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Antisemitismo – Una proiezione
– una sorta di golem, una oggettivizzazione esoterica della paura del mondo,
del male. Lo scrittore Vassilij Grossman, di famiglia ebraica, che propone
questa proiezione (in "Ucraina senza ebrei”), distingue l’antisemitismo di
Stato, una misura di violenza opportunistica come ogni altra (Grossman ce l’aveva
in casa, in Russia, anche se del’epoca zarista, “I protocolli dei savi di Sion”,
che però non cita) , dall’antisemitismo ideologico. Che invece “esiste in ogni paese
del mondo ed è esistito nelle varie epoche della storia umana”:
“L’antisemitismo ideologico è un
fenomeno che nasce dal bisogno fisiologico di specchiare i mali del mondo e delle
persone guardando uno specchio anziché se stessi”.
Può
essere anche questo un artificio politico. Ma Gossman constata che “è nella
parte istruita della società che si incontrano, soprattutto, i latori dell’antisemitismo
ideologico”.
Un’osservazione
scritta nel 1943, in una corrispondenza di guerra, di uno scrittore certamente
all’oscuro di Heidegger, ma che si attaglia, quasi una specifica ex post,
all’antisemitismo del filosofo. Serpeggiante nelle celebrazioni del Volk, del popolo, della tradizione, ed
esplicitato nei “Quaderni neri”, della Shoah come “autoannientamento” – colpa degli
ebrei, in quanto agenti della modernità – tecnica, rivoluzione. Gli ebrei sono gli agenti della
modernità; ne hanno diffuso i mali. Hanno deturpato lo «spirito»
dell’Occidente, minandolo dall’interno. Complici della metafisica, hanno
portato ovunque l’accelerazione della tecnica. L’accusa non potrebbe essere più
grave. La Judenschaft, la «comunità degli ebrei» — scrive Heidegger
nel 1942 — «è nell’epoca dell’Occidente cristiano, cioè della metafisica, il
principio di distruzione». Poco più avanti aggiunge: «Solo quando quel che è
essenzialmente “ebraico”, in senso metafisico, lotta contro quel che è ebraico,
viene raggiunto il culmine dell’autoannientamento nella storia».
Entropia – “L’entropia
misura cambiamenti irreversibili (dissipazioni) in un sistema, misura la nostra
ignoranza su un sistema o, equivalentemente, l’informazione di cui abbuiamo
bisogno per comprenderlo, o, ancora, di un sistema misura il disordine, che può
prendere l’accezione di libertà di scelta, o di incertezza, a seconda del punto
di vista” – L.Leuzzi, E.Marinari, G. Parisi, “Calcolo delle probabilità”, pp.
363-364.
La
vita è uno spreco, per quanto si accumuli, risparmiosi, industriosi?
La
libertà è uno spreco?
Non
c’era ancora (non c’è) nella Garzantina di Filosofia trent’anni fa. Il pensiero
fatica ad aggiustarsi a un concetto nuovo? Benché di ottica radicalmente rovesciata,
su concetti, e realtà, basilari: storia, progresso, sviluppo – il mondo si
consuma, o si immortala?
Heidegger - Non si riflette
quanto la sua critica alla modernità, alla tecnica, allo sviluppo, sia
reazionaria, e anche poco riflettuta – epidemica, superficiale, irritata: irretita
in un pregiudizio “popolare”, provinciale - la vita modesta, il costume, il
bastone, le uose. La cosa è argomentabile agevolmente. Ma basti richiamare
l’analoga critica del Dostoevskij pubblicista, specie in tarda età, vituperatore
dei “mercanti” ebrei, che Vasilij Grossman, “Ucraina senza ebrei”, conduce
radicale in poche righe. Il tardo Dostoevskij confonde l’irruzione della borghesia
negli assetti sociopolitici tradizionali della Russia, Stato autocratico e oligarchico,
di mercanti e appaltatori, accaparratori, industriali, finanzieri, con la
microboghesia ebraica. Una curiosa reazione, politica prima che una manifestazione
di antisemitismo: “Studiò il personaggio del commerciane ebreo e lo prese in
odio, senza capre che, mentre osservava il commerciante ebreo, l’appaltatore
ebreo, l’intermediario ebreo, stava semplicemente guardando lo specchio che
rifletteva i milioni di facce” della borghesia russa, una novità storica.
Di
Cesare di ontologico l’antisemitismo di Heidegger. Ma di che ontologia? Minima,
da agitatore, predicatore, spiessburger.
Nel gergo polivalente (ambiguo) alcune cose sono chiare. Spiacevoli, o deludenti.
Nazionalismo – Si rifiuta perché ha derivato all’identità, micragnosa, microscopica, dopo aver derivato all’eccezionalismo, ai “primati”. O meglio essere passato per entrambe le derive, l’uno nutrendo l’altro. Dopo essere stato fattore di libertà, e di recupero della tradizione, del passato, della storia – e di linguaggi, usi, costumi, del folklore perché no. Ha derivato a fattore di imperialismo etnico. A un imperialismo chiuso, mercantilistico e non diffusivo, e arcigno. Fino alle degenerazioni dell’eccezionalismo, di cui molto soffre la politica contemporanea, a rischio deflagrazione. Di imperialismi che si ancorano all’eccezionalismo, alla chiusura come superiorità nazionale, etnica. Seppure curiosamente, nel caso dell’America, bilanciere e motore di questa deriva, di un’etnia composita e anzi affastellata. Di componenti che spesso si contrastano, per un eccezionalismo deviato a faide interne - ora ancora difensive, la cancel culture e la critical theory, domani chissà.
Poesia - “La traduzione
di una poesia è una poesia, che ha in un’altra poesia la sua ragione di essere”
– Ottavio Fatica, “Lost in translation”. Come da etimo, poiesis, creazione.
Fatica
si rifà a Cocteau, la poesia è un linguaggio a sé. E a Mallarmé, la prosa non
esiste – c’è l’alfabeto, e poi versi più o meno compatti, più o meno diffusi.
Ma Mallarmé, che è forse l’ultimo guardiano delle metriche francofone (si
pregiava di essere il poeta nazionale, nell’anno o due dopo la morte di
Verlaine) è lo stesso che sancirà, a suo dire, anche la crisi del verso, con i
fili stesi del postum “Coup de dés”, poema grafico (tipografico), cioè in immagine
invece che in parole – l’alfabeto ridotto a segno grafico.
Pasolini
farà poesia-oratoria in prose libere, non scansionate, dette versi perché
tagliate a un certo punto ma senza scansione interna. Che si rileggono inerti,
insonore, malgrado l’intento incitatorio – militaresco, di mobilitazione.
Prosa – “Il fatto è - conclude Fatica, sempre “Lost in
translation”, la sua succinta trattazione della traduzione come “poesia” - che
la prosa non esiste”. La sua, però, sì. Fatta di avanzamento, ragionamento,
misura logica – spiegare, dimostrare, richiede una costruzione sapiente, cioè
architettata, misurata.
Fatica
si rifà a Mallarmé, che a un certo punto, elevato(si) a poeta nazionale, scopre
anche questo, che la prosa non esiste – c’è l’alfabeto, suoni articolati, con
una serie di combinazioni, bene o male articolati. Tutto in effetti si può
dire, purché abbia un senso, buono o sbagliato.
Sogni – Bagheera chiama Mowgli “il
piccolo sognatore di sogni”. Una creatura forse per questo più realistica, fra
le tante, animali, materiali, che popolano fantasiosamente “I libri della
giungla”. Freud era cresciuto? Ma si sa, perlomeno si dice, che teneva “I libri
della giungla” fino all’ultimo, anche nel trasloco dell’esilio, come livre de chevet.
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