sabato 3 giugno 2023
Cronache dell’altro mondo – di ricchi e poveri (234)
Troppi ricchi, troppo ricchi, e troppi poveri, di povertà diffusa e intollerabile. Peter Turchin, matematico russo-americano della complessità, figlio di Valentin, un dissidente esiliato da Mosca nel 1977, fondatore della “ciclodinamica”, lo studio matematico dei cicli storici e sociali, ha organizzato i suoi studenti in gruppi di studio sulle cause dei crolli degli imperi, e delle dissoluzioni dei popoli nei millenni. E ha trovato che due cause sono ricorrenti: troppo potere per i pochi molte afflizioni per i molti.
L’Europa nuovo mondo della Cina
La
mediazione cinese in Ucraina, all’apparenza una mera esercitazione diplomatica,
di facciata, fa storia. È il primo tentativo cinese di ense di entrare negli affari
europei. Anche se in una prospettiva imperiale-universale: la Cina entra in Europa
come è già entrata in Africa, e con un piede anche in America Latina (altri paesi
vorranno seguire il Brasile tra i Brics: il Perù, il Venezuela, e in teoria
perfino il Messico).
Pechino
ha avanzato la proposta non tanto in sé - praticamente nulle le prospettive che
la mediazione parta di fatto – quanto per riequilibrare la relazione sbilanciata
finora intrattenuta con gli Stati Uniti. Troppo stretta, sia industrialmente che
finanziariamente (sono cinesi i maggiori – di gran lunga – investitori nel debito
americano). È questo che spiega le forti
e fortissime pressioni americane sui singoli paesi europei per la riduzione dei
rapporti, anche solo di ex-import, con la Cina: un asse esclusivo
Washington-Pechino è facilmente gestibile, mentre una Cina prim’attrice sulla
scena internazionale non lo è più.
L’elettrico è cinese
Non
c’è solo un gruppo cinese in cima ai fabbricanti di batterie auto al litio, la
Catl, l’universo della mobilità elettrica
è cinese, per due terzi o poco meno. Catl ha prodotto nel 2022 batterie al litio
per 191,6 GigaWattora (GWh), quasi tre volte le seconde in classifica - delle
quali una è anch’essa cinese, Byd - che ne hano prodottte per 70,4 GWh
ciascuna. Cinque dei dieci maggiori produttori mondiali di batterie al litio
sono state – e sono – cinesi. Per un totale di 305 GWh nel 2022, poco meno di tre
quinti del totale, il 59 per cento – solo Catl è al 37 per cento.
Anche
nelle vendite di veicoli il primato cinese nella mobilità elettrica è analogo:
poco meno di tre auto elettriche su cinque nel 2022 sono state vendute in Cina,
il 58,7 per cento del totale mondiale, con 6 milioni 181 mila veicoli – l’Europa
ha seguito, col 25,5 per cento, 2 milioni 683 mila auto – gli Stati Uniti
vengono terzi, col 10,5 per cento e 1 milione 108 mila veicoli.
I
fabbricanti di auto elettriche sono sovvenzionati in Cina dal governo. Ma devono
essere “cinesi”, sia di diritto che come luogo di produzione. È la strada scelta
da Bmw e Volkswagen – che ora vende in Cina la metà delle auto prodotte dal
gruppo, con una quota di mercato del 19 per cento circa.
Giallo cinese
Un
polpettone. Più del genere esotico che giallo – del giallo inglese, whodunit: c’è un delitto e chi lo ha
commesso (dovrebbe essere una spy stoty,
ma non è nemmeno questo). Poirot stesso ci va di mezzo, pasticcione più che cervellotico-brillante.
Il
terzo romanzo di Poirot, “L’assassinio di Roger Ackroyd” aveva avuto successo, 1926,
le sollecitazioni erano pressanti per un seguito, A.Christie soffriva la grande
delusione della sua vita, abbandonata dall’amato marito Archibald, se la cavò
mettendo assieme una serie di racconti già pubblicati, dodici nell’edizione inglese,
undici in quella americana, legandoli col filo di un caposetta-capomafia orientale,
un “mandarino cinese” non meglio identificato - che manovra Stalin e Trotckij
insieme… - con soci disparati, e poco conclusivi. Tra i personaggi un milionario
americano e una scienziata francese, con un’organizzazione Pace nel Mondo, un
dottore, un attore di teatro, caratterista, un maestro di scacchi russo esule.
Dopo
la messinscena della sua propria morte, Poirot redivivo spiega a amici e conoscenti
che lui è suo fratello gemello, Achille invece di Hercule…. Si parte con Poirot
stanco della vita a Londra, attratto dal Brasile, dove ha un’offerta di lavoro…Implausibile,
la storia si conclude con alcune forzature.
Per
il film che se ne è dovuto trarre gli sceneggiatori, disperati, sono ricorsi alla
morte di Poirot subito in un attentato. Naturalmente falsa, ma con tanto di
funerale, e di disperazione del capitano Hastings, dell’ispettore Japp e di
miss Lemon – impassibile il maggiordomo. Ma, a parte questo colpo di scena, neanche
il film è riuscito a ridare senso alla storia.
Una
esumazione dalla serie “Gialli” resa più leggibile dalla vecchia introduzione di
Laura Grimaldi che si ripropone. Un piccolo
denso saggio su Christie e Poe, e Conan Doyle. E sul mondo nel 1926 – non dissimile
da oggi…. Con apprezzamenti misurati: “intrigo vasto, spettacolare” e senza il “come
andrà a finire . “Al tifo si mescola l’ansia”, conclude Grimaldi. Volendo bene,
tutto sommato, al misogino Poirot, che Christie non cessa di maltrattare, fino
all’ultima frase: “Prendere moglie… mettere su casa… chissà…”
Agatha
Christie, Poirot e i quattro, Oscar,
pp. 208 € 12
venerdì 2 giugno 2023
Ritorna la Polonia, imperiale a anti-tedesca
Ritorna il nazionalismo polacco, antirusso e antitedesco – e in
prospettiva antiucraino? Militante: Varsavia ha in programma il raddoppio degli
effettivi armati, da 150 a 300 mila, e l’upgrade di tecniche e di armamenti, portando la spesa militare, oggi già la più alta in Europa
in rapporto al pil, dal 2 al 5 per cento – percentuale storicamente record per
un Paese in pace. In sintonia con Londra e, per il momento, con l’Ucraina. Di cui
la Polonia è oggi comunque, insieme con la Gramne Bretagna, il difensore in
Europa più largamente e desisamente impegnato.
Non è una novità: la guerra di Putin ha solo accelerato una
tendenza già forte in Polonia. Col governo di destra, ma anche prima. Quale partner
europeo più affidabile per gli Stati Uniti, insieme con la Gran Bretagna. E
avanguardia “contro l’egemonia franco –tedesca” nella Ue, oltre che contro la Russia, come il primo
ministro Mateusz Morawiecki spiegava a Mastrobuoni su “la Repubblica” un anno
fa.
Nel 2022, esattamente una settimana prima dell’attacco russo
all’Ucraina, la Polonia firmava un “patto di sicurezza”, che aveva promosso,
con Gran Bretagna e Ucraina. In materia, specificamente, di “sicurezza, energia
e contro-informazione”. Contro la Russia, e in subordine contro la Germania.
Da almeno un dodicennio (ma di fatto già da prima, con la
presidenza Kaczynski, presidente del consiglio l’“amerikano” Tusk) la Polonia
ambisce dichiaratamente a un sottogruppo est-europeo nel quadro Ue in antitesi
all’“asse renano”, Francia-Germania – cioè in antitesi alla Germania. Con la
promozione nel 2012 del 16+1 (poi 17+1, ora 14+1, essendone fuoriusciti i tre Paesi
baltici), il minimercato comune con la Cina. E col progetto del 2015, in accordo
con la Croazia all’altro estremo del quadrante Est-europeo, della Three Seas
Initiative (Tsi) o “Trimarium”– un nome che non a caso evoca l’“Intermarium” di
Piłsudski, il leader ipernazionalista della Polonia ricostituita nel 1919.
La Polonia di Piłsudski, “rivoluzionario, generale, politico e
dittatore” (wikipedia), fece guerra a tutti i vicini: tedeschi, russi, ucraini,
lituani, cechi. Il progetto Intermarium prevedeva la ricostituzione di una
confederazione Est-europea a guida polacca, sul modello dell’unione
Polonia-Lituania del 1386, l’unione tra il regno di Polonia e il granducato di
Lituania sotto l’egida della dinastia polacca degli Jagelloni. Che con la fine
degli Jagelloni, l’unione divenne nel 1569 la Repubblica delle Due Nazioni, una
monarchia elettiva. Finché non subentrarono le spartizioni della Polonia, tra
il 1772 e il 1795 – con Piłsuski rinasceva la Polonia unita.
Il Tsi-Trimarium è un disegno americano. Fatto avanzare da alcuni
centri studi. Su base geopolitica, ma con distinte caratterizzazioni strategiche,
imperiali. La Polonia jagellonica si estendeva dal Baltico al mar Nero e all’Adriatico.
Il Tsi-Trimarium pure, seppure limitatamente all’energia. Insomma al gas. Fu
ideato in America in contrapposizione al Nord Stream, che legava la Germania alla
Russia saltando Ucraina, Polonia e Baltici. E creava un corridoio Nord-Sud. Collegando
il Baltic Pipe, il gasdotto dalla Norvegia alla Polonia via Danimarca, agli
impianti di rigassificazione in Croazia. Che eventualmente si collegherebbe anche
al Tap, il gasdotto dall’Azerbaigian all’Italia fortemente voluto, anch’esso,
dagli Stati Uniti.
Il Baltic Pipe è diventato operativo il giorno dopo le esplosioni
che hanno danneggiato tre delle quattro condotte del Nord Stream Russia-Germania. Che oggi si scoprono opera dei servizi ucraini, con collaborazioni esterne - una base in Danimarca o, più probabilmente, in Polonia.
Al primo vertice Tsi, a Varsavia nel 2017, ospite d’onore è stato il
presidente americano Trump. Al vertice del 2019 a Bucarest la Germania ha voluto
essere presente, ma è stata ammessa solo come membro osservatore. Per la “ferma opposizione” della Polonia. In
corso è un progetto, lanciato da Varsavia due mesi fa, per una unione economica
tra Polonia, Romania e Ucraina, come nocciolo anti-tedesco – anche se la
Germania è il partner economico principale di ognuno dei tre paesi.
Erdogan portato da operai e donne
Erdogan aveva vinto già al
primo turno. Aveva avuto 27,1 milioni di voti, 700 mila più che al primo turno
delle presidenziali 2018. Meno bene aveva fatto, nel parallelo voto
parlamentare, il suo partito, Akp, perdendo due milioni di voti sul 2018. Ma
aveva conservato la maggioranza relativa al Parlamento, col 35 per cento. E in
alleanza con due formazioni islamiste anche quella politica, 323 seggi su 600.
Erdogan ha vinto col voto operaio e femminile. Hanno votato per
lui due elettori su tre del milione e mezzo di votanti in Germania – con punte
più alte nella Ruhr, regione di fabbriche. E il distretto di Bursa, la quarta
città più grande della Turchia, al centro dell’industria automobilistica –
prima di Erdogan era “Bursa la rossa”. Ha votato per lui naturalmente in
Turchia l’elettorato islamico, confessionale. Ma, in questo caso, soprattutto
quello femminile.
La Turchia confessionale si tende a escludere, nelle analisi, dal
paese “moderno”, proiettato sul futuro. Cui invece naturalmente ambisce: benché
confessionale, è una borghesia, piccola e media, urbana e integrata nel tessuto
sociale. Che era a disagio nella di Ataturk, di cui l’esercito è stato
variamente il custode a lungo, del laicismo obbligato. Mentre con Erdogan ha
trovato riconoscimento sociale. Al voto
precedente, nel 2018, il voto femminile per Erdogan e l’Akp ha sfiorato il 60
per cento, tre donne su cinque.
Si tende ad avere della Terchia l’immagine di un paese rurale, mentre
è fortemente urbanizzato – le sole quattro città più grandi, Istanbul, Ankara,
Smirne e Bursa, assommano a 33 milioni di residenti, sugli 85 milioni del
totale. E comunque proiettato nella modernità. L’abolizione introdotta da
Erdogan del divieto di portare il velo nella funzione pubblica, dalle scuole
agli uffici, ha aperto liceri, università e occupazioni alla stragrande
maggioranza dell’elettorato femminile.
Una delle prime iniziative di Erdogan primo ministro nel 2003, prima
ancora di eliminare il divieto di velo, fu di aprire il suo partito, l’Akp, al
“femminismo velato”: misure di sostegno alle donne immigrate nelle grandi
città, e reti solidaristiche sussidiarie al welfare.
Il miracolo Benjamin
Non
c’è una vita di Benjamin semplice, leggibile, in italiano, a parte il volumone
di Eiland e Jennings (“Walter Benjamin. Una biografia critica”), che però
seguono lo scrittore (filosofo? narratore? intellettuale?) nelle sue opere – le
situano, le spiegano con i fatti della vita. Questa della serie tascabile di
vite dell’editrice Rowohlt, la Mondadori di Germania, altrettanto lunga o poco
meno (la serie è stampata a corpo 8, e interlinea uno, con pagine praticamente
doppie rispetto alle edizioni “da banco”), è scritta in lingua semplice e
scorrevole, ed è corredata da foto che anch’esse dicono molto in poco spazio.
Witte
segue Benjamin in tutti gli aspetti. Degli affetti, familiari, poi personali.
Del percorso politico, confuso. Della vita sempre agitata, anche prima di
entrare tra i perseguitati politici (e razziali), per un’inquietudine
personale, e poi per l’esilio, sempre difficile, malgrado le tante amicizie,
generose. All’ombra del suicidio – una forma di bipolarismo, per quanto
alternata a una “produttività” prodigiosa? un destino (farla finita, dopo
un’attesa di settimane, poche ore prima dell’arrivo dell’atteso visto per gli
Usa)? Senza naturalmente evitare le opere. Lo straordinario sviluppo degli
interessi e delle riflessioni di Benjamin, nonché della scrittura, sempre
agevole e sempre innovativa, diversa. Nell’arco di meno di cinquant’anni –
quarantotto.
Bernd
Witte, Walter Benjamin, rororo, pp.
160, ill. € 8,99
giovedì 1 giugno 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (527)
Giuseppe Leuzzi
Al Festival dell’Economia del
“Sole 24 Ore” a Trento si esuma uno studio del 1998 sulle imprese familiari. In
particolare sul passaggio delle consegne tra fondatori e figli. Da cui risulta
che il 65 per cento degli imprenditori del Nord, due su tre, non si fidava del
figlio, “indipendentemente dal suo titolo di studio”. Contro il 65 per cento
degli imprenditori del Sud che “mostravano un atteggiamento aperturista nei
confronti dei figli, purché laureati”. La laurea non distingue – distingueva? –
al Sud solo per il posto pubblico.
Insolita misura per l’annuncio
dell’operazione anti-droga che ha visto alcune cosche calabresi utilizzare per
il riciclo del denaro “spalloni” cinesi, intermediari nella trafila del
riciclaggio. Una indagine fattuale, evidentemente, senza le solite chiacchiere
di preannunci, annunci, retroscena, e arresti di chi capita a tiro. Fare è
molto meglio che dire, soprattutto con i criminali, mentre la mafia da troppo
tempo è solo fatica, con l’accento sulla prima a.
Sicilia redenta
Rivisto, il film
“Sorelle per sempre” di Porporati colpisce, oltre che per l’intreccio, comunque
derivato da un fatto di cronaca, per “il bene del vivere che caratterizza la Sicilia”
– come pensava Alberto Sironi, il regista dei miracolosi “Montalbano” filmici.
Due madri scoprono
che le loro figlie amatissime, sei anni prima, alla nascita la notte di
Capodanno, sono state scambiate nella culla. Alla fantasia un po’ nevrotica di
una delle due succede la conferma, delle compatibilità sanguigne e del dna,
quando le bambine hanno sei anni, e quindi una vita di relazioni inalterabili
con i genitori putativi.
Un’idea di film nata
probabilmente nel quadro della delegittimazione della famiglia, nell’ideologia
corrente di “diritti”: la procreazione non ha senso, il legame “naturale”, animale, madre-figli, il rapporto genitoriale è aperto, e così via. Invece è un film che si fa amare. Oltre che per la storia in sé, come Porporati poi la racconta, di
due madri che vengono a sapere che le figlie adorate, allattate, accudite,
vezzeggiate, non sono “le loro”, anzi di più, per una rappresentazione insolita
della Sicilia, cioè non di mafia o turistica. Un contesto di urbanità. Di padri
amorevoli e di aiuto in casa. Della famiglia unita malgrado tutto. Nonni compresi,
non sentenziosi e non balordi.
È la chiave del successo
duraturo del Montalbano di Camilleri, specie nell’adattamento di Sironi e Degli
Esposti, il produttore. Che hanno dotato i racconti di interni ed esterni gentili
e accattivanti, che nella scrittura non ci sono. E i personaggi (facce,
abbigliamento, modi) hanno affidato alla recitazione molto teatrale di tanti
siciliani teatranti – il siciliano è teatrante, era una maschera in antico, il
Siciliano. Sul tema si può leggere su questo sito “Restituire Montalbano a
Sironi e Degli Esposti”
http://www.antiit.com/2021/04/restituire-i-montalbano-sironi-e-degli.html
e “Sicilia magica”
http://www.antiit.com/2019/08/camilleri-entusiasta-e-triste.html
Il regista Sironi, dimenticato,
in un rarissimo intervento, che “Micromega” gli ha infine chiesto, per lo
speciale 2019 su Camilleri, spiegò solo che aveva voluto rappresentare “il
bene del vivere che caratterizza la Sicilia”.
Mediterranean Smyth
“Mediterranean Smyth” è il nomignolo
dato in patria, al suo ritorno, al capitano di Marina, poi ammiraglio, William
Henry Smith, che aveva operato in Sicilia a protezione del re delle Due Sicilie
durante gli anni di Napoleone. A Messina, il 7 ottobre 1815, a 27 anni, si era
sposato con Eliza Anne Warington, “Annarella”, anche lei ventisettenne, figlia
del console inglese a Napoli. Con la quale fece undici figli, molti divenuti per
qualche verso celebri – tra essi il secondogenito, Charles, astronomo,
egittologo e esoterista, che prese il nome di Piazzi, Charles Piazzi,
dall’astronomo valtellinese Giuseppe
Piazzi, che aveva fondato a Palermo l’Osservatorio astronomico di Palermo, con
cui il padre, che praticava anche l’astronomia, aveva stretto amicizia, facendone il padrino di battesimo del figlio.
Wiliam Henry Smith era arrivato in Sicilia nel 1813, a 25
anni, col grado di tenente, nella “Sicilian flotilla” a difesa del Regno delle
due Sicilie. Per questo servizio riceverà dal re di Napoli Ferdinando I l’ordine
di San Ferdinando e del Merito. Ma la sua attività era soprattutto di rilevazioni
idrografiche.
Di famiglia povera si era imbarcato come
mozzo a 124 anni su un mercantile. Quando il mercantile fu requisito dalla Marina,
entrò in Marina come marinaio. E in Marina era stato poi praticamente su tutti i
fronti in cui si dava battaglia col naviglio napoleonico: in Asia, sella Schelda,
a Cadice, a Tolone.
Promosso comandante nel 1815, al comando
del brigantino Scylla, rimase nel Mediteraneo, continuando le rilevazioni della
costa della Sicilia, della costa tirrenica calabrese, e delle costa libico-tunisina del canale di Sicilia. Due anni
più tardi le rilevazioni divennero il suo incarico ufficiale, al comando della
nave da trasporto “Aid” – poi ribattezzata “Adventure” e addetta alle
rilevazioni in Patagonia, accompagnata dal “Beagle” al suo primo viaggio, il
brigantino che alla seconda missione porterà per il mondo il neo laureato
naturalista Drwin, per una serie di osservazioni (“Il viaggio del Beagle”) che apriranno
la strada all’evoluzione e alla selezione naturale. Con l’“Aid” Smith completò
la ricerca idrografica del basso Tirreno, della Sicilla, di parte della Grecia,
e della Sirte (a Leptis Magna fece incetta di colonne, statue, busti, marmi di ogni
genere, sull’esempio di lord Elgin vent’anni prima ad Atene - ma non per la sua
sua villa in Scozia, che non aveva: per i musei inglesi). Realizzò una serie di
carte che saranno in uso alla Marina britannica ancora dopo la seconda guerra
mondiale. Da qui il soprannome. Lavorò anche nell’Adriatico, d’intesa col Regno
di Napoli e con le autorità austriache, realizzando nel 1822-24 una “Carta di
Cabottaggio (sic!) del Mare Adriatico”.
Questa sua attività descrisse in
un “Memoir description of the
Resources, Inhabitants, and Hydrography of Sicily and its Islands” ,
1824. Cui fece seguire nel 1828 uno “Sketch
of Sardinia”. Per le ricerche nel Mediterraneo fu insignito tardi, nel
1854, della Founder’s Meal della Royal Geographical Society. Una delle sue figlie,
Henrietta, sarà la madre di Robert Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo.
Sudismi\sadismi - L’evasione del Sud
Sintetico e apodittico Cazzullo
sul “Corriere della sera” rimprovra un lettore a cui non piace il ponte sullo
Stretto: la Sicilia, spiega, “nella classifica dell’evasione fiscale – per
importo evaso ogni 100 euro di gettito, dati del ministero dell’Economia – è
quarta, dopo Calabria, Campania, Puglia, e davanti a Sardegna, Molise,
Basilicata”. Il ponte faciliterà il pagamento delle tasse?
In realtà la classifica non è
dell’Economia ma della Cgia di Mestre. Ed è statistica, numerica: tot reddito,
tot tasse pagate. Non sa – non calcola - che al Sud il lavoro, autonomo e
dipendente, è meno strutturato. Tolti gli impieghi pubblici, quelli regolari
sono pochi – nel commercio prevale l’impegno familiare, per i servizi il rapporto
personale. Per non dire i volumi, che sono incomparabili. La Calabria, record
di evasione, 2 milioni di abitanti, fa mancare al fisco 3,3 miliardi. La Lombardia,
record di virtù, 10 milioni di abitanti, ne fa mancare 14,6. Ogni lombardo
quasi quanto il calabrese. L’evasione per abitante, invece che in rapporto al reddito
è più significativa. Specie tenendo conto che in Lombardia, dove i rapporti di lavoro
e affari sono più strutturati, è più difficile – meno “spontanea”, “naturale”.
Calabria
Ha rivoluzionato la filosofia
nel Cinque-Seicento: le ha ridato aria a fronte della teologia, ha spostato
l’ottica da Dio alla natura, “a rischio del carcere e del rogo” – “come è riconosciuto
dallo stesso D’Alembert nella prefazione all’Enciclopedia” (Sossio Giametta, “Arthur Schopenhauer. Controstoria
della filosofia”). Con Campanella e Telesio e Campanella – e con Bruno, Pomponazzi,
Cardano. È dopo che si è persa?
Ignazio Buttitta, “La paglia
bruciata”, ha “un donna minuta minuta\
una tarantola intirizzita,\ l’amica, la moglie, l’amante?” di un pittore conosciuto
occasionalmente, che gli fa: “Buttitta? Conosco le tue poesie.\ Calabrese
sono”. E gli racconta di un viaggio Roma-Parigi, Parigi-Roma, “un discorso
lungo”, della pittura del marito (“lo chiamava marito)” e della “Calabria
selvaggia,\ l’infanzia,\ i morti,\ la madre pazza…\ Il padre vecchio,\
sclerotico,\ già presidente di Corte d’Assise.\ Un discorso sulla lingua,\ a
palate”. Un ritratto dal vero, verosimile – la “donna del Sud” è piena di
sorprese.
Stanley Tucci, l’attore
americano, si vuole calabrese, benché da genitori già americani, figli di immigrati.
Per gli “usi calabresi” con cui è cresciuto e a cui è legato, soprattutto il
senso della famiglia: pasti in commune, con genitori e sorelle, cucinati, cinema
e gite insieme, vacanze fino ai quindici anni insieme. Il padre legando al paesino
di Marzi, tra i casali di Cosenza, a metà arberëshe per parte di madre. Della madre,
segretaria di professione e scrittrice di gastronomia, riconoscendo e frequentando
la parentela a Cittanova. L’uso familiare, materno, ha ricomposto nelle sue due famiglie, con la prima moglie, morta di tumore, e con la seconda, pure inglesissima. E ha ritessuto girando due anni
fa una serie da lui ideata sulla gastronomia italiana, “Searching for Italy”,
in sette puntate. In questo è sicuramente calabrese (come Gay Talese) – per
alcuni le radici sono necessarie.
“A true Calabrese parenting behaviour” ha Tucci
nel suo libro best-seller di avventure familiari e culinarie, “Ci vuole gusto”,
di un suo grande amico, il nobile calabrese Pino Posteraro, che, dopo aver
provato a studiare Medicina per tre anni, col fratello Celestino gestisce un grande e rinomato ristorante
a Vancouver, in Canada, “Cioppino’s”: “un comportamento da vero padre
calabrese”. Pino si è sostituito d’imperio a servire il suo amico,
rimproverando il camerierino che gli stava illustrando il menu: “Ma che fai,
non ne ha bisogno, gli faccio io quello che vuole”. Sorridendo poi al rimprovero muto dell'amico: “È un bravo ragazzo”. Tutto molto calabrese, la Medicina, l’amicizia, la
ruvidezza sopra i sentimenti.
Un altro cuoco calabrese di
cui Tucci e moglie sono innamorati è Francesco Mazzei. Conosciuto sette anni fa,
nel 2016, a capo del ristorante Michelin di Londra “L’Anima”, che ora è chiuso,
lamenta. E invece Mazzei ora è al centro della scena londinese, a capo di tre ristoranti,
spiega a un intervistatore: “Sartoria”, nelle strada dei grandi sarti maschili,
Savile Road, per una cucina “con molti tocchi nordici”, milanese, tartufo; “Fiume”,
“per la fascia media, con cucina del Centro-Sud, specie Campania”; e “Radici”,
“una trattoria, del Sud Italia”. Mazzei, di Cerchiara, ordine al Merito della
Repubblica, non ancora cinquantenne, è arrivato a Londra passando per Roma, il
Grand Hotel, dopo la gelateria dello zio e la scuola alberghiera al paese. Ha
conquistato Londra in dieci anni o poco più.
leuzzi@antiit.eu
Liberare le partite dai telecronisti
È finita come è finita la finale dell’Europa League, ma dopo tre
ore di sofferenza per gli spettatori, ancorché non romanisti e pure
antiromanisti, al televisore. E non c’era scampo, Compagnoni e Marchegiani su
Sky erano anche peggio di Rimedio e Di Gennaro sulla Rai. Genealogie ripetute e
aumentate dei più oscuri calciatori del Siviglia, quanti gol avevano fatto e
quanti non avevano fatto, con elogi insistenti, ripetuti, ribaditi, ogni volta
che un certo Navas toccava palla, o degli argentini che infestavano il campo, Ocampos,
Elamela, sempre litigiosi e traditori. In campo c’era solo il Siviglia. È
dovuto intervenire un commentatore (Adani?) nell’intervallo per ricordare che
solo la Roma aveva tirato in porta.
E l’arbitro. L’arbitro “inglese”, a ogni piega, “scelto da Rosetti”,
un arbitro che “arbitra all’inglese”. Per “inglese” intendendo atletismo,
correttezza, e niente simulazioni. Mentre è il solito arbitro inglese che fa
comodo alle squadre spagnole (a Rimedio scappa di chiamarlo Oliver, altro famoso
“arbitro inglese”, invece che Taylor, come pare si chiami). Scelto da Rosetti
che è una foglia di fico - è stato messo lì da Collina, del duo Collina-Ceferin
che infesta da troppi anni il calcio europeo. Un arbitro che non nasconde nemmeno il suo
incarico di killer: non sanziona tackle, pestoni e trattenute iberico-argentine,
nemmeno un calcio di punizione (è “calcio all’inglese”), e quando il romanista reagisce
è subito giallo: giallo subito per Matic e Pellegrini, il cuore della Roma, e
atletismo dimezzato per quattro quinti della partita.
Questo Taylor è stato sfrontato, si vede che ha spalle larghe. Partendo dalle ammonizioni subito. Ha
dato un rigore che non c’era, si vedeva a occhio nudo, al Siviglia, e ne ha negato alla
Roma uno che invece c’era, a occhio nudo e al replay. Ogni pochi minuti correva
alla panchina della Roma per innervosirla ammonendo qualcuno. A un calciatore
della Roma un argentino ha potuto spaccare il labbro con una gomitata, e Taylor niente.
Calciatori e tecnici del Siviglia hanno invaso l’area della Roma a bordo campo
per menare le mani, e l’“arbitro inglese all’inglese” niente. Né Rimedio né
Compagnoni se ne sono accorti, nemmeno gli ex calciatori che gli fanno da
spalla - e i “cronisti a bordo campo”?
Cosa vedono questi telecronisti e commentatori? Sono sul campo? Sono
in studio a Roma? Hanno preparato la lezioncina e non sanno dire quello che
vedono? Togliendo il sonoro si vedeva un’altra partita.
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Lettera,
Si dice in città
La guerra è brutta, tanto più se grande
Una
prima versione del “Viaggio al termine della notte”? Un racconto altrettanto
cruento e grottesco, della Grande Guerra vissuta come un macello. Per i reduci
un caso di “mai più”, di “der des der” in francese l’ultima delle ultime”. Più
autobiografica del romanzo poi famoso. Ma già racconto compiuto, che si fa
leggere non solo per “obbedienza” céliniana. Le pagine iniziali, sul cavaliere
atterrato e ferito al braccio e alla testa, che si aggira dolente tra cadaveri
e carcasse, tra le pozzanghere profonde scavate dagli obici, masticando sangue,
sono eccezionali.
“Guerra”
è uno dei due abbozzi di romanzo inediti, l’altro s’intitola “Londra”, che sono
riemersi fra i 5.234 fogli autografi scomparsi dalla casa dello scrittore a
Montmartre nel giugno del 1944, quando Céline, temendo rappresaglie alla
Liberazione, si era rifugiato in Germania – poi in Danimarca. Un Jean Pierre
Thibaudat, che li aveva ereditati da chi li aveva sottratti, nel 2021 li ha
restituiti agli eredui dei diritti Céline.
C’è
già la frasetta, musicale, ipnotica – il “parlottio ipnotico, sbracato e
ininterrotto”, dice la nota editoriale. Non ci sono i punti di sospensione,
l’invito al lettore a concludersi il discorso (sono rari, lasciano aperta la
battuta in conversazione). C’è il lessico composito, con parole rare o di
gergo, militari, medicali, malavitose, argotiche, adattate – l’edizione
francese si correda di un lungo “lessico della lingua popolare”, ma alcune
forme espressive sono già céliniane. E c’è la guerra, cruda, sporca, senza mai
una nota d’eroismo o solo d’onore. La guerra è sporcizia, sangue, sofferenza,
morte. Il tutto nel registro già grottesco, senza eroismi né sentimentalismi, e
mescolato ai rifiuti: il malavitoso che fa venire la moglie al fronte per
guadagnarci su qualcosa, infermiere che manipolano libidinose i dissanguati
pazienti, comandanti scemi, traffici di ogni tipo disonorevoli.
“Alla fine”, può concludere il risvolto,
“attraverso il suo delirio, ci si accorge che Céline è l’unico scrittore che
sia stato capace di nominare quegli avvenimenti”, i massacri piccoli e grandi
della Grande Guerra: “Dalla parte dei Buoni nessuno ha trovato la parola”. Non
si pone mai mente alla mentalità del reduce, che perseguita Céline come ogni
altro, lui ferito anche gravemente, che la guerra teme e denncia: c’è qui molto
che spiega i libelli sconvolti degli anni che annunciavano il secondo Grande
Macello.
È
però la”testimonianza” di uno scrittore. Un teatrante della parola. Ancora al debutto,
seppure in là con gli anni, e con le esperienze di vita. Il contesto è poco letterario,
è un ospedale da campo, al fronte. Ma la disposizione lo è, le scenografie, i
tipi umani, i dialoghi. Una pagina, a due terzi della narrazione, è un sottile duello
con Proust, non nominato, il romanziere del momento – il dottor Destouches
aveva le sue buone letture (quanto Céline resta da scoprire). Sulla
maniera di trattare i ricordi, di rivivere o raccontare il passato: “Bisogna
diffidarne. È puttano il passato, si scioglie nella fantasticheria”, si dà “piccole
melodie strada facendo che non gli si chiedevano”. La sua vuole essere un’altra
maniera di trattare i ricordi, di raccontare il passato, arrabbiata, militante.
Da outsider, si sarebbe detto qualche
anno dopo, e non ammansibile.
La
traduzione di Ottavio Fatica, che dopo cinquanta o sessant’anni può finalmente
cimentarsi col Céline narratore, ne rende la “musichetta”, il fraseggio. Ma con
un curioso effetto rispetto all’originale: come in falsetto, una musichetta che
si voglia stonata. Effetto probabilmente del fraseggio colloquiale
umbro-toscano che adopera - che, senza voler fare il Malaparte finto burbero
dei “Maledetti toscani”, va per il birignao: “sbrindelli”, “a spizzichi e
bocconi”, “montarozzi”, “a puntino”, “gnaulare”, “un pochettino!”, “gli
sgraffigno”, “cagnara nella crapa”, con mica” e “manco a dirlo”. Oltre al
“cazzi” intercalare dei social che ci perseguita, che destoricizza
(infantilizza).
Céline,
ha ragione lo stesso Fatica in “Lost in translation”, dove parla di questa sua
traduzione, non è rabelaisiano, eccessivo - non fa liste, non fa
moltiplicazioni. Céline è perfido. È quello del riso sardonico, amaro e
spietato: ricerca o crea la battuta più feroce, o più commossa. E brusco:
procede per accumulo – per piccoli episodi, immagini, sensazioni, aneddoti,
brevi o troncati, eccessivi (l’infermiera dalla mano lunga, il magnaccia
furbo-scemo, la moglie prostituta del magnaccia, che gode anche dodici volte di
seguito, la bella camerierina dura a pizzicare e scema, le trincee e le
“cavallerie” – gli “avanti, miei prodi” contro le mitragliatrici e gli obici ad
alzo zero). È uno che veramente la vita, sua e degli altri, sentiva pericolosa
e insensata – senza bisogno di filosofarla, come Camus e Sartre faranno più
tardi, con sintassi di scuola. E la petite
musique che qui per la prima volta adotta, se questo “Guerra” è un abbozzo
del “Viaggio”, è un primo segno dell’appassionata irrisione, verso la vita e
gli esseri, che sarà il suo “stile”, parola aborrita-prediletta, il suo marchio
di fabbrica (non ancora la petite musique
“ariana” che rivendicherà micragnoso nei libelli di fine anni 1930).
I
suoi “staccato” come le sue ariette e recitativi colloquiali sono veramente
calchi o copie del popolaresco. Riccardo De Benedetti lo ricostruiva qualche
anno fa a proposito di “Bagatelle”, il primo degli opuscoli antisemiti. Lavorando sulla traccia aperta
da Emmanuel Mounier, che recensì l’opuscolo su “Esprit” documentando
puntiglioso le fonti di una trentina di passi in due opsucoli “dello stesso genere di quelli che si vendono all’uscita dei
metrò, con le liste degli ultimi numeri del Lotto e le illustrazioni
pornografiche”, e in “Israele, il suo passato, il suo avvenire” di H. de Vries
Heekelingen, antisemita blando del filone “gli ebrei meglio in Israele”). L’animus è invece cattivo. Angosciato, già
nichilista – Ferdinand, il futuro Bardamu, racconta in presa diretta ma già da
medico, anche se non lo sa (non lo dice), da fisiologo e anatomista. E già
molto umano, da medico di base di periferia, medico dei poveri.
L’edizione italiana è corredata dalla prefazione di François
Gibault, il biografo di Céline, e dal nota del curatore Pascal Fouché. Con un
indice dei nomi e dei personaggi, una nota del traduttore, e alcuni facsimile
del manoscritto.
Louis-Ferdinand
Céline, Guerra, Adelphi, pp. 160 €
18
mercoledì 31 maggio 2023
Destra-sinistra – se la sinistra non sa cosa fa la destra
astolfo
Si
chiude a una ragazzina l’account
Instagram perché ha osato criticare, educatamente, Chiara Ferragni. Non si può
criticare Chiara Ferragni perché è una procuratrice pubblicitaria, promotrice
efficace, pare, di vendite, e quindi fa ricca Google. Ma senza sdegno per la
censura – anzi, lo sdegno è per la ragazza: non aveva l’età per l’account, ha barato, il suo post è troppo
ben scritto.... (leggere per credere, l’infamia non ha limiti). Perché Ferragni
è, anche, una icona della sinistra. Non sinistra, nel senso che è una che vende
pubblicità senza dirlo, ma della sinistra politica.
Dunque,
la sinistra è una pubblicità? Bella, certo, almeno per qualcuno, ma sempre
pubblicità, compulsione a spendere – consumismo, spreco, superfluo, etc., etc.,
la vecchia vergogna, da riccastri parafascisti, o parà e fascisti...? In questo
paese nulla è certo.
Vince
la destra e la sinistra s’interroga. No, non s’interroga nemmeno, “in questo
Paese”.
“Questo
paese”, “in questo paese”, da D’Alema a Nanni Moretti è locuzione che connota
di sinistra. Si dice “questo paese”, “in questo paese” è si è automaticamente
di sinistra. Nel senso che chi lo dice, lei\lui, è migliore, molto migliore, di
“questo paese” – sottinteso “di merda”. Ma la cosa è di sinistra, dire un paese
che è un paese di merda? Dirlo in continuo, pensarlo, non dormirci la notte,
fare il Br? La supponenza è di sinistra, quel placido, bruto, stancante
ritenersi i belli-e-buoni, i καλοκαγαθοι, della Repubblica? Il “discorso” della sinistra è
di sinistra, fuori dalla polemichetta sterile degli onorevoli e delle influencer, che di partenza fanno
commercio?
Protestano
inutilmente a Roma i residenti residui, pochi, del centro storico, contro il
Campidoglio di sinistra che moltiplica fast-food e birrerie. In effetti, la
depredazione del centro storico, ora praticamente inabitabile, un tempo da
centomila abitanti, è opera della sinistra: isole pedonali per lo struscio,
divieti di circolazione, divieti di parcheggio, terrazze all’aperto fino
all’alba.Nel nome della modernità – cioè nel nome del commercio, piccolo e
grande. Il centro storico di Roma è stato svuotato, dietro queste apparenze. Ma
è di sinistra. Come sono di sinistra i centri commerciali invece che le
attività artigianali, e le concessioni balneari all’asta – la sinistra ci ha
provato pure con i mercatini rionali.
L’onorevole
Bersani, uno che ritiene il partito Democratico troppo di destra, si consegnava
non molti anni fa alla storia per le “lenzuolate” di liberalizzazioni, cioè di
liquidazione del piccolo commercio al dettaglio, del negozio di quartiere. Ci
ha provato pure con i mercatini rionali, forte della solita “direttiva europea”,
la Bolkestein della Commissione Prodi, che il Parlamento europeo (Popolari e
Socialisti) provò per anni a bocciare. In ossequio a un qualche vangelo
anglosassone – che invece scopriva, e tenta con difficoltà di crearsi, il
fornitore all’angolo. A vantaggio delle Grandi Superfici, i centri commerciali
dell’affarismo immobiliare, naturalmente vergine da corruzione. E pazienza se
per fare la spesa dobbiamo farci ore in automobile – benché assolti in partenza:
la protezione dell’ambiente è esclusiva di sinistra. Mentre
sull’altro versante, la sinistra confessionale, Rosy Bindi s’illustrava per
riprivitizzare la sanità, già feudo “bianco”, in mano agli amici e agli amici
degli amici. Un disastro, non solo per la sinistra. Aveva cominciato Luigi
Berlinguer col primo governo Prodi, poco meno di trent’ani fa, “rossi” e “bianchi”
uniti nella lotta, con la privatizzazione dell’università. Più
in generale un disastro, la sinistra al tempo del mercato - la medicina che si
è data chiamandola modernizzazione. Tra
liberalizzazioni e privatizzazioni, cioè a favore di interessi monopolistici –
è falso, è risaputo, che il mercato è egualizzatore ed è aperto, quello è il
mercato regolato, il mercato senza più è di chi ha la bocca più grande.
Con la
vittoria politica della destra in Italia non si ragiona più. Basterebbe
ragionare che sono quarant’anni che la destra vince, quando la fanno governare.
Ma se ci si pensa è peggio: cosa lo impedisce? Perché non si studia per quale
motivo e in che modo Meloni vince dopo un lungo Berlusconi? È anche curioso
che, oltre a Fazio e Annunziata, la sinistra non abbia santi – due che peraltro
sono persone d’affari.
Si dice
che la sinistra ha il monopolio culturale, ma non si vede in che cosa. Se non
che alimenta la destra politica, la destra al potere. O non sarà questa destra
un po’sinistra? Almeno come lo sono i media. Che in Italia sono tutta la
“cultura”. Una volta c’erano gli intellettuali, ora niente, solo
intrattenitori, televisivi e social – teatranti. Si parla di destra e sinistra,
in verità, solo per stanchezza, una cosa rituale. L’unica riflessione è di
Bobbio, risale al 1994, ed era inerte già allora. Ferma alla rivoluzione francese, mentre la destra aveva stravinto in
Italia. E con leadership di un Berlusconi – almeno Meloni ha esperienza
politica. Dopo che la magistratura e il giornalismo “di sinistra” avevano
abbattuto il sistema politico. Una riflessione ferma all’uguaglianza – che il
fascismo ha probabilmente perseguito con più ampiezza della Repubblica (certo, un passo dietro al
sovietismo, che l’autocrazia realizzò totale: ci vuole molto potere per fare l’uguaglianza).
Con indifferenza, non di proposito ma di fatto, da hobbesiano studioso di
Hobbes, alla libertà, e alle pari opportunità, di classe, di genere, tra Nord e
Sud - del mondo e dell’Italia. Fermo, anche nella terminologia, al
parlamentarismo della prima Repubblica francese – e al suo parolaismo (tra cui
proprio destra e sinistra, segmenti dell’emiciclo parlamentare).
Destra-sinistra
è uno dei tanti cascami del gergo politico francese, che l’Italia ha adottato
nell’Ottocento e di cui non si è mai liberata, né sotto il fascismo e neppure
negli ormai ottant’anni della Repubblica. Nella fraseologia giuridica e
politica, e in quella dell’informazione, nell’opinione pubblica.
Invano
Popper e l’ultimo Croce della polemica con Einaudi (“non c’è liberalismo senza
liberismo”) hanno spiegato che in una società aperta la maggiore libertà per un
individuo e la maggiore libertà per tutti si stabilisce caso per caso, secondo
la situazione del momento, a volte con una soluzione liberistica, a volte con
una collettivistica - Croce usava proprio questa parola. Senza ricorrere a
schieramenti fissi – tantomeno dichiarati, autoelettivi. La Pira, curiosamente,
il sindaco più di sinistra che l’Italia abbia mai avuto, uomo pio, non parlava
di destra e sinistra, ciò che professava e faceva chiamava “la cosa giusta”, al
momento, nelle circostanze.
Quando
aveva affrontato la libertà, scrivendone vent’anni prima (nelle voci
“Eguaglianza” e “Libertà” scritte per l’“Enciclopedia del Novecento”, dell’Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, pubblicate rispettivamente nei voll. II, 1977, e
III, 1978). Bobbio ha mostrato che non solo la teneva anche in conto ma molte
cose in materia le sapeva. Da studioso di Hobbes partiva anche “dalla constatazione che
gli uomini nello stato di natura sono eguali”. Ma, a differenza dei teorici
dell’eguaglianza, trovava proprio nello stato di natura una delle cause
del bellum omnium contra omnes. Bella e semplice, l’eguaglianza è
inafferrabile. E Bobbio non sapeva nascondere l’irritazione¨ - erano anni in cui
pencolava dal partito Socialista verso Berlinguer, il partito Comunista:
l’eguaglianza è vuota, detto alla prima pagina, l’eguaglianza è vacua, è una
petizione di principio in tutte le sue formulazioni, “a ciascuno il suo”, “la
legge è uguale per tutti”, “a ciascuno secondo i suoi bisogni” (Marx).
L’ineguaglianza è certo reazionaria, concludeva. Ma l’eguaglianza è una
petizione di principio, va ogni volta riempita, sempre con la libertà.
La seconda voce, “Libertà”, trovava Bobbio a suo agio, pianamente didattico. La
libertà gli bastava esporla: è una petizione di principio anch’essa, ma non
problematica. A disposizione di tutti, e
senza controindicazioni. Non fino al “silentium legis” come Hobbes già
configura. E tuttavia sempre operosa. Anche se il Novecento l’ha negata.
La seconda voce, “Libertà”, trovava Bobbio a suo agio, pianamente didattico. La
libertà gli bastava esporla: è una petizione di principio anch’essa, ma non
problematica. A disposizione di tutti, e
senza controindicazioni. Non fino al “silentium legis” come Hobbes già
configura. E tuttavia sempre operosa. Anche se il Novecento l’ha negata.
La sintesi che Bobbio
faceva mezzo secolo fa della libertà ferma da un secolo è tuttora applicabile.
Con i tre problemi della non-libertà rimasti irrisolti, allora come oggi: “A
livello economico il tema dell’alienazione di derivazione marxiana, a livello
politico il tema della burocratizzazione (o razionalizzazione del potere
legittimo nella forma del potere legale), di derivazione weberiana, a livello
ideologico il tema della manipolazione dell’opinione attraverso le
comunicazioni di massa, che ha avuto la sua prima e contestata formulazione
nella teoria critica della Scuola di Francoforte”.
Un problema – i tre
problemi – per tutti. Perfino per i fascisti, si direbbe. Bobbio infatti non
prospettava a essi vie d’uscita. Ma purtroppo apriva un quarto fronte, che ora
ci attanaglia, con la categoria della società civile.
Società civile Bobbio
brevemente chiarisce come “organizzazione della produzione e dell’intera
società” rispetto allo Stato - il leviatano del pensiero liberale. Ma fatalmente
convergendo nello slogan di Scalfari e Berlinguer, che chiude in un impasse da
mezzo secolo l’Italia - la società dei belli-e-buoni, esclusivi, spregiatori, i
pataccari della questione morale.
La società “civile” è
una contraddizione. E un’autoaffermazione. L’aggettivo ha indubbiamente una
valenza positiva, e si spiega che un partito, o gli spezzoni della Dc e del Pci
che se ne fanno bandiera, lo utilizzino e lo vantino. Ma: cui prodest? Tanta saccenza e tanta ignoranza.
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Sinistra sinistra
Dipendenze e redenzione
S’intrecciano
vite molto americane, di abbandoni e di “dipendenze”, dall’acol, dalle droghe. Vite
tutte anche, sempre per essere americane, fondamentalmente buone, e col lieto
fine. Ma rappresentate con garbo, e in chiaroscuro, anche se lungo il solito
filo di buone intenzioni: sempre interessanti. Merito probabilmente dei due
protagonisti: il nonno Morgan Freeman e la mancata nuora Florence Pugh –
attrice inglese, di forte formazione teatrale, quindi polivalente, e misurata.
Nel
solito banale incidente per distrazione da telefonino, Florence provoca la
morte della futura cognata e dei di lei marito, che molto le volevano bene. Il
mancato suocero Freeman, uomo violento in famiglia nei lunghi periodi di alcolismo,
specie con il figlio, che Pugh avrebbe dovuto sposare, molto gliene vorrà per
la perdita della figlia che invece adorava. Ma la incontra in parrocchia tra gli
alcolisti anonimi, e la salverà.
Zach
Braff, A good person, Sky Cinema
martedì 30 maggio 2023
La distruzione del risparmio
astolfo
“Da
Paese di risparmiatori siamo diventati un Paese di indebitati”, è osservazione
marginale di Antonella Sciarrone Alibrandi, docente alla Cattolica di Milano di
Diritto dell’Economia, a pranzo con un intervistatore. E invece no, non
marginale. È il segno del mutamento profondo dell’Italia negli ultimi
quarant’anni, uno dei segni. Domani la “Relazione annuale” del governatore
della Banca d’Italia Visco constaterà che il tasso di risparmio delle famiglie italiane si è ancora
ridotto, in un paio d’anni, al 10 per cento del reddito disponibile lordo. E
che, per il solo effetto dell’inflazione, c’è stato un calo in pochi mesi del
valore reale di depositi, obbligazioni e finanziamenti pari al 7,2 per cento
del reddito disponibile.
Dei
tre miracoli economici del dopoguerra, dei tre paesi sconfitti, l’Italia
condivideva col Giappone il record mondiale del risparmio tra la varie forme di
distribuzione del reddito. In una con gli assetti familiari, monogamici, anche
contro le evidenze di fatto, comunque improntati alla continuità. A differenza
della Germania, dove il consumo prevaleva sul risparmio. Ora l’italiano – anche
l’italiano – è in mano alle banche, tra
fondi comuni, fondi pensione e polizze vita che sarebbero da codice penale, e
assicurazioni che non assicurano nulla - non valgono al bisogno, servono solo a
salvare il posto di lavoro ai residui impiegati di banca, che altrimenti lo perderebbero.
Cioè è, progressivamente certo, poco per volta, senza farsi accorgere, derubato
legalmente.
L’univa
forma di risparmio è tenersi liquidi – tenere i soldi “sotto il materasso”. È
sciocco, ma è vero.
Le
banche non remunerano più i depositi. E in qualche modo, più o meno
surrettiziamente, li tassano. Un conto ad attività medio bassa, da pensionato, paga
ogni anno un migliaio di euro: 900 alla banca, per servizi ordinariamente in
automatico, e 100 allo Stato per bolli. Si pagano alla banca (prelievi,
bonifici, incassi, compravendite di titoli): 140 euro per il conto corrente, 60
per la carta di credito (40 per l’emissione, 24 per gli addebiti mensili), 40
per i servizi di investimento, 400 per la gestione del deposito titoli, 250 per
gli incassi per conto del cliente. Bonifici e bancomat a un costo hanno sostituito
gli assegni che invece erano gratuiti, e non sono nemmeno tanto più pratici. Si
paga per niente, un addebito o un accredito costa sempre uno e due euro.
Nel
recente rialzo dei tassi primari il fatto è di evidenza sconcertante: pochi
centesimi ai correntisti, contro un tasso medo sui prestiti al 4 per cento – di
fatto all’8-12. E senza alternative: il risparmiatore italiano, contrariamente
alla vulgata, pigramente diffusa dai giornali, è il meno invischiato tra i “capitalisti
europei in fuga”, in Svizzera, negli Usa, nelle varie isole ma opportunamente
indolori. Le tensioni di metà marzo, che hanno registrato in tutta Europa fughe
in massa dei grandi depositi verso la Svizzera e gli Usa, sono stati irrilevanti
in Italia - malgrado la minima, o nessuna, remunerazione. Il piccolo calo dei
depositi tra marzo e aprile si calcola che sia andato sui Btp, le cui emissioni
si sono intensificate nel periodo, pari a un decimo delle emissioni totali in
cantiere al Tesoro nel 2023.
È
l’effetto nefasto della banca universale, che nell’ondata di regolamentazioni anglosassoni
che ci ha seppelliti a fine Novecento (privatizzazioni, liberalizzazioni, e appunto
la banca universale) è arrivata in fretta all’annientamento del risparmio. Non
più casse di risparmio, popolari, rurali. Risparmio non remunerato, in nessuna
forma. Con rendimenti, se in obbligazioni, al di sotto dell’inflazione. Di quella
nominale ma già prima e di più di quella reale – che non con i sistemi di rilevazione
adottarti in parallelo è costituzionalmente sottostimata.
Il
credito approssima di fatto, anche quando legalmente si tiene al disotto, l’usura,
è costosissimo, tra interessi e spese. Sempre a fronte della nessuna
remunerazione del risparmio, e anzi delle pratiche tese a sottrarlo.
I redditi da capitale sono tassati al 21-26 per
cento. Già questo è uno scoraggiamento ad accumulare. Col ridicolo che la
vincita al lotto è esentasse, l’investimento in titoli è tassato al dividendo,
e tassato al valore aggiunto seppure di Borsa, e paga bolli in continuo, come una
colpa.
L’immobiliare è ancora relativamente protetto dal
vecchio catasto. Ma la casa è da tempo nel mirino di un fisco perennemente indebitato,
per una spesa pubblica sempre più gonfia e sempre meno produttiva – basta vedere
come sono praticati e quanto sono pagati gli appalti pubblici. Tra Imu, Tari,
Tasi, redditi dominicali.
Peggio
va la casa, il bene degli italiani – l’investimento di tutti, il risparmio, anche
dei poveri. L’82 per cento degli italiani possiede la casa in proprio, poteva
vantare Andreotti in uno dei suoi tanti governi attorno al 1980, confortato dal
“Reddito delle famiglie”, l’annuario statistico della Banca d’Italia. Oggi il
70 per cento possiede l’immobile in cui vive. Le quotazioni del settore sono
scese del 20 per cento tra il 2010 e il 2022. E solo il 28 per cento ha anche
altre case.
La
contrazione è l’effetto delle tre “ultime tre recessioni” che la Banca d’Italia rileva nei “Bilanci delle
famiglie”, la crisi bancaria, quella del debito, e quella del covid. “Nel 2020 il reddito medio delle famiglie italiane a
prezzi costanti e corretto per confrontare tra loro nuclei familiari di diversa
composizione, era più alto del 3,7 per cento di quello del 2016, ultimo dato
disponibile, ma ancora inferiore di quasi 8 punti percentuali rispetto al picco
raggiunto nel 2006, prima delle ultime
tre recessioni che hanno colpito l'economia italiana”. Ma, di più,
anche se la Banca d’Italia non lo rileva, il reddito disponibile, risparmio
compreso, arranca per via della tassazione, che il governo Amato nel 1992 e il
governo Monti dodici anni fa hanno dispensato sulle case, seconde e anche prima.
Sulla
prima casa i governi successivi hanno rimediato. Quella delle “seconde case” è invece
una storia a parte. Sono in larghissima maggioranza non il casale in Umbria o
in Toscana, o in Lomellina o in Brianza, sulla Riviera o sulla Costiera. Sono
le case familiari di origine, che gli italiani, pur emigrando volentieri, non hanno
abbandonato. Sempre nel quadro di una cultura della durata: della famiglia,
della continuità, del risparmio. Tutt’oggi, ancora, il 55 per cento delle
famiglie con reddito da primo quintile, quello da minore condizione economica,
possiede la casa di abitazione. La statistica non c’è, ma lo stesso quintile ha
anche la “seconda casa”, quella di origine, magari solo un rudere.
È
una continuità che fa l’immagine, e anche la maniera di essere, dell’Italia rispetto
ad altre culture, anche europee, anche prossime: la continuità del paesaggio,
degli insediamenti, della storia. Il radicamento, la stabilità, anche nell’emigrazione.
Molte sono ogni anno in abbondanza crescente abbandonate, per i carichi fiscali
che il governo Amato ha imposto e il governo Monti ha triplicato. Disfarsene è
impossibile, non c’è mercato, ma disappropriarsene diventa un obbligo.
Col
risparmio, anche il paesaggio e la storia vengono disfatte. Per quale buon
esito?
Non
solo il paesaggio, la società cambia: non più figli, pet in cambio. E il modo di vivere: si vive per se stessi, per un
arco di tempo comunque breve. Cambia la coppia, cambia la psicologia. La demografia
cambia, dove ancora si procrea: già la famiglia “cinese”, la coppia con un solo
figlio, dopo due generazioni è isolata. Il risparmio perde la funzione generazionale
– “pensare ai figli” (con la casa, certo, la casa d famiglia, dei genitori, dei
nonni). Ma la deriva non è inevitabile. Ed
è perdente. Se la stabilità non è più a premio e si vive nell’instabilità
stabile, questo è il peggio di tutto: non è uno sviluppo accrescitivo ma diminutivo
– è il consumo fatto vita.
.
Amazzoni alla Bud Spencer
Le
Amazzoni del Dahomey, corpo mezzo storico mezzo fantastico, per due ore e mezza
di una “americanata”. Una sorta di peplum, i film “storici” degli anni 1950,
“Cleopatra” etc., traslato in Africa. Aggiornato - nel senso che è dovutamente femminista. Con abbandoni e agnizioni, tradimenti e
devozioni, schiavisti cattivi e schiavisti buoni, e attrazioni fatali
interetniche.
Un’idea
probabilmente buona, ma questa è l’Africa di New York, di Madison Avenue. La parte
più succulenta è, al centro, una battaglia alla Bud Spencer-Terence Hill.
Gina
Prince-Bythewood, The Woman King,
Sky Cinema
lunedì 29 maggio 2023
Il mondo com'è (462)
astolfo
Edita Broglio – Pittrice presto dimenticata, lettone di origine, è stata l’animatrice di “Valori
plastici”, la rivista che editava il marito Mario, dal 1918 al 1921, e del
movimento del “realismo magico” che movimentò la pittura italiana, in polemica
contro il non-figurativismo, negli anni 1920 e1930. Nata in Estonia, a
Smiltene, a Nord-Est di Riga, studiò per tre anni all’Accademia d’Arte di
Koenigsberg nella Prussia Orientale, oggi Kaliningrad, exclave russa. Dopodiché
passò a Roma. Dove fu chaperonata da Olga Resnevič Signorelli, altra lettone, che
aveva studiato medicina in Svizzera, poi a Siena e a Roma, dove si era laureata
nel 1906, e aveva spostato il medico Angelo Signorelli. Olga si voleva
giornalista e sarà biografa e traduttrice dal russo. Teneva un salotto
frequentato e introdusse Edita a quella che sarà la “scuola romana”, Spadini,
Meli, Ferrazzi.
È stata di fatto una delle tante artiste russe in Italia
– e dei tanti artisti. Della specie che Antonella d’Amelia spiega, in
“La Russia otreconfine”, p. 346, come immedesimate nella cultura classica, o
cultura italiana: non di “scelte esistenziali come gruppo sociale a sé stante”,
ma come “fusione con il mondo artistico italiano, una modulata ricerca di
simbiosi e affinità”. Nella pittura “com’è avvenuto anche in altri ambiti intellettuali
– dall’editoria al teatro, al cinema, alla musica”. O come scriveva Ungaretti per
il catalogo della mostra Broglio alla Galleria del Vantaggio
a Roma nel 1957: “Qui pienamente si rispetta la tradizione che di continuo può
rinnovarsi e compiere altri prodigi quando chi ad essa si accosti non le chieda
di potere imitare questo o quel prodigio dell’arte del passato, ma che il dialogo
non venga interrotto”.
Prima della guerra Edita collaborò in varie opere col marito
Mario, e con Carrà e De Chirico. Ebbe incarichi e finanziamenti dalla Banca
d’Italia. Era molto riverita, per il suo movimento di “Ritorno all’ordine”. Ma
di più e con più riconoscimenti lavorò dopo la guerra. Ebbe personali alla
Galleria Gian Ferrari a Milano nel 1953, e a Roma alla galleria Obelisco nel
1956 e alla galleria del Vantaggio nel 1957. E una presenza notevole alla
retrospettiva della Scuola romana della Quadriennale del 1959, e alla
mostra che Carlo Ludovico Ragghianti organizzò a Firenze nel 1966. Impegnandosi
molto, e riuscendoci, a non far considerare la rivista e il movimento di “Valori
plastici”come reazionario. In Toscana, dove si era ritirata alla morte del marito
nel 1948, fece vita ritirata, e dipinse poco. Ma rimise in ordine tutte le
carte di “Valori plastici”, sempre in vista di un riconoscimento della correte
fra quelle principali del Novecento. Avrebbe voluto creare una fondazione intitolata
al movimento, ma non ce la fece – i quadri con cui intendeva finanziarla le
furono rubati. Morendo nel 1977 lasciò quadri e disegni, poi venduti all’asta,
alla Fondazione Brera a Milano.
Yvette
Pierpaoli - Yvette Pierpaoli, francese, figlia di un
manovale italiano, emigrato probabilmente da Stromboli, è solo ricordata da Le
Carré. Nelle memorie “Tiro al piccione” rivela in lei il modello del suo
romanzo “Il giardiniere tenace”. Dopo morta, ne ha tessuto l’elogio funebre estesamente
sul settimanale “The Observer”. Indomita operatrice umanitaria in Cambogia,
Guatemala, Bolivia, Albania, e in Africa. Da ultimo in Kossovo, dove è morta,
alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
Lei
stessa ha raccontato di sé in “Una mamma per mille bambini”. Dove però rivive la
sua seconda o terza vita, da operatrice umanitaria. Dapprima per caso: dalla
Cambogia, dove aveva un’impresa di importazioni di beni di consumo durevoli e
una di trasporto aereo per distribuire questi prodotti, stava passando in
Thailandia, era il 1975,quando si era imbattuta in un bambino quasi morto,
abbandonato per strada, terrorizzato, che riuscirà con grande difficoltà a rinfrancare,
restituendogli una qualche gioia di vivere – finirà per adottarlo. Scopre cioè,
per caso?, che la Cambogia non è il paese di Lon Nol, che governa a Phnom Penh con
la protezione americana, ma dei Khmer rossi di Pol Pot, un capo comunista
terrorista.
La
Carré la ricorda così: “Di tutte le brave persone (che hanno più coraggio di
me) la più coraggiosa che ho incontrato nei miei viaggi – qualcuno direbbe la più
pazza, ma non io – è stata una piccola donna d’affari francese, provinciale di
Metz, chiamata Yvette Pierpaoli, che, col suo compagno Kurt, un ex capitano di
mare svizzero, gestiva una sgangherata ditta d’importazioni a Phnom Penh, per
la quale manteneva una scuderia di aerei monomotore vecchiotti e una variopinta
squadra di piloti, per saltellare di città in città sopra la giungla controllata
da Pol Pot, a consegnate cibo e forniture sanitarie e riportare indietro
bambini malati in quella che era ancora la sicurezza relativa di Phnom Penh”.
Una truppa “di piloti asiatici e cinesi, più abituati a consegnare macchine da
scrivere e cucine” che a salvare “bambini e madri “ – “ovviamente i piloti
erano santi solo part-time: alcuni avevano volato per Air
America, la ditta della Cia, altri trasportavano oppio, la maggior parte aveva
fatto entrambe le cose”. Ora l’impresa era umanitaria. Yvette aveva organizzato
la vita per molti bambini e molte madri. Aveva trovato loro rifugi adatti.
Trovava sempre i fondi necessari a mantenerli.
Aveva avuto un’infanzia difficile, almeno così lei l’ha ricordata, à Ban
Saint-Martin, nella Moselle, dove era nata nel 1938. La madre, una ragazza
orfana dell’Assistenza pubblica, non sapeva fare nulla, il padre a suo dire la
abusava. Ai quindici anni abbandona la scuola, E quando fa vent’anni, la notte
di Natale va via di casa. A Parigi vive di espedienti – compresa, lascia
intendere, la prostituzione. Fino all’idea di suicidio. Che però le ribalta la
vita: decide al contrario di “prendere in mano” la sua propria vita. A 29 anni
emigra in Asia, un mondo che l’aveva sempre attirata. Molta Asia era stata colonia
francese, specie l’Indocina, il vasto conglomerato di Vietnam, Cambogia e Laos. Da qualche anno ora indipendenti, con una guerra lunga. S’installa
in Cambogia e avvia molteplici imprese, con qualche successo. Fino alla ditta
d’importazioni e alla flottiglia di aerei monomotore. Quando nel 1975 anche la capitale cade nelle mani dei Khmer rossi, comincia la sua
terza vita.
Dalla Thailandia organizza gli aiuti
ai rifugiati cambogiani, specialmente donne e bambini. Gira per la frontiera su
una piccola vettura, per portare cibo e medicinali ai cambogiani in fuga. Si
aggira per i campi di rifugiati, tenuti in condizioni disumane. Un impegno che
accentua quattro anni dopo, nel 1979, quando l’esercito vietnamita invade la
Cambogia, liberandola da Pol Pot. La Thailandia deporta i rifugiati in
Cambogia. Dove però non sono ben accolti, anzi sono per lo più internati, e
anche massacrati. Yvette ottiene dalla autorità thai molte tonnellate di riso per
sfamare i cambogiani ritornati in Cambogia, e ottiene dalle autorità cambogiane
la liberazione di molti profughi ora detenuti.
Nel 1985 abbandona tutto e torna in Francia. Vorrebbe cambiare di nuovo
vita, ma l’incontro occasionale con un religioso in procinto di partire per il
Guatemala le cambia di nuovo la prospettiva. La guerra civile in Guatemala ha lasciato
molti orfani e molte vedove. Yvette crea allora un’organizzazione umanitaria,
“Tomorrow”, gira la Francia per raccogliere fondi, negli Stati Uniti si associa
a Refugees International, una ong molto ben introdotta, all’Onu e con le autorità
americane (con la quale poi formerà una joint-venture),
ed entra in Guatemala. Dapprima in un villaggio, Zaculeu, che ha una popolazione
decimata dalla guerra civile, ma ben 225 orfani e una sessantina di vedove. Poi
a Managua, dove organizza un centro d’accoglienza per ragazzi, 5-17 anni – ne
raccoglie oltre cinquecento. Infine opera anche in Bolivia.
Torna in Europa come rappresentante di Refugees International, con statuto
quasi diplomatico. Opera in Mali, Niger, Bangladesh, Albania, e ancora in Cambogia.
Muore il 18 aprile 1999.
Piazzi Smyth – Lo ricorda Conan Doyle, nel “Racconto di John Smith”, la sua primissima
opera, come “teorico della «Grande Piramide»” – “The Narrative of John Smith”, p.125.
Inglesissimo astronomo, e in parte astrologo, ma di Napoli. Dove nacque in epoca
napoleonica, quando la capitale del Regno delle Due Sicilie era presidiata
dalla flotta inglese. Il padre era il capitano di vascello, poi ammiraglio, William
Henry Smith, la madre Annarella. Che non era un’amante napoletana del capitano
ma Eliza Anne, napoletanizzata in Annarella, figlia unica e bella del console
britannico a Napoli, Thomas Warington, e della di lui (prima) moglie Anne. La
quale anche ha una storia degna di nota.
Anne, la madre
di Annarella, nata nel 1747 nell’East London, la Londra popolare, da un William
Robinson, muratore, e una Jane Cook, aveva sposato nel 1769 un Lewis Bradshaw
Peirson, un italiano, nato Lodovico Repinder, figlio di un Vittorio Repinder e
di una giovane inglese, Winifred Langdale. Con Lewis-Lodovico aveva avuto due
figli. Quando lui morì, nel 1786, si risposò, a 39 anni, con Thomas Warington,
allora ventunenne. E si stabilirono a Napoli, dove la loro unica figlia,
Annarella, nacque due anni dopo.
La coppia
William Henry Smith e Annarella ebbe undici figli. Il secondo dei quali prese
il nome di Charles Piazzi – nato nel 1819, morirà nel 1900. Si vorrà Piazzi
come il suo padrino, l’astronomo Giuseppe Piazzi, il valtellinese fondatore
dell’Osservatorio astronomico di Palermo, con cui il padre, che praticava anche
l’astronomia, aveva fatto amicizia quando il re di Napoli si era rifugiato a
Palermo. La passione per l’astronomia di Charles si rafforzò quando la famiglia
rientrò in Inghilterra. Il padre William Henry Smith, il
“Mediterraneo Smith”, installò nella dimora di Bedford, nel 1825, dove si era
ritirato, in campagna, un osservatorio privato, con un telescopio da 5,9 pollici,
sul quale Piazzi Smith bambino fece le primissime esperienze. A sedici anni era
già assistente dell’astronomo Thomas Maclear al Capo di Buona Speranza, dove ebbe
la possibilità di osservare la cometa di Halley e la Grande Cometa del 1843.
Continuò a occuparsi di misure
astronomiche, ma presto i suoi interessi derivarono all’egittologia. Dove si
distinse per le ricerche archeologiche. Fece le misurazioni più accurate del suo tempo della
Grande Piramide, e ne fotografò alcuni interni, per primo, usando una lampada
al magnesio. Per i lavori in egittologia ebbe vari riconoscimenti, compreso quello
di Royal Astronomer. Ma fu presto un avvocato del “Britisth Israelism” – che la
“Britannica” definisce “la credenza nazionalista britannica, pseudoarcheologica,
pseudostorica e pseudoreligiosa che il popolo della Gran Bretagna è «geneticamene,
razzialmente, e linguisticamente il discendente diretto» delle Dieci Tribù Disperse
dell’antica Israele”.
La Grande Piramide aveva misurato dettagliatamente
nella certezza che essa fosse un deposito di profezie che si sarebbero rivelate
con le misure precise. Sostenne anche che gli Hyksos erano gli ebrei, i quali avevano
costruito la Grande Piramide sotto Melchisedec. E siccome il “pollice
piramidale” era l’unità di misura divina, si oppose all’introduzione del sistema
metrico in Gran Bretagna, con successo: per tutta la vita, fino a Fine Secolo,
scrisse saggi e libri contro il sistema metrico, un “prodotto del radicalismo
ateo”. Il “Secondo Avventò” profetizzò
nel 1882. Andato a vuoto l’appuntamento, non si arrese. Nel 1888 rassegnò le
dimissioni da Royal Astronomer, in segno di protesta contro la Royal Society of
London, l’autorità scientifica, che ne contestava le pubblicazioni. E continuò
a predire il Secondo Avvento per varie date, tra il 1892 e il 1911.
astolfo@antiit.eu
La forza del potere
Perché
Erdogan, che governa male e malissimo, s’interrogano i giornali, vince sempre le
elezioni? La correttezza delle procedure di voto non viene messa in dubbio, la
Turchia e l’islam sono larga parte del Grande Oriente, e quindi dell’opinione cosiddetta
laica: non si discutono. Ma i fatti sono: inflazione senza limiti, arresti e condanne
senza limiti, dopo avere purgato Procure, tribunali e università, anche di
oppositori miti, islamizzazione forzata di un paese che da un secolo si voleva
laico, corruzione familiare e personale, fino a un palazzo di 1.150 stanze, l’odio
di Smirne, e ora anche di Istanbul, di cui pure è stato sindaco.
È
uno che avrà delle qualità, che però non si vedono, non che se ne sappia. È un self-made man, ma alla maniera di Di
Maio, che vendeva le bottigliette nell’intervallo della partita del Napoli.
Erdogan vendeva ciambelle in strada. E gli studi ha limitato alla scuola
coranica.
E
dunque? Si sottostima, non si capisce, il potere corruttivo del potere. Che è la
forza dei regimi – le tante analisi del fascismo, anche le più recenti e
aggiornate, della sua durata, non la considerano, mentre è sotto gli occhi di
tutti. In piccolo – ma quanto piccolo? - si vede anche nella storia della Repubblica,
dove il vecchio potere degli “amici”, di sacrestia, dura imperituro, sotto tutte
le forme istituzionali e politiche, magari chiamandosi Pd, o Forza Italia, e
ora Fratelli d’Italia. In Turchia, ecco, ha la stessa faccia, è questa la
grande differenza – la giustizia, per esempio, è “politica” anche in Italia.
Inno sommesso alla vita – alla famiglia
Un
film forte, sugli affetti genitoriali, familiari. Costruito su un fatto avvenuto
in Sicilia. Dove a una madre insorge accidentalmente il sospetto che l’ultima
sua figlia, ora di sei anni, cucciola amatissima, soprattutto dal padre, nata una
notte di Capodanno, sia stata scambiata nella nursery. Un barlume, una ipotesi come
un’altra, che diventa un’ossessione. Ma viene confermata dalle analisi, del
sangue prima e poi del dna. L’altra coppia viene coinvolta, restia a dare corso
a questa che è diventata una mania. Le due bambine alle elementari intanto sono
diventate inseparabili.
Il
film segue lo svolgimento della vicenda, negli aspetti giuridici e affettivi,
psicologici, diversi e anzi conflittuali nelle due madri. Fino alla conclusione,
che pare sia stata positiva: di costituire una sorta di famigilia allargata,
dove c’è posto per tutti gli affetti, anche per le - e delle -
figlie-non-più-figlie.
Un
caso pirandelliano, del figlio sbagliato. Che si sarebbe potuto prestare alla
delegittimazione della famiglia, nel quadro dei “diritti” o del no gender - che senso ha la
“genitorialità” (la maternità, la paternità?). E forse in questa ottica è stato
programmato. Ma Porporati lo svolge in dolcezza. Con le bambine, che non è
difficile, ma anche con i genitori, soprattutto i padri, e col Tribunale dei
minori, qui specialmente saggio e prudente, trovandosi di fronte a un caso “salomonico”.
Anche le figure marginali, l’avvocato, i nonni, i compagni di lavoro, defibrillano, partecipi e
insieme saggi.
Le
tensioni si sciolgono quando l’altra madre, che aveva difficoltà a procreare,
rimane di nuovo incinta. Un inno sommesso alla vita.
Andrea
Porporati, Sorelle per sempre, Rai
1, Raiplay
domenica 28 maggio 2023
Ombre - 669
Si
chiamano “politiche industriali” ma sono protezionismo. Non c’è il decoupling, non dichiarato, dalla Cina o
dall’India, ma è come se. Mancano i dazi ma il resto c’è tutto, spiega il
bollettino dell’Fmi: sussidi pubblici sottoforma di politiche industriali e
contributi (alla ricerca, all’innovazione, alla transizione verde), restrizioni
alle importazioni per motivi di sicurezza nazionale e protezione ambientale,
controlli alle esportazioni per favorire i consumi domestici, embarghi
geopolitici.
Il
problema – non detto – è: questo lo dobbiamo a Putin oppure a Biden?
Milano discute se su una piazza creare un museo
della Resistenza. Ma eliminando il grande glicine ch da mezzo secolo la adorna.
Discutono l’Anpi, l’associazione dei partigiani, con comitati di quartiere.
Tutti di sinistra e di più sinistra. Bello, segno di abbondanza, ricchezza, prosperità.
Ma non c’è la guerra, l’inflazione, l’alluvione, non ci sono i lutti da covid?
Si
candida l’Italia, la Sardegna, nel comprensorio poco antropizzato
Bitti-Lula-Onnai,per l’Einstein Telescope, un avveniristico progetto europeo
per la ricerca sulle onde gravitazionali, con ricadute tecnologiche e
scientifiche attese di gran peso, con un investimento da 1,6 miliari e molte
migliaia di occupati qualificati, per il quale, in concorrenza con l’Olanda, il
governo schiera un comitato presieduto dal Nobel Parisi. Ma subito la Confindustria
si lamenta. Di che? Non ci sono abbastanza “ricadute” – sussidi alle imprese.
Annunziata
sbatte la porta alla Rai in prima pagina: “Non resto a fare il prigioniero
politico”, di Meloni. Ma non ne fu la presidente vent’anni fa, per un governo
Berlusconi?
Berlusconi
era un fedele di De Mita vent’anni prima, che non mancava di omaggiare quando
veniva a Roma.
Curiosa
logica di Mario Monti sul “Corriere della sera” a proposito del Mes, il
Meccanismo europeo di stabilità, o fondo salva-Stati (e banche). Della mancata
ratifica parlamentare del Mes. Ma il Parlamento non si è pronunciato, sette
mesi fa, con un no alla ratifica a meno di alcune modifiche?
Il
no e il sì al Mes è parte della ginnastica politica. Curiosa è la logica del
professore ex presidente del consiglio ora senatore, in quanto vuole che sia il
governo a ratificare il Mes? E come, per decreto? Le ratifiche sono
parlamentari. Non solo, poi vuole che il Mes, una volta ratificato, non possa
essere utilizzato senza un voto parlamentare. Si celebra tanto la costituzione,
ma c’è una logica nelle leggi.
Dunque,
il petrolio russo sanzionato si vende, raffinato, negli Stati Uniti, passando per
la Sicilia. Dove la raffineria, già di proprietà russa, è ora di diritto
cipriota, ma con qualche consigliere della
vecchia proprietà russa.
Non
è tutto. Prima della guerra la raffineria Lukoil di Priolo si riforniva da paesi
diversi, dalla Russia – dalla Russia per meno di un terzo, il 30 per cento.
Dopo si è rifornita per un anno solo dalla Russia. E niente da fare: la nazionalità
dei prodotti petroliferi è quella del luogo di raffinazione.
Non
solo gli Stati Uniti, anche l’Europa continua a rifornirsi di greggio e
prodotti petroliferi russi. Solo che li acquista via India. Cioè pagando una
percentuale in più. Le sanzioni colpiscono i paesi sanzionatori, accrescendo i
costi, direttamente o per lo scardinamento delle filiere tradizionali.
Insistono
i tg, specie Buonamici, che pure è fiorentina, a dire “le dimissioni” di Berlusconi
dal San Raffaele – la sentisse Berlusconi, che invece non molla…. Si vede che
ormai nell’informazione veloce non si capisce più niente.
Schlein
non parla, e nemmeno si fa vedere. È una strategia politica: stile sobrio, discrezione,
niente invasione di campo – l’Emilia-Romagna è di Bonaccini? Ma su “Vogue” e
della armocromia non si è schermita. Grillo ha infettato tutta la politica, a
sinistra.
Non manca nemmeno questo anno la pantomima americana al tetto al debito, al nuovo indebitamento. Che ogni anno viene superato, per un motivo o per un altro, alla fine sempre legittimamente. E quindi? La legge sul tetto al nuovo debito è utile tenerla, ma come segnale stradale di rischio, non tassativo. La pantomima nasconde il fatto che gli Stati Uniti hanno un debito trilionario - prosperano a debito, senza oneri, essendo i fornitori dei dei dollari.
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Magie del tradurre
Dense
- anche troppo: lampi, illuminazioni – note sul tradurre. Una serie di
conversazioni alla radio della Svizzera Italiana sull’arte del tradurre,
Kipling e Tolkien. E sul primo abbordaggio professionale, da traduttore, dopo
una vita di letture appassionate, di Céline, per il postumo “Guerra” che ora si
pubblica.
La
riflessione di un maestro del tradurre – traduttore anche di Beckett e Nabokov,
“scrittori in due lingue, scrittori che si traducevano, traducevano se stessi”.
Con un ricordo-elogio di Lafcadio Hearn (“voglio essere un Colombo letterario”),
che a fine Ottocento-primo Novecento, in tempi di “cineserie”, rese fruibili in
inglese testi classici e popolari del Giappone – finendo per essere “ritradotto
in giapponese poco tempo dopo”. Un caso unico. Che invece di sminuire gli
originali li ha ravvivati.
Con
una notevole rilettura del dimenticato Kipling di Mowgli e di Kim. Di Mowgli e
Kim come Kipling. Orfano Kim sperduto nel “Grande Gioco” – ora sono solo… tutto
solo”. Orfano con due madri Mowgli come Kipling tra India e Inghilterra – ma
anche Kim è “uno scugnizzo in bilico tra indiani e ingelsi”.
Di
Celine è presto detto: l’incantesimo del linguaggio. Attrazione fatale per un
futuro traduttore. Che in effetti ha portato Fatica alle prime traduzioni, agli
albori di Adelphi. La prima proposta di traduzione dei “Ballets sans musique,
sans personne, sans rien”, e poi, nel 1975, la traduzione del “Dottor Semmelweiss”,
l’unica opera allora non impegnata da altri editori.
Il
“segreto” di Céline è personale, ma comune: “Non appena mi mettevo a leggerlo”,
ricorda ora Fatica di sessant’anni fa, qualcuno o qualcosa “attaccava parlare
dentro di me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi” – Céline “parlava
attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho
il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”.
Ottavio
Fatica, Lost in translation,
Adelphi, pp. 62 € 5
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