sabato 13 maggio 2023
Quando Pisani (il capo della Polizia) era camorrista
“La cattura del superricercato Zagaria è coordinata da Vittorio Pisani ma non si dice. Non si deve dire. Perché Pisani l’anno scorso, appena catturò l’altro superricercato Iovine, fu dimesso da capo della Mobile a Napoli e allontanato dalla città, su iniziativa della Procura di Lepore, dalla giudice Maria Vittoria Foschini. Che l’accusarono di avere troppi contatti coi camorristi. Infatti, come si sa, i capi della camorra si catturano con lo Spirito Santo.
Ombre - 667
Gustavo
Zagrebelsky, giudice costituzionale di Scalfaro, il presidente beghino, invita
alla disobbedienza civile sul riconoscimento dei figli delle coppie omogenitoriali.
Da un estremo all’altro, o che (non) si fa per un like. I social non sono nati con la rete.
“Elly
e l’armocromia: l’attenzione al guardaroba non è un vezzo borghese”, Lilli
Gruber, “7”. È aristocratico?
È
curioso come Fratelli d’Italia e Lega, che governano insieme, reduci da una
decisa vittoria elettorale con liste concordate, e con la prospettiva di un
solido governo di legislatura, vadano volutamente alle amministrative in
concorrenza in molte città, Massa, Siena, etc., cioè alla sconfitta sicura. La passione
politica – di partito, dei capipartito – prevale sul governo, sul potere. Il
problema della governabilità in Italia non è di leggi elettorali –
presidenzialismo? premierato?
“la
Repubblica” fa una pagina sul dildo e l’onanismo femminile, e a fronte ci
piazza una pagina con il cardinale di Bologna Zuppi. Che naturalmente parla
dell’amore di Cristo. Una pernacchia, cattiva. Il cardinale è amico del papa
Francesco, ma non è un fesso – è il presidente eletto dei vescovi italiani. Forse
crede troppo.
Si
merita una pagina e Conchita Sannino su “la Repubblica” l’operaio di Castellammare
di Stabia che ha fato indossare la giacca della sua tuta di lavoro a Elly Schlein,
l’ha presa in braccio, “come ha fatto benigni con Berlinguer”, e di fronte a
un’équipe fotografica di passaggio, si è con lei immortalato tra le risate. Che
malinconia. Schlein, se ha deciso d’investire in immagine, non potrebbe
modernizzarsi?
Nella
pagina a fronte dello stesso giornale l’onesto Augias recensisce la riedizione
di Bobbio, “Destra e sinistra”. Non potendo fare a meno di rilevare che tanti anni
sono passati – per il saggio di Bobbio. E che “il tema dell’uguaglianza è oggi
più complicato di quanto fosse in epoche lontane”. Anche molto lontane – “il fascismo
provò a innestare su una politica reazionaria alcuni istituti sociali”.
Von
der Leyen va a Kiev e altrove e parla inglese.
Perché Bruxelles parla inglese, se l’Inghilterra l’ha rifiutata e la
disprezza?
Si
sbaglia o è saggia politica acculare la destra al governo alla reazione, e anzi
al fascismo? Da posizioni fasciste, per esempio in molti media. Dichiararsi di
sinistra non esime, libertà e uguaglianza vigono anche per la sinistra dichiarata
– arroccata, presuntuosa. Uno pensa a Berlinguer, il santino degli ultimi
comunisti, e gli viene la pelle d’oca.
Dividendi
corposi sul 2022, ma con sorprese. Unicredit paga poco meno di un euro, e in
cassa arriva più o meno tutto, 73-74
centesimi, pagata la ritenuta d’acconto. Stellantis paga ben 1,4 euro, ma in
cassa arrivano solo 82 centesimi. Stellatis ha spostato al sede in Olanda
perché il fisco è più generoso. Per chi?
La
Fiat emigra in Stellantis, che emigra in Olanda, e la finanziaria di famiglia Exor,
padrona di Fiat, anch’essa di diritto olandese, si paga il dividendo intero, o poco
meno. Il comune cassettista paga invece la ritenuta d’acconto e anche la doppia
tassazione, a intermediario non residente. E questo è il mercato – o lo Stato
del mercato (in Sicilia si direbbe cornuto e bastonato).
Dunque un miliardo e mezzo
di persone si sono collegati per vedere il nuovo re inglese. Una cerimonia da
niente, i bambini della famiglia reale si annoiavano. Annotata, almeno per l’Italia,
da dozzine si commentatori sulle maggiori reti tv. Non c'è proprio niente di
interesse al mondo?
La principessa Meghan, la
nuora americana del re, in contemporanea si postava in abbigliamento da
trekking, suggerendo il sudaticcio ma non troppo, con indosso i gioielli di
Diana, la defunta suocera. In che mondo siamo caduti. Poi dice che gli
anarchici non hanno ragione.
Murgia,
molto malata, spera solo di morire dopo la caduta del governo Meloni, per potersela
godere. Meloni può così augurarle di vivere molto. Eleganti scambi di cortesie
– femminili anche, checché ne pensi Murgia. Ma lei vuole la fine di Meloni, o
le fa propaganda?
Protesta
il Pd contro il governo per lo spoil system, perché cambia i manager
pubblici. Ma se li cambia, se ne cambia troppi, non è perché erano tutti Pd?
Non
si può parteggiare per Trump, ma vederlo condannato per aver fatto pagare una
prostituta e per le fantasie di una signorina ottantenne molto intraprendente
ai suoi anni, fa impressione. In quello
che si autoelegge il tempio della libertà .
Trump,
oltretutto, figura un ingenuo di fronte alle querelanti e ai loro giudici.
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Feynman, la Fisica spiritosa
Lightman,
un fisico anche lui, ricorda Richard Feynman, il Nobel per la Fisica 1965, a 47
anni, pioniere del computer quantistico, coniatore della nanotecnologia, concetto
e pratica, scrittore brillante e vivace, per “il suo stile”, o modo d’essere: “cocciuto,
irriverente, grezzo, incolto, orgoglioso, scherzoso, intensamente curioso, e
molto originale in praticamente ogni cosa che facesse”. Incolto no, e nemmeno
grezzo: i suoi libri, che si continuano a vendere, lo dicono il contrario.
Anche ottimo scrittore: i suoi libri “da banco”, briosi, perfino umoristici, e precisi,
hanno rianimato gli studi di Fisica, in America e fuori.
Un
saggio del 17 dicembre 1992, per i cinque anni della morte di Feynman nel 1988,
settantenne, sulla vita, il lavoro scientifico e matematico, e il “personaggio”.
L’inizio della mitizzazione di “un genio matematico la cui propensione per
comportamenti eccentrici hanno prodotto centinaia di «storie di Feynman», che i fisici si passavano di bocca in bocca”.
Alan
Lightman, The One and Only, “The New
York Review of books”, free online
venerdì 12 maggio 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (525)
Giuseppe Leuzzi
Grandi Eventi in contemporanea l’incoronazione
del re britannico e lo scudetto del Napoli. Non cattivi né offensivi. L’uno si
può dire aristocratico, l’altro popolare. Entrambi in qualche modo genuini, non
artefatti, pubblicitari: richiamano sentimenti autentici, non offrono niente da
guadagnare. Ma entrambi malinconici. Perché passatisti? No, niente che li colleghi.
Nella vittoria del Napoli c’entra anche la bella squadra, il bel calcio. Perché
non c’è altro entusiasmo. Ma nel caso dell’Inghilterra è per un declino, nel
caso di Napoli per un’incapacità o impossibilità.
Il giuridicismo (burocratismo)
del “codice appalti” che il governo Meloni prova ad allentare, è particolarmente
letale nel Meridione – è soprattutto al Sud che i cantieri non finiscono mai.
Non in tutto il Sud, in alcune sue regioni – le stesse che forniscono la burocrazia
di Stato, leguleia: Sicilia, Campania e Calabria. Non in Abruzzo, o in
Sardegna, in Puglia, in Basilicata, che in effetti è un Sud che prospera.
Il Sud vittoriniano
Roberto Roversi ha, nella
prefazione a Ignazio Buttitta, “La paglia bruciata”, “una Sicilia vittoriniana”:
“La terra dell’emigrato che ritorna per un momento, luogo di transito, di
educazioni composite e capovolte; centro di memorie, di qualche struggimento di
cuore; e, nonostante tutto, di rapidissime fughe (in avanti)”.
Molti in effetti vivono
altrove, a Milano o a Roma – e pensano “altrove”, anche se parlano più spesso
del Sud. Lo stesso Sciascia ci ha provato, a Roma in vari momenti. Il più
siciliano di tutti, Camilleri, è stato romano per quattro quinti della sua
vita, se non cinque sesti. La Capria pure, che molti identificano con Napoli.
Il Sud nelle lettere e nelle
arti si preferisce emigrate. Con ritorno
certo, ma momentaneo. Anche questo contribuisce all’immobilità apparente del Sud,
alla fissità, immemoriale.
L’unità ha fatto male al Sud
È una verità nota, che si
dice non dirimente. E invece significa, molto: le cifre hanno una loro verità,
inoppugnabile. Nel 1861 il reddito pro capite era nel Sud all’incirca uguale a
quello delle regioni settentrionali – la media nazionale non registrava grossi
scostamenti, se non in un paio di province del Nord, alpine, ma allora al
ribasso.
Ancora trent’anni dopo, nel
1891, il livello di reddito pro capite era in Lombardia uguale a quello della
Campania, a un indice 111 contro il 110 di Napoli, rispetto alla media nazionale
fatta 100. Il Veneto era a quota 79, la Sicilia a quota 81.
Oggi la Lombardia è a un
livello 124 rispetto alla media nazionale, la Campania al 64. Il Veneto è a
quota 112, la Sicilia a quota 60 - meno della metà della Lombardia.
Tedeschi e albanesi pari non sono
Racconta Al Bano a Cazzullo
sul “Corriere della sera” che deve il nome alla prigionia del padre in Albania
– “me lo hanno staccato quando entrai nel clan di Celentano, all’americana”. Il
padre era militare in guerra in Albania. “Gli albanesi gli aprivano le loro
case, lo facevano dormire nella paglia, lo sfamavano con il granturco”. In
licenza, “fece la fuitina, e fui concepito io” – “un amore immenso”. Tornato in
Albania, “era analfabeta, imparò a scrivere per scrivere a lei”. E quando seppe
dell’attesa scrisse: “Gli albanesi mi hanno salvato e se avremo una femminuccia
la chiamerai Alba, se un maschietto Albano”.
Poi, dopo l’8 settembre, il
padre finì prigioniero di guerra tedesco nel capo di Wletzar - la città dei
“Dolori del giovane Werther”. “Partì che era un omone”, dice Al Bano, “ritornò
che pesava 42 chili”. E una volta, quando Al Bano era già adulto, gli spiegò: “A
me i tedeschi mi hanno pestato a sangue, con il calcio dei fucili, per due scorze
di patate che avevo raccolto”.
I “caratteri nazionali”, primo
libro a fondamento della “Storia d’Italia Einaudi” in dieci tomi, sono una
categoria storiografica discutibile. Discutibili anche come categoria sociologica.
Perlomeno nella forma sempliciotta del “modi di pensare”. Personalmente l’esperienza
se ne è maturata grata, ma inconsistente, e al fondo non simpatica. “Lei non sembra
italiano” per la prima volta a quindici anni in Costa Azzurra, in campeggio,
dai genitori di qualche bella ragazza. O ai vent’anni a Parigi dalla famiglia
di un conte di una cui figlia era fidanzato quasi in casa, oltre che dai
tassisti. E a Londra, sempre e ovunque, e in Germania. Intervallato da “lei non sembra meridionale”, a Firenze, e poi a Milano, anche in epoca pre-Lega. Ma
evidentemente ci sono delle connotazioni tribali persistenti. Di attitudini, linguaggi,
sentimenti.
Napoli
Ha tenuto l’Italia in sospeso
per un mese e oltre, Pasqua compresa e tutti i “ponti”, Roma senza prefetto, i media
trepidanti, sfidando ogni scongiuro, per festeggiare lo scudetto. O meglio, la
smorfia l’ha pure messa in campo, giocando sulla Lazio, se perde, e sul Napoli,
se vince. Ma un mondo ha confermato che solo si occupa di festeggiare: malgrado
quello che si dice, da Troisi a Salemme, non sono gli altri che “fanno” i napoletani,
Napoli non ha complessi – non gliene frega nulla di nessuno.
Negli stessi giorni Genova
mandava in serie A una sua squadra e in B l’altra. Senza drammi - il calcio è
pur sempre uno sport, si vince e si perde. E si dotava di un “avamporto” da 1miliardo
e 300 milioni, che ne fa il più grande scalo del Mediterraneo – cioè si
raddoppia il porto.
Ma si è smentita sullo
scudetto: nessun rispetto per gli scongiuri, è festa subito, una, due, tre
volte. La Lazio si perde a Milano, e
niente, il Napoli non vince una facile partita. La Lazio perde a Roma, il Napoli
fatica a Udine, ma non importa, è fatta. Anche a fronte dello scongiuro vince
la voglia di festa. Anche il vecchio cliché,
ma non è un cliché, del napoletano lesto
di mano, è fare la festa, agli altri.
Per quanto, trecento al
Pronto Soccorso la notte della festa sono un po’ troppi. Napoli vuole imitare
Rio, ma le conviene – Rio è un inferno?
Un napoletano trapiantato a
Palermo, Ciro Di Vuolo, scrive mezza pagina su “la Repubblica-Palermo” per celebrare
un incontro casuale con Maradona, la moglie Claudia e il cagnolino. All’allora
bambino Ciro, Maradona dà una pacca: “Con un po’ di insofferenza mi diede la
pacca sulla spalla salutandomi”. Delusione. Poi l’illuminazione: “Quando Enrico (l’amico. n.d.r.) mi disse «ti ha
toccato» capii che mi aveva fatto un regalo. La maglietta che indossavo toccata
da Diego ovviamente non è stata più indossata né lavata”. A volte Napoli è simpatica
malgrado i napoletani.
Manifesti a Udine, Bergamo, Varese,
Torino hanno messo in guardia da festeggiamenti per il campionato vinto dal
Napoli. Sono cose da “ultra” – lo stesso avviso è comparso a Salerno – e probabilmente
di pochi. Ma quello di Bergamo è dettagliato: “Ricordiamo ai ristoratori, baristi,
pizzaioli che per festeggiamenti e pagliacciate varie arriveranno adeguate
risposte” – “anche a distanza di tempo”.
Un capolavoro invece il
trionfo del Napoli calcio è di management. Di una proprietà oculata, intelligente,
con investimenti giudiziosi – non i miliardi sprecati da una Juventus, e i
debiti. Cedendo anche giocatori importanti, e sempre rimpiazzandoli al meglio.
Dura con le bande ultras, i Gennaro ‘a
carogna, gli assassini di Roma et al.,
la varia coltura che non ha nulla di pittoresco, giusto violenza.
Il torinese Soldati celebrava
il primo scudetto del Napoli nel 1987 ricordando la sua personale scoperta della
città: “Cominciai a identificare spontaneamente l’Italia tutta con Napoli nel
lontano inverno del 1931. Ero a New York. A lungo, e invano, avevo cercato di restare
in America”. Respinta la pratica per la cittadinanza, era stato espulso: “Fui
imbarcato su una nave mercantile come working
passenger, passeggero lavorante”. Tristezza, avvilimento, disperazione, da
deportato. Ma già alla scaletta cambio d’umore, ascoltando una canzone. Che “un
marinaio cantava, nell’aria gelida della prima mattina”. Era “Solo per te ,
Lucia” – scritta da Bixio per il primo film sonoro italiano, “La canzone dell’amore”.
Quella canzone, “napoletana e italiana, quella mattina mi rivelò, una volta per
sempre, che Napoli è il cuore dell’Italia”.
Anche La Capria celebrava sul
“Corriere della sera”, come Soldati, lo scudetto 1987. Commosso anche lui. Ma
poi perplesso, “dopo che il dì di festa è passato”. Per “l’immagine di Napoli”
che vi veniva collegata, “vecchia, convenzionale, folcloristica, che ricorda i tempi di Lauro”. Un’immagine che “sta bene a tutti: ai giornali, alla
televisione, e all’Italia, perché ribadisce un pregiudizio radicato e una serie
di luoghi comuni collaudati”.
Volendo complimentarsi nel
1771 con l’abate Galiani per un trattatello che le aveva inviato sulla condizione
femminile, Abbozzo di un dialogo sulle donne”, Madame d’Èpinay scrive
all’abate, a Napoli: “È ben evidente che non ha l’aria di essere stato scritto
a Napoli, ma a Parigi”. Le parti erano già date nel Settecento.
“Intelligenza, spiritosità, superficialità e serietà insieme, generosità, curiosità culturale, naturale disposizione alla causerie”, è ciò che fa il buon napoletano secondo Antonio Altamura - laureato honoris causa della Sorbona, autore del Dizionario Dialettale Napoletano (nome improprio perché per lui il napoletano è una “lingua”), nonché di una Grammatica Napoletana e di un Vocabolario Italiano-Napoletano – nella premessa alla sua raccolta di “Frizzi e sorrisi dell’abate Galiani”. E questi i difetti: “Pigrizia, superstizione, maldicenza, instabilità di carattere, scetticismo”. Cioè? Il troppo piccolo è troppo grande – è il problema (oggi la chiave del successo) del provincialismo.
leuzzi@antiit.eu
C’erano tre milioni di russi in Italia, comunisti
Una triplice crisi, politica, familiare, registica, “faccio un film ogni cinque anni”, e Moretti ritorna se stesso, dopo aver tentato il “dramma borghese” (?). Un po’panciuto, ma col vecchio lampo - proprio quello degli inizi, woodyalleniano: lo sguardo fisso, ironico, tagliente, con le battute da compagno ripetente un po’ fissato che “tagliano la testa al toro” (?), sentenzioso, minaccioso. Situazioni, monologhi e battute a ripetizione. Leggere e insieme acute.
Un
cabaret filmato. La
“vecchia” ricetta “Caro diario” ma non più a episodi, con una storia, un filo conduttore: “Siamo
stati comunisti”. Si inizia con il grande tavolo degli sceneggiatori e collaboratori,
uno dei quali chiede: “Ma ci sono stati comunisti in Italia?” E all’assicurazione
che sì, che nel 1956 c’erano tre milioni di iscritti, si meraviglia: “C’erano
tre milioni di russi in Italia….”.
In
filigrana un sasso grosso nel pantano della dimenticanza. Si trascura – non è
corretto? non conviene? c’è una censura? – che abbiamo avuto per molti decenni,
e di rilievo condizionante per la Repubblica, un partito sovietico. Il “sol dell’avvenire”
è quello che non si è alzato nel 1956, alla prima manifestazione arrogante dell’imperialismo
sovietico, in Ungheria. Prima o poi se ne dovrà pure parlare, ci sarà ancora
qualche storico in Italia, e Moretti ha cominciato. Nella scena finale già famosa, primo annuncio del nuovo film in lavorazione, con la sfilata ai Fori sull’elefante, sullo sfondo del Colosseo, produce un
caleidoscopio di facce - amici, parenti, teatranti, Bonaiuto, Carpentieri,
Rohrwacher… - di cui alcune in maschera, da Togliatti, Iotti, Pajetta, come a
dire: nel 1956 c’erano, sono loro che vollero il partito sovietico.
Ma
la politica non avvelena il resto, che è molto. Molte le scene da cult. Il Grande Autore - al cellulare con i sommi, Scorsese, Piano. Il pater familias che nessuno si fila – lasciato solo col gelato della Gourmandise monteverdina, a via
Cavallotti. Il padre distratto - o la scoperta della figlia. Lo psicologo. Il compagno moralista. Lo zoccolo - il sabot. Netflix e i tempi della narrazione, i minuti, i secondi.
Curiosamente,
il pubblico non ride. E sembra apprezzare, dall’applauso finale che pare sia di
prammatica (?), il film come un “amarcord”. Mentre invece è una critica – una “critica
feroce”, come si dice siano le critiche. Morettiana, col ghigno frontale, dell’occhio
fisso, finto tonto - da trickster, la dimenticata maschera Giufà.
Nanni
Moretti, Il sol dell’avvenire
giovedì 11 maggio 2023
L’Europa abbaia a Pechino
Che
farsene della Cina? Posta in Europa, la domanda è di una Lilliput che signorialmente
guarda al mondo gigantesco di Brobdingnag. O come il cane che abbaia alla luna. Tanto più
che l’Europa se la pone perché gli Stati Uniti le impongono di porsela. Non
impongono, la consigliano, la suggeriscono, la gestiscono, con interventi
quotidiani, diretti e indiretti, di centri studi, esperti, specialisti, giornali
e giornalisti fidati. Su nessuna base convincente: perché fare la guerra alla
Cina? Boh. Ma l’Europa diligente vi si appresta. Anche se, peggio ancora, al modo
europeo: se la pone in Germania per fregare la Francia, e viceversa - e ora stanno
col fiato sospeso, dicono, fingono, contro l’Italia: cosa farà Meloni, che
aspetta a denunciare le intese con Pechino?
Questioni serie, come
la sfida di Biden alla Cina su Taiwan, e pericolosissime, vengono viste in
Europa come un gioco di Risiko. Per superficialità, di un’opinione pubblica forse
infetta e comunque incapace, più che sciocco bellicismo. Ma l’esito è un modo europeo
di fare politica estera ancora ottocentesco, di interessi nazionali vissuti in
ottica di primato, della Francia contro l’Italia, o contro la Germania, eccetera.
In Germania gli
azionisti pongono all’assemblea Volkswagen il problema etico di produre
automobili in Cina, avvantaggiandosi dello “sfruttamento etnico” degli Uiguri
nello Xinchiang (la geografia non collima ma l’accusa è questa). Gli azionisti
essendo pochi, pochissimi, quattro o cinque, con poche azioni. Un gruppo di
pressione che ha acquistato qualche azione per poter intervenire in assemblea.
Per conto di chi?
Volkswagen non se ne
dà colpa (ha le spalle larghe, sa di che si tratta), e continua a fare della
Cina il suo maggiore hub produttivo –
unicamente impensierita dal calo delle vendite a causa del covid, del lungo lockdown cinese. Del resto il cancelliere
Scholz, nonché non denunciare gli accordi (che ora l’Italia dovrebbe
denunciare) con la Cina, vi si è recato in pompa sei mesi fa, con corteo di
imprenditori e banchieri. E l’effetto, uno degli effetti, si vede oggi, con l’entrata
della cinese Cosco nella proprietà del porto di Amburgo.
L’Europa risponde
singolarmente alle pressioni americane. E al suo modo, tentando di fare le
scarpe al vicino europeo, o metterlo in difficoltà. Il presidente francese
Macron, e poi il premier spagnolo Sanchez, si sono subito organizzati, dopo la
sortita di Scholz, e hanno arrangiato proficue trasferte a Pechino. Macron si è
vantato di portare indietro intese e veri e propri accodi industriali in ben 51
punti.
Tiro sui servizi inglesi
“Sono
stato a Mosca solo due volte”, è l’incipit del § 17 delle memorie di Le Carré,
“Tiro al piccione”: “la prima nel 1987quando grazie a Mikhail Gorbaciov la vita
dell’Unione Sovietica stava finendo, e tutti eccetto la Cia lo sapevano”. Lo
scrittore famoso per la guerra fredda visita la Russia alla fine della corsa, e
alla prima o seconda frase spregia la Cia.
Lo
scrittore emerito dei romanzi di spionaggio non sopporta le agenzie di
spionaggio. Più che altro, Le Carré fa in queste tarde memorie i conti con i
suoi diavoli interiori. Con i servizi segreti, che pure ha scelto di servire, a
25 anni, probabilmente il candidato più giovane, assunto in quanto germanista –
insegnava tedesco a Eton, fu assegnato a Vienna e a Bonn - prima di decidere
che poteva sopravvivere senza servire, da scrittore. E con il padre. Con questi
forse più che con l’MI 5 e l’MI 6 e della Cia, insolentiti anche nei romanzi. Anche
se, ritiene e spiega al primo capitolo, lo spionaggio è il cuore e il beniamino
della vita inglese: “In Gran Bretagna i nostri servizi segreti sono sempre, per
il bene e per il male, il centro spirituale della nostra élite politica,
sociale e industriale”. Ci sono anche molti giornalisti spie, americani e
inglesi.
“Storie
dalla mia vita” è il sottotitolo. Una scelta, insomma. Soprattutto di storie
spiacevoli, seppure riprese con garbo, e più profusamente di storie legate ai romanzi.
Come ne ha avuto l’idea, e come le ha indagate e approfondite. “Teatro del
reale” ricorre nei titoli di vari capitoli, in Cambogia per “La Talpa” e “Il
giardiniere tenace”, con Arafat e l’Olp per “La tamburina”, la Russia di
Gorbaciov, con Sacharov, per “La casa Russia”, la Russia dei gangster e dei ladri
(vori) per “La passione del suo
tempo”, “Single&Single”, “Il nostro traditore tipo”. E così via.
I
primi ricordi sono sui contorni, gli appigli, i personaggi reali, le
motivazioni delle sue prime spy stories,
quelle che hanno creato il marchio “Le Carré”, “La spia che venne dal freddo”,
“Lo specchio delle spie”, “Una piccola città in Germania”. Con Smiley, il
personaggio “rivelatore”ella miseria dello spionaggio. Sono i ricordi più
sentiti, o meglio raccontati. Con gli anni passati a Bonn segretario
d’ambasciata e poi a Berlino, sempre come spia, ma con compiti ridicoli e
ridicolmente portati a termine.
Il riesame è sconsolato del duello anglo-russo. In
casa, con i casi celebri delle spie inglesi doppiogiochiste. Compresa una
coppia di virtuosi comunisti, che controllano i compagni contro la imminente
invasione sovietica - Londra ha sempre bisogno di un nemico continentale: la
Francia a lungo, poi la Germana, ora, da ottanta anni, la Russia. Ma prevalentemente in ambito germanico, Vienna, Berlino,
anche Bonn. Complice il Bnd, il servizio tedesco di controspionaggio – sul
servizio Le Carrè inserisce un pezzo di storia, spiegando come e con quali
personaggi, tutti nazisti, si è costitutio e ha agito (ma questo, i tanti
nazisti professi in auge nella Repubblica Federale è un tema di molti capitoli, di molti
ricordi). Compreso, per “La Tamburina”, l’incontro a lungo ricercato, in una
prigioen israeliana ignota ai pià, “Villa Brigitte”, di una bionda, formosa e
stupida Brigitte, terrorista tedesca della Banda Baader-Meinhof, di poca
utilità per la creazione di Charlie, la “tamburina” indomita di tutte le
rivoluzioni.
Molto meno, se non niente, Brigitte ha suggerito a Le Carré rispetto a quanto gli ha apportato per Charlie, la “tamburina”, la sorellastra, la sua propria sorella, Charlotte Cornwell – Le Carré è all’anagrafe David Cornwell. Poi sfortunata interprete del film che dal romanzo fu tratto. Sfortunata per il fallimento registico: “David, ho fottuto il tuo film”, gli confessa George Roy Hill, il regista di “Butch Cassidy”, da Le Carré fortemente voluto con la produzione. Più che alla sorella, solo qui ricordata, molti accenni sono al padre, inviso: un superficiale rovinafamiglie, specialista di truffe, specie a danno di amici. A Mosca è ricordato anche il fratello Rupert, che era già stato corrispondente, italianista, del “Financial Times” a Roma.
Ricordi, scritti quasi di malavoglia. Anche se di situazione e personaggi tutti per qualche motivo bizzarri e unici. Particolarmente acidi quelli iniziali, di materiali poi rifusi nelle prime stories”, dei servizi inglesi, specialmente inetti (ma la cosa riguarda l’MI 5, la intelligence interna, che Le Carré mostra tanto incapace quanto boriosa, mentre ha stima dell’MI 6, il servizio di controspionaggio, al quale è passato dopo un apprendistato all’MI5 – che è quello che gestisce ora in buna misura la nostra guerra in Ucraina, per l’informazione, e per la formazione e l’armamento della difesa ucraina).
Più scoraggiante che brillante. A parte pochi personaggi
e ambienti. Un Cossiga ultravero, ciclotimico e democristiano (non interessato
a persone non di potere, e quindi allo stesso scrittore che i suoi diplomatici
gli avevano invitato), col corteggio quirinalizio di Sua Eccellenza il
Presidente. Martin Ritt. Richard Burton. Alec Guiness. Bernard Pivot, il
ritratto più disteso. I discussi Murdoch e Robert Maxwell. Altri che per qualche aspetto ricorda ancora con piacere,
tra essi soprattutto la dimenticata Yvette Pierpaoli, con Sacharov. E bizzarramente con Arafat, che
è tutto l’opposto, o Le Carré lo ricorda come tale, di quanto si ritiene:
appassionato, semplice, diretto, niente del capoterrorista. “Ho cercato di fare del mondo segreto che un tempo conoscevo
un palcoscenico per i mondi più ampi in cui viviamo” è il modesto proposito.
Il capitolo
finale è una lunga, drammatica, evocazione del padre filibustiere e della madre
assente, si direbbe tragica per molti aspetti, ma riesce inossidabilmente
inglese - understated? fatua.
John
Le Carré, Tiro al piccione,
Mondadori, pp. 320, ril. € 20
mercoledì 10 maggio 2023
Guerre latine, poco serie
La guerra della Spagna, e della Francia, all’Italia
è un film grottsco di Gianni Zanasi, “WAR – La guerra desiderata”, presentato
qualche mese fa alla Festa del Cinema di Roma. Da ridere, ma con qualche verità.
Un progetto del 2019 contro l’idea di guerra, e realizzato dopo il covid, tre
anni dopo, nel clima della guerra europea, della guerra in Ucraina. Prendeva
cioè l’idea di guerra nella sua maggiore implausibilità. Ma non è così,
evidentemente. Non tra le nazioni latine.
Le “nazioni latine” sono tema
riprovevole per i media e molta opinine pubblica nell’Europa che conta, che si
chiami Nord Europa o Europa tedescofila. Ma è tema evidentemente di qualche
fondamento.
La superficialità delle politiche
in Francia e in Spagna nei confronti dell’Italia si giustificano con ragioni politiche:
sinistre contro destre. Ma le critiche francesi vengono da un partito che non
si sa cosa sia se non che non è di sinistra, quello del presidente Macron. No, è
che i latini non hanno un concetto dell’opportunità – della convenienza: parlano
come gli viene.
Dal punto di vista politico le
critiche oggi da Parigi e da Madrid, teoricamente da sinistra contro Meloni, invece
la rafforzano. Funzionano come palle alzate all’avversario nel tennis per uno smash, un pallonetto per una schiacciata. Mettono anche in imbarazzo le opposizioni in Italia: le critiche del Pd alle politiche del lavoro di Meloni devono essere sospese - come già sono state sospese quelle alle politichee della immigrazione.
I Popolari Ue verso Meloni
Si va
sempre più a un’alleanza tra Popolari europei e Destra conservatrice alle
prossime europee – come questo sito anticipava, da segnali inequivocabili
http://www.antiit.com/2023/02/il-grande-centro-si-aggrappa-meloni.html
I Popolari, che oggi governano la Ue in alleanza con i Socialisti, si sono fatti
i conti, e puntano a restare al governo della Ue, in Parlamento e in Commissione,
con la Destra conservatrice. Che Meloni rappresenta in proprio, come capo del
governo di destra in Italia, e anche come presidente dei Conservatori europei. Il
capogruppo dei Popolari al Parlamento europeo, Manfred Weber, da subito in
contatto con Meloni, ieri lo ha detto in aula a Strasburgo.
Weber
ha parlato dopo il cancelliere Scholz, che governa ora in Germania senza i
Popolari (i cristiano-democratici e i cristiano-sociali, Cdu-Csu). Punta quindi
a una rivincita politica in Germania partendo da Bruxelles. Ma perché dà per
scontato che, con lo spostamento dell’Italia, il Ppe sarà in grado di governare
con i Conservatori dopo il voto europeo fra un anno. Meloni ha molto spazio in Europa.
Più lavoro, meno qualificato
Continua
la carenza di manodopera in Italia, come altrove in Europa e negli Stati Uniti.
Soprattutto nei servizi alla persona e all’accoglienza – attività sanitarie e
alberghiere. Mentre continua, negli Stati Uniiti e ora anche in Europa, la
riduzione del personale del settore high-tech.
Amazon,
che ha ridotto il personale di 18 mila unità a fine 2022, ha in corso altri
tagli per 9 mila dipendenti.
Meta-Facebook procede cn 10mila tagli, in aggiunta ai 10 mila di fine
2022. Google ne anunicia 12 mila, Ericsson 8 mila. Twitter con Elon Musk alla
prorpeità, quindi in sei mesi, si è ridotta da 8 mila a 1.500 dipendenti.
Accenture ha avviato il licenziamento di 19 mila unità.
In
Italia Sky sta riducendo il personale di 1.200 unità, Vodafone di 1000 unità.
La libertà come arma - o la corruzione del potere
È
il 1947, il Senato degli Stati Uniti discute una legge contro i linciaggi ma
non la approva. Alla cantante jazz Billie Holiday, che ha in repertorio
“Strange Fruits”, una canzone che può essere interpretata contro i linciaggi,
“Strange F ruits”, è intimato di non cantarla in pubblico. Lei lo fa, e l’Fbi
la incastra per possesso e consumo di stupefacenti, e sospetto comunismo, con condanna
a un anno di prigione. Dopo lo scandalo Billie eviterà di cantare “Strange
Fruits”. Mentre si fa sapere che l’innamorato con con cui aveva preso la cocaina
era dell’Fbi.
Un
film dello squallore. Non un legal thriller, mozzafiato. Ma nemmeno
una denuncia. Della grande corruzione, per esempio, della politica americana.
Della giustizia del West – prova a difenderti. Piccoli manager, piccoli mariti
e innamorati, per lo più anche loro neri come Billie Holiday, che quindi si
penserebbero automaticamente vittime ma colludono sempre con gli sbirri, a perseguitare
gli innocenti, e nemmeno si possono dire venduti, non lo fanno per soldi. Un
mondo senza dignità, nel nome della libertà. Sconcertante.
Lee
Daniels, Gli Stati Uniti contro Billie
Holiday, Sky Cinema
martedì 9 maggio 2023
Problemi di base privatistici - 747
spock
Quando tutto sarà privato, saremo privati di tutto - tassista romano?
spock@antiit.eu
L’africano di Pietro il Grande
“Esperimento
in prosa” è il sottotitolo. Il primo tentativo di romanzo di Puškin. E il primo
di tante incompiute – eccetto “La figlia
del capitano” - e tuttavia per molti aspetti opere finite, un po’ come i nonfiniti
di Michelangelo: racconti frammentari che pure tengono.
Il
progetto era di un “Otello” russo all’epoca di Pietro il Grande, della
modernizzazione (europeizzazione) della Russia. Ne rimane un ritratto dello
zar, di vita semplice e di volontà irriducibile, che il rinnovamento volle radicale,
anche violento, e sempre e solo
monocratico. Delineato attraverso le vicende di uno dei dei suoi più stretti
confidenti, Ibrahim, un africano, ex schiavo nativo del Camerun, comprato
bambino a Costantinopoli dall’ambasciatore
russo, l’uomo d’affari serbo Raguzinsky, che
gliene fece dono. La zar rimase colpito dal brio e l’intelligenza del ragazzo
e lo fece consacrare suo figlioccio, curandone personalmente l’istruzione. In
questo abbozzo di romanzo ha fatto un’esperienza di anni a Parigi, per acquisire
gli usi di mondo e l’arte militare, ha combattuto per i francesi in Spagna, ha una
relazione intima con una contessa, e ritorna
a Pietroburgo, a ventisette anni, per la delusione d’amore – la sua relazione
non potendo andare oltre la clandestinità. Fuori Pietroburgo è atteso alla
posta dallo zar Pietro, che ha saputo del suo ritorno. A corte si ritrova
privilegiato tra i privilegiati. E lo zar in persona s’incarica d’imporlo come
marito e genero in una famiglia di Bojardi.
Il
“negro di Pietro il Grande” è il bisnonno africano di Puškin per la parte
materna, Abram Petrovic (come fosse figlio di Pietro, n.d.r.) Gannibal – nome che
si è dato in memoria di Annibale. Che fu di fatto nelle grazie di Pietro il
Grande, divenendone un generale – del Genio, si direbbe oggi, specialista di fortificazioni.
A Parigi fu notato da Voltaire, “la tela scura dell’illuminismo russo” –
procurerà a Diderot, cinquant’anni dopo, l’invito a Pietroburgo alla corte di Caterina
II. È il romanzo di questa ascendenza che Puškin, di famiglia di antica
nobiltà, molto anteriore a quella degli zar, e di forte snobismo, avrebbe
voluto scrivere, l’eredità di Gannibal essendosi trasferita ai suoi tratti somatici,
per più aspetti negroidi.
Un
romanzo, un progetto di romanzo, a specchio. Dapprima il contrasto tra Parigi e
la Russia: una vita ricca a Parigi, lustra di scandali amorosi e finanziari, e
la vasta fabbrica fangosa che era la Russia. Con pochi usi di mondo, ma con un
netto contrasto, voluto dallo zar, tra il russo, che i bojardi parlavano, l’antica
nobiltà, e il francese che lo zar novellamente imponeva a corte. L’abbigliamento
tradizionale dei boiardi, il caffettano, un camicione ampio, lungo fino ai
piedi, e i nuovi abiti “alla francese”, da indossare nelle cerimonie dette
“assemblee”, sorta di balli, a corte e fuori, che Pietro il Grande volle per
immettere anche le donne nella società. Di due giovani mandati a Parigi,
Korsakov al rientro è vanitoso e vantone, sa di essere diprezzato dai bojardi e
li dispezza. Gannibal invece no, li rispetta, e quindi viene accettato e rispettato.
Ed è il ruolo che Puškin voleva, di un’innovazione che non cancellasse la tradizione.
E fa risolvere allo zar con l’oganizzazione del matrimonio del suo figlioccio
africano in una grande famiglia tradizionale. Adolescente a disagio in collegio,
dove veniva anche deriso per i tratti somatici, se ne fa una ragione: il
bisnonno è anche se stesso.
Tra
i tanti romanzi non finiti, di questo Puškin non era insoddisfatto. Ne pubblicò
i due capitoli centrali. Una delle ipotesi sul nonfinito è che Puškin vi temeva
se stesso, il suo possibile degrado a Otello, nella storia tumultuosa del
matrimonio con la giovane, bella, e incostante moglie. Ma siamo nel 1828, è
ancora presto per la gelosia che lo avrebbe portato alla morte, in duello, dieci
anni dopo – il matrimonio con Natal’ja Gončarova sarà nel 1831. Quel che è certo
è che Puškin visse sempre a pieno la sua condizione di mulatto (“octoron” in
inglese, ottavino). Per la carnagione olivastra e i capelli crespi – al liceo
era, in alternativa, “il francese” per i modi ricercati, e “la scimmia”. E per
la gelosia – che legava all’Otello di Shakespeare, quasi fosse una condizione
antropologica.
Si
scherzava va molto a S an Pietroburgo sule origini africane di Puškin. Il romanzo
potrebbe essere stato interrotto alla pubblicazione nell’agosto del 1830, sul
periodico “L’ape del Nord”, di una lettera semiseria di Faddey Bulgarin, che
diceva l’avo di Puškin comprato a Istanbul per una bottiglia di rum. Puškin
reagì nervosamente. Ma era pur sempre il “nome allegro” che Blok sentirà ancora
risuonare, uno che portava “con allegria e gentilezza il suo fardello” – al pettegolezzo
di Bulgarin rispose con orgoglio nei versi “La mia genealogia”.
Alexander
Puškin, Il negro di Pietro il Grande, ebook
domenica 7 maggio 2023
Secondi pensieri - 514
zeulig
Corpo – Pitagora lo vuole la tomba
dell’anima. Ma senza non c’è anima.
Non
solo il sesso, in quanto eros, attività spirituale, richiede un corpo, ma
nessuna attività intellettuale, spirituale, è concepibile – concepita senza i
sensi.
Heidegger – Un passatista,
poetico e filosofico. Tanto pù radicale quanto più è profondo. Un parallelo con
Donoso Cortés, su tutte le questioni che il filosofo della conservazione ha
percorso, la storia, la società, la politica, la nazionalità (il “popolo”), lo vedrebe
ben più radicato, ben più radicalmente – Donoso Cortés può ancora essere un
liberale.
È
– può essere – il “filosofo della transizione”, intesa transizione ecologica, al più verde o al più umano. Ma allora
la transizione è una rete passatista - inevitabilmente del “quanto stavamo
meglio quando stavamo peggio”.
Natura - Mai tanto riverita quanto più
la si trasgredisce – s’intende della natura buona, dell’equilibrio ambientale.
La si trasgredisce e anzi si vuole annullarla, ci si prova, la tendenza è quella, della ricerca, dello sviluppo
scientifico. Nei suoi meccanismi più gelosi, “naturali”: maternità,
procreazione, sesso, intelligenza, sensibilità. O portando all’eccesso la trasgressione
ormai decennale e secolare, del “consumo” del territorio, dell’ambiente (acqua,
aria, terra). Nei grandi progetti (infrastrutturali) come nei comportamenti
minimi, quotidiani. La mobilità automobilistica
o individuale, anzitutto, la più grande distruttrice dell’ambiente –
anche nella forma che ora vi vuole imporre al mercato, per obbligarlo a
comprare, dell’auto elettrica. La moltiplicazione inverosimile delle plastiche, per “valorizzare” (mettere a frutto, guadagnarci
sopra) il petrolio. O, andando ai comportamenti minimi, lo sperpero pauroso di
materiali, carta, plastiche, vetri, dell’industria degli imballaggi, che
produce più scarti di quanta merce trasporta, in quantità, volumi e peso se non
in valore.
Si
sa della scienza che è una lettura della natura, ma anche, nelle applicazioni
pratiche, nella sottospecie della tecnologia, la sua domatrice e
trasformatrice.
“Naturale”
fu a lungo sinonimo di umano, nella filosofia, nel diritto. Come opposto a un
ordinamento critico, intellettuale, su scala teologica, o di morale “superiore”
– religiosa. In Giordano Bruno e in Bernardino Telesio, ma anche in sinceri
credenti come Campanella - e probabilmente lo stesso Galileo, che scrisse molto
ma evitò la filosofia.
Ma,
seppure non dichiarata, senza appelli alla natura, la stessa via era stata un
secolo prima di Erasmo e di Machiavelli. Di una naturalezza come laicità –
quella che sarà chiamata laicità. Che separa il divino dall’mano, e insieme li
raccorda, e la natura vede non come generante ma come ambiente.
In
Bruno d’altra parte, l’ateologia finisce in una divinizzazione della natura che
nulla ha di laico, e quindi di scientifico – è antimoderna, antiscientifica. Lo
storico della filosofia Fulvio Papi ha potuto sostenere che “esistono
incontrovertibilmente in Bruno aspetti irriducibili alla prospettiva della
modernità”, a partire dal rifiuto del cristianesimo: “Bruno vedeva la divinità
della natura, mentre noi la consideriamo essenzialmente come una risorsa”. Da
esplorare e da migliorare (lo stesso in Frances Yates, che Bruno legge come un
filosofo medievale, comunque legato a tradizioni o credenze vecchie).
Post – Tutto è post da
qualche tempo – dall’età dell’Acquario, ormai un quarto di secolo, abbondante?
Ma non è un “fatto” astrologico, non per divagazione. Seriosamente:
postmoderno, postumano, posterità, postnaturale…. È un progresso, sia pure del
mercato, dei liberi tutti, o un regresso? Come un ritorno al grembo materno –
anche se è in corso pure la post-maternità.
Postumano – È piuttosto un
postnatura: è l’uomo che si fa la sua “natura”, artificiale.
Oppure
è Giordano Bruno. Che la “sostanza dell’anima”, insomma l’intelligenza, vuole comune
a tutti gli esseri, “animati” e non, all’uomo come alle piante – che però sono
oggi già animate, quindi diciamo dall’uomo ai minerali (in attesa che si animizzino
i minerali, come è giusto, nche loro rientrano nel darwinismo ambientale o
fisico). La razionalità in radice non è prerogativa umana. Non essendoci
“essenza specifica”, nella natura stessa dell’“anima”, per l’anima umana, per
la razionalità. L’uomo crede in un dato specifico, o in un dio, che gli
attribuisce il suo dominio sulla natura, dice Bruno. Ma questo con tutta
evidenza non c’è.
Non
c’è in effetti nessun istinto nell’uomo, dall’amore alla violenza,
all’autodistruttivià, che non sia comune agli altri esseri, animati e non. Ma
saperlo? L’uomo di Bruno ha sviluppato i suoi poteri in parte per caso in parte
– forse anche essenzialmente – per un migliore uso che ha saputo fare delle sue
capacità. In particolare con l’uso della mano. E questo è meno persuasivo di
qualsiasi anima speciale, metafisica o divina, di qualsiasi destino.
Tecnologia – È la scienza
applicata – la mano di Bruno. Non più dispersiva, inappropriata, pericolosa,
della ricerca scientifica, pura - solo più costosa. Condannata dal solito Heidegger
passatista, ma è il cuore della scienza, è la ricerca applicata, la ricerca che
dà risultati, che era ben indirizzata, se ha trovato quello che cercava.
È la
civiltà –la storia.
Transizione – Si sbandiera
come suo asse l’auto elettrica. Che invece è solo una “novità” in catalogo. Un modo per vendere più auto,
addirittura rinnovare tutto il parco auto mondiale – imponendone il rinnovo,. Un affare senza precedenti, frutto
di un’idea semplice – si trascura che l’ecologia è partita da Nixon, nel 1969,
finanziata dai grandi gruppi industriali americani, e segnatamente da quelli
della mobilità, la Esso e le altre compagnie petrolifere, le più inquinanti.
L’inquinamento dell’aria, e quindi dell’acqua (siccità\alluvioni), è della circolazione
automobilistica, non dell’allevamento, o dell’agricoltura.
È la
mobilità la nemica dell’ambiente. Cioè il movimento, il cambiamento, anche il rapporto
umano: ne sono facilitati. Il movimento\cambiamento è parte della psiche, è un
bisogno personale ed è il motore della civiltà (tecnologia), ma il veicolo
individuale, che ne sarebbe la massima espressione, è poi il “miglior” killer
dell’ambiente, e quindi del futuro – della libertà (oltre che essere
statisticamente il maggior killer in senso proprio, o uno dei maggiori).
Un altro concetto trending, sessuale oltre che ambientale, e personale (psicologica). Come è sempre stato, ma ora si vuole mainstream, condizione normale e non più personale, occasionale, di un mondo (realtà) instabile.
zeulig@antiit.eu
Le guerre stellari - AI - che piegarono l’Urss
Le
“guerre stellari” di Reagan venivano lanciate 40 anni fa. Una Strategic Defense
Initiative, presto definita ironicamente dal senatore Ted Kennedy “le guerre
stellari di Reagan”: un sistema di raggi laser, raggi cosmici, sensori
satellitari, per prevenire un attacco nucleare con missili balistici (a lunga
gittata). Un gruppo di scienziati, tra essi Carl Sagan e il Nobel per la Fisica
Bethe, si disse preoccupato dagli sviluppi della strategia “stellare”: “Se
affrontiamo questo rischioso passaggio, raggiungeremo la terra promessa dove le
armi nucleari sono ‘impotenti e obsolete’? Ovviamente no. Avremmo una difesa di
stupefacente complessità, sotto il controlo totale di un programma
computerizzato le cui proporzioni sfidano ogni descrizione, e la cui efficienza
resterà un mistero profondo fino al momento tragico in cui sarà chiamato a
rispondere”. Una prima applicazione di intelligenza artificiale, piuttosto pericolosa.
Il
cuore della Sdi finì per essere non il sistema di sensori e satelliti
automatizzato ma lo schieramento degli “euromissili”. Una questione più vecchia
di Reagan, aperta dal cancelliere tedesco Schmidt, col supporto del presidente
francese Giscard d’Estaing, in un vertice a quattro nel gennaio 1979 alla
Guadalupa, col primo ministro inglese Callaghan e il presidente americano Carter,
di collegare la difesa antimissilistica americana con quella europea. L’Europa
era minacciata dallo schieramento dei missili a lunga gitata russi Ss-20 nei paesi
dell’Est. Gli Stati Uniti sarebbero sceci in guerra in caso di attacco a un
paese europeo? L’Europa doveva dotarsi di missili americani analoghi ai
sovietici SS-20: missili Cruise e Pershing.
Col
passaggio dalla presidenza Carter alla presidenza Reagan, la proposta di
Schmidt prese corpo. Ma il cancelliere a questo punto avanzò una “clasusola di
non esclusività”: la Germania avrebbe
accettato gli euromissili sul suo territorio se altri paesi dell’Europa
continentale li accettavano. Per altri intendendo l’Italia.
Ci
furono perplessità all’epoca in Europa. E specialmente in Italia, alimentate
dal Pci e dalla Dc. Cossiga, presidente del consiglio, era propenso a fare il
primo passo. Ma l’estensione della guera fredda, avviata dal Breznev con
l’installazone degli SS-20 in Europa orientale era temuta. Una prima breccia fu
aperta dall’Olanda. Ma di più contò, subito dopo, la decisione italiana di
accettare lo schieramento degli euromissili, presa da Craxi, presidente del
consiglio, d’accordo con Cossiga, che nel 1985 succedeva al socialista Pertini
al Quirinale. Il varco aperto da Craxi nella Nato europea fu decisivio, e
subito dopo Mosca si arrese. Poi fu la “perestrojka” e il collasso dell’Urss,
dell’impero russo comunista.
Una
ricorrenza storica, nel senso che ha cambiato la storia, passata sotto silenzio. Forse eprché potrebbe indurre
a una similitudine con la strategia attuale – questa nom dichiarata – di
rovesciare “Cuba 1962”, di portare i missili Nato sotto il Cremlino.
The
Union of Progressive Scientists, Reagan’s
Star Wars, “New York Review of Books”, 26 aprile 1984, free online
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