sabato 20 maggio 2023
L’Europa entra in guerra e non lo sa
La piega sorridente del presidente Biden, che potrebbe leggersi come un ghigno (i dermoplastici sono cinici), manda gli europei alla fornitura degli F-16 all’Ucraina. Per smaltire le scorte e obbligare poi i partner a rinnovare il parco caccia, con beneficio di Lockheed, Northrop Grumman e altri fabbricanti (gli Stati Uniti da tempo hanno smesso di armarsi con gli F-16, un caccia di cinquant’anni fa, e fra un paio d’anni non li utilizzeranno nemmeno, cercano compratori di seconda mano, Pakistan, Brasile, Indonesia, etc.). E per mandare l’Europa in guerra, né più né meno.
Parisi matematico (non) per tutti
“Un
trattatello per principianti volnterosi” è il sottotitolo. Ma non è una lettura,
è un libro di testo, per studiosi e studenti - che Cambridge University Press ha
in pubblicazione insieme con Zanichelli. Anche se, assicura il matematco di
Stanford Persi Diaconis, “è un affascinante distillato degli aspetti più utili
della probabilità e della statistica”.
Il
Nobel della Fisica 2021 e i suoi collaboratori, fisici matematici, hanno scelto
un linguaggio, anche quando affrontano argomenti sofisticati, di “elegante
essenzialità”, sempre a giudizio di Diaconis. Una serie di appendici sono state
elaborate per consentire riscontri pratici agli strumenti matematici di base.
Con esempi di stime su questioni e dati attuali – varie argomentazioni confluiscono
nell’analisi dei dati della pandemina da
covid.
Luca
Leuzzi-Enzo Marinari-Giorgio Parisi, Calcolo
delle probabilità, Zanichelli, pp. 418, ill,. € 48
venerdì 19 maggio 2023
Il mondo com'è (461)
astolfo
Adam Gannibal – Originario del lago
Ciad, la sponda oggi Camerun, fu il bisnonno materno di Alexander Puškin, che
ne ereditò alcuni tratti somatici, quasi da mulatto, il colorito scuro e i
capelli neri crespi. La famiglia Puškin era di antica nobiltà. Ma il bisnonno
materno era africano: un bambino rapito a otto anni e venduto come
schiavo a Costantinopoli, dove l’ambasciatore russo Raguzinsky, un mercante
serbo, lo acquistò, per poi farne dono allo zar Pietro il Grande. Il
quale ne apprezzò la vivacità di spirito, se ne fece padrino, ne curò
l’istruzione ( a 22 anni lo mandò a Parigi), lo sposò in una famiglia di
bojardi, e lo portò con sé nelle spedizioni militari, promuovendolo presto al
grado di generale.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato,
ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato
probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle
tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non
si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo
dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe
il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò
Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò
a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per
tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà
importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte.
La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a
Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo
piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero
che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come
un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora
di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di
Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi
familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto
sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più
intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur
facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II,
suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un
paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi
capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del
capitano”. Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il
personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi
incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del
capitano”.
Gannibal era conscio della sua importanza a corte, e fiero del suo passato,
ancorché oscuro. Per questo si scelse il nome di Adam Gannibal, cioè Annibale. Nato
probabilmente attorno al 1696\98, forse figlio di un capo. Rapito, in una delle
tante scorrerie arabe e africane per alimentare il mercato degli schiavi, non
si perse d’animo, e anzi ne fece un’occasione. Oltre che come aiuto di campo
dello zar, era versato nelle lingue, le matematiche e le scienze. A Parigi ebbe
il compito di studiare fortificazioni e armamenti. Al ritorno lo zar lo nominò
Traduttore principale di Libri Stranieri alla Corte Imperiale. Ma non si limitò
a tradurre libri scientifici e di arte militare: costruì fortificazioni per
tutta la Russia. Uno di questi forti, Kronstadt nel golfo di Finlandia, sarà
importante ancora due secoli dopo, nell’assedio di Leningrado nel 1941-42.
Alla morte di Pietro il Grande, nel 1725, Gannibal perse influenza a corte.
La zarina Elisabetta, figlia di Pietro, gli diede in dono una proprietà a
Mikhailovskoje, e Gannibal vi si ritirò con la seconda moglie. In questo
piccolo feudo, Puškin scriverà in una nota al’“Eugene Onegin”, “l’africano nero
che era diventato un nobile russo visse fino alla fine della sua vita come
un philosophe francese”. È in questa stessa proprietà, ancora
di famiglia, che Puškin cominciò nel 1827 il suo primo romanzo, “L’Africano di
Pietro il grande” – che lascerà incompiuto. Mettendo a frutto i ricordi
familiari, e la testimonianza di un ultimo figlio del bisnonno, ancora in vita.
Andrej Syniavsky, nel suo libro su Puškin, dirà che “si appoggiava molto
sul suo aspetto negroide e il suo passato africano, che vantava forse più
intensamente della sua ascendenza aristocratica” – come una sorta di outsider pur
facendo parte dell’establishment, il suo rapporto con lo zar Nicola II,
suo protettore, assimilando a quello di Gannibal con Pietro il Grande – un
paragone lusinghiero per lo zar, che lo puniva e lo sosteneva.
Puškin era fiero della famiglia, che fa rientrare anche nei suoi
capolavori, il dramma storico “Boris Godunov” e il romanzo “La figlia del
capitano”. Di più avrebbe voluto fare per il bisnonno africano, il
personaggio su cui ha centrato il suo primo tentativo di romanzo, rimasto poi
incompiuto – tutti i romanzi di Puškin sono incompiuti, eccetto “La figlia del
capitano”.
Leopoli – Oggi parte dell’Ucraina, fu sempre
polacca, dalla fondazione. Il voivodato di Leopoli figura parte del Regno di
Polonia alla fondazione, nel 1265. Poi della Confederazione Polonia-Lituania,
col nome teutonizzato di Lemberg. E come voivodato polacco nell’impero
austriaco e poi austro-ungarico, alla spartizione della Polonia. Parte della
Seconda Repubblica di Polonia al crollo dell’impero, 1919-1939. È diventata
ucraina con l’avanzata dell’Armata Rossa nel 1944-45.
All’ultimo censimento austro-ungarico, nel
1910, che tracciava religione e lingua, il 51 per
cento della popolazione della città si dichiarava cattolico romano, la
confessione dei polacchi, il 28 per cento ebreo, e il 19 per cento della Chiesa
greco-cattolica ucraina. Come lingua, l’86 della popolazione si esprimeva in polacco,
l’11 per cento in ucraino.
Faustina Maratta –
Figlia bastarda, poi riconosciuta, di Carlo Maratta, il pittore romano
marchigiano di cui Sgarbi propone da tempo il recupero, fu protagonista di una
“fuitina” nella Roma del Seicento, e di un aneddoto faceto dell’abate Galiani;
“Fatto invaghire di sé il cavaliere romano Cesarini, fu da costui rapita e
portata fuori Rima. La famiglia Cesarini, temendo che la tresca finisse in
matrimonio chiede l’aiuto del papa. Che fece ritrovare i due e li riconsegnò
alle rispettive famiglie. Beninteso di matrimonio non si parlò più; ma per Roma
si diffuse un motto scherzoso: «Carlo Maratta ha fatto il quadro, Cesarini la
cornice, e il Papa l’ha indorata»”. Il
padre ne aveva da poco sposato la madre, Francesca Gommi, nel 1698, alla morte
della moglie legittima, quando Faustina aveva diciannove anni.
Il “cavaliere” Cesarini, Giangiorgio
Sforza Cesarini, era in realtà il figlio cadetto di Federico Sforza Cesarini,
duca di Genzano, la località dove Carlo Maratta si era ritirato con la figlia.
Non ci fu una “fuitina” ma un tentativo di rapimento. Nel 1703, quando Faustina
aveva quindi 24 anni. Mentre andava a messa con la madre e le domestiche. Nei
pressi del Quirinale, dove il papa allora risiedeva. Faustina si sottrasse
all’agguato, ma rimediò una ferita alla tempia destra, che le lasciò una cicatrice.
Il papa intervenne, ma per punire il duca, che per sfuggire alla prigione fuggì
a Napoli, come era l’uso, e poi in Spagna – dove morì non molti anni dopo.
Faustina era di suo poetessa, apprezzata e
corteggiata – si è meritata una distesa “Vita” nella raccolta “Italian W omen
Writers. A Bio-Bibliographical Sourcebook”, a cura di Rinaldina Russell,
pubblicata dal Q ueens Colege a New York nel 1994 ” (una distesa “vita”, a
opera di Serena Veneziani, figura ora nel “Dizionario Biografico degli
Italiani” della Treccani). Provò anche la pittura: a lei si attribuisce un ritratto
di papa Clemente XII ora all’Ambrosiana. Il padre la raffigura, in un quadro
ora alla Galleria Corsini a Roma in atto di dipingere, con in mano pennelli e tavolozza
dei colori.
L’Accademia dell’Arcadia la elesse suo
membro l’anno dopo l’agguato di Cesarini, accogliendola col nome di Aglauro
Cidonia. In Arcadia fece la conoscenza di Giambattista Felice Zappi, avvocato
imolese e poeta già rinomato, col nome d’arte di Tirsi Leucasio. Che sposò l’anno successivo, nel 1705, e col
quale convisse poi felicemente (ebbero cinque figli) – il matrimonio, è vero,
fu combinato dal papa, Clemente XI Albani, per il quale il giurista e
amministratore Zappi lavorava. Faustina tenne a Roma e a Albano col marito un
salotto rinomato – tra i frequentatori si ricordano i maggiori arcadi, Gravina
e Crescimbeni, con personaggi di passaggio, Händel, Domenico Scarlatti e altri.
Zappi morì presto, nel 1719. Faustina,
malgrado le tante proposte, rifiutò di riposarsi. Nel 1723 pubblicò una
raccolta di “Rime”, sue e del marito. I suoi componimenti, 38 sonetti in tutto,
celebrano le grandi figure femminili della latinità, ispirate ai dipinti del
padre, Lucrezia, Porzia, Veturia, Tuzia, Virginia, Claudia, Cornelia, Arria,
Ortensia. O gli affetti familiari, specie per la scomparsa del figlioletto
Rinaldo.
Dopo la morte del marito, viaggiò molto, a
Imola, da dove il marito proveniva, Bologna e Venezia. Si occupò dei figli - degli studi e dei
matrimoni. Intrattenne corrispondenze con vari letterati. Intrattenne anche una
relazione con una abate, membro dell’Arcadia, Vincenzo Parravicini, di lei più
giovane.
Dal 1728 la sua vita cambiò. Da un lato la
famiglia Albani (papa Clemente XI) le procurò dal re di Polonia un diploma
nobiliare, il titolo ereditario di marchese. Dall’altro il Paravicini se ne
allontanò. E un giovane di Albano, di cui resta il nome, Francesco, reputato
figlio naturale del suo fallito rapitore, le fece causa di riconoscimento. Il
processo durò quasi vent’anni: Faustina morirà nel 1745, appena dopo essere
riuscita a provare che la pretesa del querelante era falsa. La ricorda la
lapide tombale al San Carlino alle Quattro Fontane.
Massacro
della Volinia – Oggi
dimenticato, fu negli anni 1943-45 uno degli eventi che più fecero notizia: la
caccia e l’eliminazione sistematica dei polacchi del voivodato della Volinia –
e, con molte meno vittime, della Galizia orientale, della Polesia e attorno a
Lublino. Una serie di stragi di massa compiute dai tedeschi, e dagli ucraini di
Stepan Bandera, il creatore e capo dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini,
un gruppo politico filo-tedesco, nonché del braccio militare dell’Organizzazione,
l’Upa, o Esercito Insurrezionale Ucraino. Le stragi, perpetrate col sostegno anche
della popolazione ucraina, si presume abbiano fatto circa 100 mila morti.
Il più gran numero di morti si ebbe
all’inizio dei massacri, nel luglio-agosto 1943. Vittime soprattutto donne e
bambini – i maschi polacchi erano ai lavori forzati o nella Resistenza esercito
interno polacco).
Nelle prime ricostruzioni dopo la
guerra, la Polonia denunciò torture e stupri, e anche metodi più radicali,
quali lo smembramento o il fuoco. Ancora nel 2008 l’Istituto della Memoria
polacco denunciava i massacri come “genocidio”,
e con questa qualifica il Parlamento polacco li rubricava con atto legislativo
nel 1956.
La Volinia, sotto amministrazione polacca
all’interno dell’impero austro-ungarico, fu attribuita alla Polonia, all’indipendenza
dopo la guerra, tra il 1921 e il 1939. Pur essendo di nazionalità ucraina. Al
censimento 1921 del rinato Stato polacco furono registrati nel voivodato 1.437.907 abitanti. Così suddivisi per etnia dichiarata:
ucraini 983.596 (68,4 per cento), polacchi 240.922 (16,8), ebrei 151.744 (10,6),
cechi (cosiddetti Cechi di Volinia) 25.405 (1,77), tedeschi:24.960 (1,74), russi
9.450 (0,66%)
Il voivodato, termine e istituto originariamente
medievale, feudale, era a metà tra la provincia e la regione, un distretto amministrativo.
Operazione Albania – Rubricata anche come Operation Fiend dalla Cia,
o Operation Valuable dai servizi inglesi (l’MI 6, il controspionaggio), fu il
primo tentativo di sovversione organizzato dalla Cia, con i servizi inglesi - prima
di quello riuscito poi in Iran, 1953, contro Mossadeq. Un avvenimento dimenticato,
che fallì, con alcune centinaia di morti tra le spie angloamericane, e innumerevoli
tra gli albanesi. Lo ricorda in una noticina John Le Carrè, nelle memorie “Tiro
al piccione”, a proposito della defezione di Kim Philby, uno di capi dell’MI 6
che faceva il doppio gioco per i russi. “Un tentativo fallito dell’MI 6 e della
Cia nel 1949 di rovesciare il governo albanese, finito con la morte di almeno
300 agenti, e di innumerevoli arresti ed esecuzioni tra il popolino locale”, è
la nota di Le Carré – con l’aggiunta: “Kim Philby era uno degli organizzatori”.
La “contro-rivoluzione” in Albania fu il
tema di una proposta del ministro degli Esteri inglese, il laburista Ernest
Bevin il 6 settembre 1949, alla prima riunione Nato a Washington. Ma l’operazione
era già in atto, organizzata e finanziata dalla Cia. Col supporto degli agenti
britannici nel Mediterraneo, in Italia, Grecia, Libia, Albania. E col contributo
dei servizi italiani e greci. Una dozzina di albanesi erano stati addestrati in
Libia a pilotare un aereo. E insieme alluso di armi, codici, radio ricetrasmittenti,
e alle tecniche di sabotaggio e sovversione. Un altro piccolo gruppo, chiamato
affettuosamente i Pixies (folletti), era stato trasportato a luglio dello
stesso anno al Fort Bingemma a Malta, per l’addestramento allo spionaggio e alla
mobilitazione. Il 26 settembre i Pixies, nove in tutto, furono imbarcati su un
vascello della Royal Navy che li portò nell’Adriatico, dove, dopo una sosta a
Brindisi, furono trasbordati su un caicco greco, da pesca o da cabotaggio, per essere
sbarcati a sud di Vlora, dove la cosiddetta Resistenza albanese aveva terreno
amico. Furono intercettati all’arrivo e uccisi o dispersi – in Grecia. Altri
addestramenti e altri sbarchi analoghi furono organizzati ancora per tre anni,
fino alla Pasqua del 1952, data dell’ultima incursione, anch’essa fallita – le milizie
albanesi sempre aspettavano gli sbarchi. Uno dei sopravvissuti dichiarerà: “Eravamo
usati per un esperimento. Eravamo una piccola parte di un grande gioco, pegni
da sacrificare”.
L’Operazione Albania è stato uno dei segreti
Nato meglio custoditi. È solo nel 2006 che se ne è avuta notizia, dai documenti
declassificati sulla base del Nazi War Crimes Disclosure Act, una legge
americana.
astolfo@antiit.eu
Puškin osceno
Tre
poemetti scurrili del “primo Russo”, il primo poeta, Puškin. Di sicura attribuzione,
a Puškin giovane.
Lo
pseudo-Puškin è un genere molto praticato, rilevava già negli anni 1920
Tynjanov – ancora nel 1989 ne veniva inventato un “Diario segreto”, frutto
malsano della perestrojka. Questi,
per strano che possa sembrare talmente sono spinti, sono di Puškin. Giovane
goliarda, ma già con letture a largo spettro, accerta il curatore, Cesare G. De
Michelis, della letteratura licenziosa francese del primo Settecento.
“L’ombra
di Barkov” è una serie di amplessi, “all’ombra”, come parodia, di un Barkov che
circolava sottomano a fine Settecento in Russia. “La Gabrieleide” è l’ennesima
parodia dell’Annunciazione, un po’ prolissa, interminabile, con personaggi e
intrighi da Toledoth Yesu ebraiche –
questo poemetto è stato sempre pubblicato, con attribuzione a Puškin, nella
Russia sovietica e dopo: la Vergine se la fa con gli angeli, Gabriele e il
Demonio. “Zar Nikita e le sue quaranta figlie” è una “fiaba”, la prima delle
fiabe per cui Puškin sarà poi famoso.
“Zar
Nikita” è però una fiaba piuttosto volgare, ala lettura in chiaro. Le zarevne, le quaranta figlie dello zar,
belle, flessuose e tutto, mancano di “passera”. Che una fattucchiera remota
procurerà. Ma il curatore spiega che la lettura canonica è a chiave: una composizione
satirica di riferimento massonico, sui nemici della massoneria di cui Puškin
era fresco eletto.
Non
manca nulla del genere. C’è anche una lotta, per i capelli, nel fango, tra i due
angeli, Gabriele e il Demonio, per le grazie della vergine. Ma una letteratura
desueta, dopo l’avvento del pornohub. Che si segnala per la traduzione
eccellente (a fronte dell’orginale), ritmata, eloquente, in linguaggio filato,
corrente, perfino un po’ coatto, opure paludato (il Diavolo-Serpente della “Gabrieleide”),
di un distinto accademico. E per il contrasto con la presentazione dottissima
dello stesso De Michelis, con rinvii alle teorie letter arie e semiologiche più
preziose (ardue). tenne. Divertenti comunque le oscenità, pensandole opera
libera di tanto poeta.
Aleksandr
S. Puškin, Operette licenziose,
Voland, pp. 135 € 12
giovedì 18 maggio 2023
Letture - 520
letterautore
Walter Benjamin
a Sanremo - Dora Sophie Kellner, giornalista e
scrittrice austriaca attiva in Germania, riemigrò nel 1933, alla presa del
potere da parte di Hitler, in Italia, a Sanremo. Era stata la prima moglie di Walter
Benjamin, col quale aveva intrattenuto un rapporto sentimentale fin dal maggio 1914,
dal primo incontro, e aveva creato una convivenza due anni dopo, dopo aver
divorziato dal primo marito, Max Polak. Il 17 aprile 1917 Dora Kellner e Benjamin
si erano sposati - in Svizzera, dove Benjamin si era rifugiato per sfuggire all’arruolamento,
con un referto medico di ischemia. In Svizzera ebbero anche un figlio, Stefan.
Il matrimonio era durato fino al 1930. A Sanremo l’ex moglie d Benjamin lavorò
dapprima come cuoca all’hotel Miramare. Per poi rilevare Villa Emily, o Villa
Verde, che gestì in proprio come pensione – la vecchia residenza di Edward
Lear, l’illustratore londinese più noto come scrittore, di viaggi (in Calabria)
e di limerick.
Con l’avvento di Hitler Dora e Walter Benjamin avevano
riallacciato i rapporti: tra novembre 1934 e gennaio 1938 Benjamin soggiornò a
Sanremo, a Villa Verde (dove nel 1935 anche Stefan si era trasferito) almeno
cinque volte, anche per lunghi periodi – nell’inverno 1934-25 per cinque mesi. Come
spiega la monografia illustrata “rororo” di Uwe Naumann. Visite intervallate da
soggiorni a Ibiza, ospite di Jean Selz, lo storico dell’arte francese, nelle
estati del 1934 e del 1936 a Skovbostrand, ospite di Bertolt Brecht, e spesso
in Francia, soprattutto a Parigi, dove era rifugiata la sorella Dora, e dove
poteva frequentare la Bibliothèque Nationale. A Villa Verde Benjamin scrisse
due capitoli di “Infanzia berlinese intorno al Millenovecento”, e parti dei “«Passages»
di Parigi” e dei lavori su Kafka.
Cia
-
“Sono stato a Mosca solo due volte”, è l’incipit del § 17 delle memoria di Le
Carré, “Tiro al piccione”: “La prima nel 1987, quando grazie a Mikhail Gorbaciov
la vita dell’Unione Sovietica stava finendo, e tutti eccetto la Cia lo sapevano”.
Fraülein
-
Era d’uso, fin ben dopo la Grande Guerra, per le giovani aristocratiche. Lo
spiega la germanista Rita Svandrlik, introducendo Schnitzler, “La signorina
Else”, di Giunti.
Giornalisti
–
“Alla fine, siamo agenti doppi. O tripli”, spiega a Le Carré (“Tiro al piccione”,
32) il giornalista francese Jean-Claude Kaufmann, che è stato ostaggio per tre anni
di Hezbollah in Libano, di carcerieri incappucciati: “Dobbiamo empatizzare con
altri per capire ed essere accettati. Poi tradiamo”.
Incoronazione
–
Tutti gi ingredienti di Shakespeare, i nomi ridondanti, il principe riottoso e
traditore, la regina pretendente, molti fantasmi incombenti, e invece è stato
un evento pubblicitario. I personaggi sono gli stessi ma la scena è cambiata.
Male
oscuro –
Di ritorno da un premio letterario in Europa a fine anni 1980, narra la biografia
(il Prix Mondiale Cino Del Duca, a Parigi, nel 1985, un premio alla carriera,
n.d.r.), William Styron torna al successo di pubblico, che lascia tramortita la
critica, col racconto della sua – di una sua – crisi depressiva. Un racconto che
intitolò “Un’oscurità trasparente”. L’idea, spiegava, gli era venuta da un’intervista letta sette anni prima. Di
Berto, che “Il male oscuro” aveva pubblicato nel 1964? Con analogo travolgente
successo di pubblico che aveva tramortito la critica – tuttora non sa “sistemarlo”.
Yvette Pierpaoli - Yvette
Pierpaoli, francese figlia di emigrati eoliani, è solo ricordata da Le Carré
nelle memorie, “Tiro al piccione”, § 10. Che rivela in lei il modello del suo
romanzo “Il giardiniere tenace”. E poi, dopo morta, l’ha ricordata sul settimanale
“The Observer”. Donna d’affari nella ex Indocina, e poi indomita operatrice umanitaria
in Cambogia e altrove. Da ultimo in Kossovo, dove è morta, alla frontiera con
l’Albania, in un incidente d’auto.
Russia – “Ciò che la
psiche collettiva russa teme di più è il caos; quello di cui più sogna è la
stabilità; e quello di cui ha il terrore è il futuro ignoto”, John Le Carré, “Tiro
al piccione”, § 17, “Il cavaliere sovietico sta morendo dentro la sua armatura”.
Una paura che Le Carré giustifica: “E chi non lo avrebbe, in una nazione che ha
dato venti milioni delle sue anime ai giustizieri di Stalin ed altri trenta a
quelli di Hitler?”
Scrivere
–
“Spiare e scrivere romanzi sono fatti l’uno per l’altro. Entrambi richiedono un
occhio allenato alle trasgressioni umane e ai molti volti del tradimento”. Se
lo dice Le Carré, la spia tourné romanziere, aprendo le memorie, “Tiro al piccione”.
Ma sull’autorità di Graham Greene. Benché, alla fine, con non benevola ironia: “A
riprova non dobbiamo cercare più lontano di Graham Greene, a proposito di quanto
si racconta sull’autoimposto gioco dei furbi con l’Fbi…. Per tutta la sua tarda
vita Greene, romanziere ed ex spia, fu convinto di essere nella lista nera Fbi dei
sovversivi filocomunisti. Ne aveva ragione, date le sue numerose visite in Unione
Sovietica, la sua continua e dichiarata fedeltà all’amico e compagno di
spionaggio Kim Philby (un agente doppio poi rifugiato in Russia, n.d.r.), e i
suoi inutili sforzi di conciliare la causa romano-cattolica con la comunista.
Quando il Muro di Berlino crollò, Greene si fece fotografare da lato sbagliato,
mentre diceva al mondo che sarebbe stato meglio di là che di qua. Anzi, l’avversione
di Greene contro gli Stati Uniti e la sua paura delle conseguenze delle sue
critiche radicali raggiunse tali altezze che insisteva a tenere gli incontri
col suo editore americano dal lato canadese del confine”. Finché non vennero declassificati
i documenti che lo riguardavano: “Il file Fbi di Greene conteneva una sola
voce: che si era accompagnato con la politicamente erratica ballerina Margot
Fonteyn, quando questa combatteva la causa persa del suo paralizzato e infedele
marito, Roberto Arias” (erano accusati di aver e introdotto armi in Panama, il paese
di Arias, dove risiedevano, per un golpe
– Panama era sotto controllo americano stretto, contro la sovversione in
America Latina).
Università
–
Walter Benjamin fallì l’abilitazione all’università di Francoforte nel 1924 col
saggio “Il dramma barocco tedesco” – che dopo la pubblicazione quattro ani dopo
da primario editore era già un classico della letteratura critica.
letterautore@antiit.eu
Il racconto felice della vita amata
Il tema dei ladri di bambini, in una narrazione dettaglista, lunga, e avvincente. Due “mediatori (broker) di buone azioni”, di affidi-adozioni illegali di neonati, abbandonati dalla madre o d’accordo con la madre stessa, un giovane che è stato orfano in orfanotrofio, e un lavandaio in età cacciato di casa dalla moglie e indebitato con la mala, recuperano davanti a una “ruota degli esposti” un neonato abbandonato per terra. È l’occasione di un affare ghiotto, si possono spuntare molti milioni, e un’odissea si avvia, dei “mediatori di buone azioni” col neonato, con la madre del neonato che in qualche modo si aggrega, e con un ragazzino del vecchio orfanotrofio del ladro giovane di bambini. Sotto il controllo occhiuto della polizia, nella specie di due sbirre che s’ingozzano di cibo e odiano il mondo, ma devono aspettare il momento in cui ci sarà la proibitissima vendita. Finirà male, con la condanna inevitabile di tutti, i due ladri di bambini e la madre. Ma con la più durra delle sbirre che terrà in caldo il neonato e lo farà crescere fino a che madre e ladri non escono tre anni dopo in libertà.