è nata a Reggio Calabria”. Il padre
ha fatto il biennio di Ingegneria a Messina, che aveva solo il biennio, e la
laurea al Politecnico di Torino. La mamma “era figlia di un ferroviere e di una
casalinga”. Normale, nel 1930. Anche che il nonno ferroviere fosse socialista (i
ferrovieri erano socialisti) – e lo sia rimasto poi a vita, della corrente di
Riccardo Lombardi.
Ma
la madre aveva una particolarità, si vede che ha spiegato alla figlia. “La sua
era una famiglia particolare. Tre figlie femmine nell’Italia e nel Sud di allora.
Mia nonna Maria Teresa”, la casalinga moglie del ferroviere, “volle che tutt’e
tre studiassero: mia mamma e sua sorella Annunziata si laurearono in Chimica, la
terza sorella Maria in Fisica”. Ottimo, si direbbe, Chimica allora a Messina era
governata da Arnaldo Liberti, che era professore severo, oltre che scienziato - arrivati a Liberti, molti abbandonavano, o cambiavano università. Sciarrone Alibrandi la vede da un altro punto: “Una cosa due volte rara: ragazze
non destinate a studi umanistici o al matrimonio, ma spinte ad approfondire le
materie scientifiche che amavano e a farsi la propria strada”. E invece no, non
era rara.
Sciarrone
Alibrandi prosegue: “Nel pieno del boom economico, mia madre e Annunziata presero
casa a Milano a Città Studi e iniziarono
a lavorare”. Presero casa senza l’aiuto dei genitori?
Il Sud fu tradito
La colpa è di Garibaldi. La
prima – e forse anche più corretta – impostazione della “questione meridionale”
è di Bakunin. Di un articolo che il rivoluzionario scrisse nel 1868,
intitolandolo “La situation” (ma anche “La valanga”), ora in “Viaggio in
Italia”, pp. 120-121: “Nel 1860 Garibaldi arriva fra le popolazioni del
Mezzogiorno, abbrutite dal più infame servaggio, immiserite dai più ingiusti privilegi
sociali, abbandonate al fanatismo religioso dai piani chimerici dei suoi
despoti. Dinnanzi all’eroe, le armate
ripiegarono e il vecchio trono dei Borboni prima vacillò e infine crollò al
suolo. Fu allora che intraprese una marcia trionfale da Marsala a Napoi fra le
masse attonite che si affollavano sul suo cammino, mentre egli con le sembianze
del Cristo le catturava con il suo sguardo affascinante e le abbeverava con
parole di redenzione e di vita. La parola libertà non mancava, così come non
mancavano quelle che promettevano il future benessere, più volte ribadite da lui e dai suoi. E i poveri
schiavi presero a gridare a squarciagola
una formula per essi incomprensibile: «Italia unita». Più tardi, corsero
fiduciosi a deporre il loro sì nelle urne dei plebisciti, atto dal quale si
aspettavano la fine della loro miseria. Ma, lungi dal cessare, questa si fece
ancora più intollerabile, e 9 milioni di cittadini non solo videro frustrate le
loro aspettative, ma capirono di essere stati ingannati con fallaci promesse….
L’azione garibaldina finì con i plebisciti di ottobre che diedero alla dinastia
sabauda il mandato di compiere quell’Italia una e indivisibile su cui avrebbe
esercitato il suo dominio e la sua oppressione. Cosa che fu subito ben compresa
dalla maggior parte dei prodi ufficiali
di Garibaldi, i quali passarono repentinamente nelle fila dell’esercito regio”.
Di Garibaldi Bakunin era
stato e restava ammiratore. Era la prima persona che aveva voluto incontrare
all’arrivo in Italia a gennaio del 1864, dopo l’evasione dal confino in Siberia
– già cinquantenne, arruffato, sdentato, ma ancora gigantesco, e con una moglie
giovane. Era stato tre giorni a Caprera, aveva avuto con Garibaldi lunghe conversazioni,
e nelle stessa raccolta “Viaggio in Italia” dà in breve uno spaccato variegato,
e per ogni aspetto attendibile, del piccolo mondo dell’isola – scorre come in
un film, tra fisionomie, abbigliamenti, abitudini, tempi rallentati, e opinioni
poche, una fauna su cui campeggia “maestoso,
imponente, con un sorriso dolce sulle labbra, il solo a essere lindo, il solo a
essere bianco in mezzo a quella folla bruna e forse un tantino sudicia, Garibaldi,
con la sua espressione profondamente malinconica”.
Il Sud è diventato violento
Il Sud, un tempo mite, ha il
record degli assassinii in Italia, nei dati statistici elaborati da Roberto Volpi su “La Lettura”
– pur in un contesto nazionale molto meno violento che nel resto d’Europa. Ai
primi quattro posti di questa classifica della violenza vengono Calabria,
Puglia, Sardegna e Sicilia. Con un tasso di omicidi per 100 mila abitanti nel
quinquennio 2016-2020 rispettivamente di 0,96 (un assassinio ogni 100 mila abitanti,
venti l’anno), 0,80, 0,78 e 0,55.
Notevole che la temibilissima mafiosissima
Sicilia sia quasi la metà della Calabria. Che la Campania, dove Napoli violenta tiene
banco nelle cronache, venga all’undicesimo posto, alla pari col Lazio e
col Trentino, un gradino sotto la tranquillissima Umbria. Che il Molise, all’ultimo posto, con uno 0,07 per centomila abitanti che
non ha rilievo statistico (un omicidio occasionale) si raffronti con uno 0.45 nel
finitimo Abruzzo.
Della Calabria “La Lettura” non rileva
il vezzo o vizio antico di detenere armi, denunciate e non.
Aspromonte
Condivide
il nome con la Provenza, da cui probabilmente lo ha mutuato – nella “Chanson d’Aspremont”
che i Normanni commissionarono per illustrarsi nella “Crociata dei Re”, la
terza, attorno al 1190. E anche qualche nobilastro tra gli avi dei Sade. Ma non
ne ha la grazia. Cioè ce l’ha, ma non ne beneficia.
Uno
sviluppo analogo fu prospettato al principe di Monaco Alberto qualche anno fa –
un affare come quello dell’Aga Khan in Sardegna negli anni 1960. Alberto è venuto
a vedere, e se n’è andato.
La
gente è senz’altro diversa - somiglia alla Provenza quale è diventata oggi (la
Provenza ha cambiato radicalmente genos quarant’anni fa, con l’abbandono
delle campagne ai nordafricani): un melting pot. Nome inglese, quasi grazioso, per nascondere congregazioni
eterogenee. Nell’Aspromonte saraceni inselvatichiti, ebrei convertiti, papas
insabbiati di quando la messa era ortodossa – Papalia è il cognomen probabilmente
più diffuse sui costoni della Montagna - e albanesi, epiroti, slavi del Sud. Divisi
perchè sospettosi – o viceversa.
Il
comico fiorentino Panariello da Fazio racconta l’aneddoto della vacca che in
Calabria per una buona mezz’ora gli impediva il passaggio con la macchina. Si
confonde un po’ sulla geografia: dice di aver preso la superstrada
(“l’autostrada”) Lamezia-Catanzaro (“là dove si restringe, dovevo andare a San
Luca” – Panariello a San Luca?), che a un certo punto si interrompe, come tutti
i cantieri italiani, e allora si avvia per “una stradina”, che è invece l’ottima
statale 280 dei Due Mari. E infine, insomma, l’aneddoto non gli viene bene, per
dire che si era sperduto dice, “beh, ragazzi, ero sull’Aspromonte” – che dista
un bel po’ da Lamezia, e anche da Catanzaro. Come dire in un labirinto, in un
inferno.
Vive
ancora come Pasolini lo classificava indirettamente sessant’anni fa, là dove
parla - fa parlare Orson Welles ne “La ricotta”, 1963 - dei “borghi abbandonati
degli Appennini e le Prealpi”. I borghi non sono più abbandonati, anzi tornano a
essere abitati, ma è come se l’Aspromonte lo fosse. È abitato, ma nella
disattenzione, nell’indifferenza. Il sogno non c’è, quello prospettato al
principe di Monaco e quello del Parco Naturale - non c’è più. E quindi non ci
si pensa.
Molti
borghi però sono cambiati dal tempo di Pasolini, nelle Prealpi specialmente. E
anche nell’Appennino, fra Toscana ed Emilia, e nel Monferrato pre-appenninico. In
meglio: si curano, si vitalizzano. S’imbelliscono. Fanno fruttare la socialità,
per un sorriso se non per un beneficio economico.
Le
Langhe già abbandonate, tenute in vita da spose dell’Aspromonte, si sono fatte
un giardino, ricco oltre che bello.
leuzzi@antiit.eu