sabato 17 giugno 2023

Il mondo com'è (463)

astolfo


Dora Sophie Kellner
- Giornalista, traduttrice, scrittrice austriaca, già moglie un Max Pollak, un compagno di università, col quale era emigrata da Vienna a Berlino, qui s’innamorò subito di Walter Benjamin, che sposò, dopo un divorzio lampo dal primo marito. Il matrimonio con Benjamin durerà a lungo, dal 1917 al 1930, arricchito dalla nascita nel 1918 di un figlio, Stefan Rafael. Ma già nel 1929 era finito, Benjamin si fidanzava con Asia Lacjs, l’attrice e regista lettone fiera comunista conosciuta a Mosca nel 1924. Il divorzio fu lungo, essendoci di mezzo un figlio, ma senza acrimonie.
Alla presa del potere di Hitler nel 1933 Dora emigrò col proprio nome in Italia, a Sanremo. Dove lavorò dapprima come cuoca all’hotel Miramare. Per poi rilevare Villa Emily, o Villa Verde, che gestì in proprio come pensione – la vecchia residenza di Edward Lear, l’illustratore londinese più noto come scrittore, di viaggi (in Calabria) e di limerick. Con l’avvento di Hitler Benjamin aveva riallacciato i rapporti con l’ex moglie Dora: tra novembre 1934 e gennaio 1938 soggiornò a Sanremo, a Villa Verde (dove nel 1935 anche il loro figlio Stefan si era trasferito) almeno cinque volte, anche per lunghi periodi – nell’inverno 1934-25 per cinque mesi. Intervallati da soggiorni a Ibiza, ospite di Jean Selz, nelle estati del 1934 e del 1936 a Skovbostrand, ospite di Bertolt Brecht, e spesso in Francia, soprattutto a Parigi, dove era rifugiata la sorella Dora, e dove poteva frequentare la Bibliothèque Nationale. A Villa Verde Benjamin scrisse due capitoli di “Infanzia berlinese intorno al Millenovecento”, e parti dei “«Passages» di Parigi” e dei lavori su Kafka.
La pensione di Dora ebbe grande successo, divenendo il punto d’incontro di artisti e intellettuali di area tedesca. Tra essi il poeta austriaco Richard Beer-Hoffmann, il pittore viennese Josef  Floch, e il medico e scrittore Oskar Levy, appassionato di Nietzsche, di cui curava la traduzione in inglese. A  Capodanno 1937-1938 furono ospiti Theodor W.Adorno e la moglie Gretel, in compagnia di Benjamin, con il quale Adorno discusse le sue analisi di Wagner. Adorno, in certo senso allievo di Benjamin, lo aveva introdotto sei anni prima all’Institut für Sozialforschung di Francoforte, animato da Max Horkheimer, poi emigrato in America, che pagava a Benjamin esilio un modesto sussidio mensile di 500 franchi francesi, per viaggi, libri e trasloco della biblioteca.   
Nel 1938, dopo le leggi razziali di Mussolini, Dora lasciò Sanremo con Stefan per Londra, dove vivrà fino alla fine, nel 1964, di settant’anni. Continuò a corrispondere con l’ex marito fino al dicembre 1939, all’internamento di Benjamin in Francia. A Londra fece un falso matrimonio, per avere la residenza, con un Harry Morser - un suo compagno di gioventù a Vienna, Heinrich Mörzer - che aveva preso la cittadinanza sudafricana. E ne mantenne il nome anche dopo la divisione nel 1945.
  Con un nuovo compagno, Franck Shaw, ingegnere, aveva intanto ripreso la gestione di alberghi.
Il figlio Stefan, che dopo la guerra sarà uno specialista di Romanistica, nel 1939, in quanto figlio di un tedesco, fu deportato in un campo di concentramento in Australia, Camp Hay.

Dora (Deborah) a Berlino era giornalista, scrittrice, traduttrice abbastanza nota. In una sorta di divisione del lavoro con Benjamin, appassionato di scrittori francesi e russi, lei traduceva dall’inglese. Di genitori ebrei, era figlia di una traduttrice, Anna Kellner, e di un anglista, sionista (amico personale di Theodor Herzl), Leon Kellner, Fino ai 14 anni era stata educata in casa dai genitori. Andò la prima volta a scuola a 15 anni, a Czernowitz, dove il padre aveva avuto un incarico al liceo.
Non bella, era apprezzata per la vivacità e lo spirito. All’università aveva frequentato Chimica e Filosofia. Aveva sposato Pollak, di ricca famiglia industriale, a 22 anni. A 26 era innamorata di Benjamin, che sposerà un anno dopo. A Berlino lavorò come corrispondente dell’agenzia United Telegraph, traduttrice dall’inglese, di Virginia Woolf, “Orlando”, Walpole, Galsworthy, Michael Gold (“Ebrei senza denaro”), giornalista di cronache letterarie e artistiche, intrattenitrice alla radio, di una certa fama per il personaggio della casalinga svampita, sui toni del femminismo, autrice di due romanzi-feuilletons, pubblicati cioè a puntate, “Gas gegen Gas” (su “Südwestdeutsche Rundfunkzeitung”, e col titolo “Das Mädchen von Lagosta” su “Innsbrucker Nachrichten” e “Grazer Tagblatt”), e “Béchamel Bettina” (su “Die Dame”).
Una duplice biografia, di lei con Walter Benjamin, è stata pubblicata nel 2020: Eva Weissweiler, “Das Echo deiner Frage. Dora und Walter Benjamin. Biographie einer Beziehung”, biografia di una relazione.
 
Neauphle-le-Chateau
– Ripudia Khomeiny il paese di 3 mila abitanti delle Yvelines, il dipartimento della regione dell’Île de France, limitrofo a Parigi, in pratica un quartiere suburbano di Parigi, già famoso fra gli appassionati come residenza di Marguerite Duras dal 1958, in una grande casa all’entrata del villaggio (“vivevo sola a Neauphle”, dove “conoscevo tutto il paese” - “ho vissuto sola con l’alcol estati intere a Neauphle”), comprata con i diritti cinematografici di “Una diga contro il Pacifico”, venuto alle cronache tra ottobre 1978 e gennaio 1979 perché scelto dai servizi segreti francesi di Giscard d’Estaing come vetrina per  promuovere l’ayatollah contro lo scià di Persia. Quattro mesi soltanto ma bastanti per destabilizzare l’Iran: l’1 febbraio l’ayatollah poteva sbarcare in trionfo a Teheran, su un aereo Air France degli stessi servizi francesi. Da allora Neauphle ha prosperato come meta di pellegrinaggio degli iraniani khomeinysti.
Lo stesso villaggio se ne faceva motivo di orgoglio. La villetta a due piani nella quale l’ayatollah era stato ospitato i proprietari è stata demolita. Ma una grande targa ricordava dal 2017 con una lunga iscrizione quella esperienza storica, un pannello protetto da una lastra di vetro. Neauphle-le-Château è “un nome impresso per sempre nella storia delle relazioni franco-iraniane”, si leggeva nella targa, come didascalia all’immagine dell’ayatollah: “Il popolo iraniano si ricorderà sempre dell’ospitalità del popolo francese e dell’accoglienza che è stata riservata all’ayatollah Khomeiny”. Al nome del villaggio è stata intitolata a Teheran la strada dove sorge l’ambasciata iraniana. Ora la targa è stata abbattuta, da non si sa chi, di notte, e sia il Comune che la cittadinanza non la rivogliono.
La ripulsa è stata generata ufficialmente dalle prolungate proteste in Iran contro il velo imposto alle donne, e le tante morti successive all’assassinio il 22 settembre, per non essere velata “appropriatamente”, della ventiduenne  Mahsa Amini. Non era il primo assassinio da parte delle polizie iraniane di ragazze non velate, tra 400 e 500 ne sono stati contati, ma quello di Mahsa Amini ha acceso una lunga ondata di proteste in tutto l’Iran, e a Neauphle il rifiuto è subentrato alla memoria storica. In un primo momento la municipalità aveva provato una soluzione intermedia,  annunciando che la targa sarebbe stata “velata”. In attesa che la protesta in Iran rientrasse. Oppure che il proprietario, tuttora protetto da anonimato,  del terreno dove sorgeva la targa, un’area incolta, a maggese, ma molto visibile dalla strada, decidesse di rimuoverla. Poi la targa si è trovata frantumata per terra, e ora il velo copre il muro nudo.
Khomeiny ha proclamato l’11 febbraio la festa nazionale, il giorno della “rinascita dell’Iran”. Neauphle conta – contava – numerosi visitatori iraniani, o sciiti di obbedienza iraniana. Ai primi di febbraio ogni anno, da quarant’anni, una fila di sostenitori del khomeinismo, organizzati da associazioni di obbedienza sciita tra gli iraniani, i libanesi e gli algerini emigrati in Francia, col sostegno organizzativo ed economico dell’ambasciata iraniana a Parigi, si ritrovavano a Neauphle per commemorare commossi Khomeiny – sul motivo: “È qui, a 5 mila chilometri da Teheran, che è nata la Repubblica islamica”. Si progettava anche un museo.

Khomeiny era un oscuro esiliato in Iraq da una dozzina d’anni senza alcun seguito nel suo paese. Fu imposto dai servizi francesi con una scenografia semplice e oculata. Semplice era la residenza scelta a Neauphle: una villetta monofamiliare a due piani, con un balcone al primo: Semplice la procedura: l’ayatollah si affacciava ogni giorno al balcone, per un pubblico ristretto scelto, e pronunciava un sermone, che era già stato registrato e riprodotto in cassetta in milioni di copie, distribuite ad horas in Iran. Con brevi immagini televisive, diffuse attraverso Tf 1 sui tg occidentali e arabi. 
Khomeiny parlava davanti a una folla modesta. Per lo più di giornalisti. Tutti fatti confluire dopo un
triage meticoloso, anche corporale. Con l’abituale grossolanità verbale e spicciatezza delle gendarmerie francesi, che non guardano mai negli occhi. La condanna dello scià era stata  sanzionata a inizio gennaio da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania Ovest. Su iniziativa francese, del presidente Giscard d’Estaing, esponente autorevole della Francia laica.
Le sporadiche ricorrenti mobilitazioni popolari in Iran s’intensificarono con gli audiomessaggi dell’ayatollah Khomeiny. All’inizio del 1989 Giscard d’Estaing organizzò alla Guadalupe, dal 4 al 7 gennaio, un vertice a quattro, col presidente americano Carter, il cancelliere tedesco Schmidt e il primo ministro britannico Callaghan. I quattro diffusero immagini di grande self-assurance e contentezza, avendo deciso che la cosa migliore era “consigliare” allo scià l’abbandono dell’Iran. Un revirement improvviso, di cui non è stata data la ragione, anche se ha portato il mondo islamico e l’Occidente a tristi passi. Di cui i quattro si mostrarono tutti d’accordo. Solo pochi mesi prima, il 15 ottobre 1977, Carter e la moglie Rosalynn avevano intrattenuto per due giorni a Washington lo scià e la moglie Farah Diba, tra feste, giochi, grandi risate e grandi pranzi – lo scià per la prima volta si era visto ridere. Un mese dopo Carter aveva fatto tappa a Teheran, in un giro delle capitali amiche, insieme con Rosalynn, e aveva dichiarato lo scià “un’isola di stabilità”. 

Patto Ribbentrop-Molotov
– Il partito Comunista francese fu per quasi due anni di guerra, dopo il patto Hitler-Stalin, o Ribbentrop-Molotov, filo-tedesco, filo-Hitler. Il patto, firmato il 23 agosto 1939, una settimana prima dell’invasione tedesca della Polonia, e dell’entrata in guerra contro la Germania della Francia e della Gran Bretagna, disorientò il partito Comunista francese, pur essendone la Francia la prima vittima, dopo la Polonia. Era un partito forte, e politicamente navigato: era stato al potere di recente, nei due anni aprile 1936-aprile 1938, a sostegno del governo radical-socialista del Fronte Popolare. Ma il 3 settembre 1939 condannò la “guerra imperialista”, che Francia e Gran Bretagna dichiaravano a Hitler. E dopo l’invasione della Francia, dopo la drôle de guerre, la “buffa guerra” che la Francia perdette in poche settimane, fece propaganda per fraternizzare con le truppe tedesche di occupazione. Fece anche petizione al comando tedesco per la ripresa delle pubblicazione del giornale di partito. “L’Humanité”. E quando l’autorizzazione fu negata, ne fece colpa al suo proprio negoziatore, Maurice Tréand, il responsabile della Sezione Quadri del partito (Tréand, sentendosi sospettato, s’industriò di evitare la “liquidazione” ritirandosi a vita privata, lontano da Parigi, in un piccolo agglomerato di provincia).
Ma già durante il tentativo francese di resistere all’invasione tedesca il partito Comunista francese aveva agito contro la Francia.  Gli studenti della federazione giovanile organizzarono a Parigi plurime e ampie manifestazioni contro la Francia in guerra. Giovani operai sabotavano nelle fabbriche la produzione di guerra – la cosa è nota perché alcuni giovani operai furono fucilati per atti di sabotaggio. Ancora a fine maggio 1941, cioè alla vigilia dell’attacco tedesco all’Unione Sovietica, i minatori del bacino carbonifero del Pas-de-Calais che osarono scioperare per dieci giorni, tra fine maggio e primi di giugno del 1941, furono lasciati soli dal Pcf: lo sciopero fu enorme, di almeno 120 mila minatori, ma si poté concludere, senza resistenze, con deportazioni in massa (molti minatori, forse il maggior numero fra gli scioperanti, erano polacchi), incarcerazioni (con suicidi) e alcune esecuzioni, a opera delle truppe tedesche e della polizia di Vichy, il regime creato in Francia dalla Germania.

astolfo@antiit.eu

Aida, una storia di amore, pacifista

Niente kitsch , flabelli, baldacchini, negretti, eserciti, cavalli, per l’ Aida” a Verona, alla celebrazione del centenario dell’Arena – dell’apertura dell’Arena alla lirica, per la giusta intuizione del tenore veronese Giovanni Zenatello nel lontano 1913, quando di persona constatava l’acustica dell’anfiteatro. Una rappresentazione sempre kolossal, con un’orchestra di 160 elementi, altrettanti coristi, e masse di oltre duecento figuranti, tra ballerini e comparse. Tutti con  lusso di costumi, ma in un’atmosfera quasi intimista: Stefano Coda, il regista, che è anche scenografo, costumista e coreografo della rappresentazione, fa scoprire la vera essenza dell’opera, che è una storia d’amore – a cominciare dalla celeberrima “Celeste Aida” d’apertura.
Il sottile tema dell’opera è dell’amore non riamato, di Amneris in mezzo a Radames e Aida. Che s’intreccia coi destini di due re, di due popoli. Un plot perfetto, inventato dall’egittologo francese Augste Mariette (Antonio Ghislanzoni. che figura autore del libretto, è solo un adattatore) per il khedivé d’Egitto, che voleva una degna celebrazione del canale di Suez – lo stesso Mariette che tanto si adoperò per convincere all’opera un Verdi recalcitrante, approntandogli anche la possibilità di provare a Parigi invece che al Cairo.
Coda ha potuto giovarsi della sonorità naturale dei protagonisti, Netrebko, Eyvazov e Olesya Petrova, tanto gli è bastato per sedurre e commuovere. La guerra lasciando sullo sfondo, da pacifista, critico. La battaglia ha inscenato stilizzata, con balletti capolavoro, di coreografie quasi indistinte, di movimenti naturali, senza clangori né crudeltà. Questa limitando alla gigantesca mano che funge da sfondo, unico riferimento battagliero e crudele, rinviando al deposito di mani mozzate dagli Hyksos ritrovato ad Avaria (Tell el-Daba). Un monito  più che una vicenda.   
Stefano Coda,
Aida di Verdi, Arena di Verona

venerdì 16 giugno 2023

Problemi di base berlusconiani - 751

spock


Morto Berlusconi, si riforma la giustizia
 
Si disintasano i tribunali, la Cassazione può andare in vacanza ad agosto, le Camere pure?
 
Ci saranno ora giudici in soprannumero?
 
Anche giornalisti - speriamo di no, che Berlusconi risusciti, chi paga la pensione?
 
E Guardie di Finanza - le avremo finalmente libere di dare la caccia agli evasori?
 
È la liberazione, o era meglio prima, ci evitava il dovere di fare politica?
 
Con Schlein a capo del Pd, avremo più processi contro Meloni&co o meno processi – i Procuratori dovranno finalmente lavorare?

spock@antiit.eu


In campo di concentramento con brio

“Il campo lavora, mangia, beve, ama e odia, legge libri, ascolta la radio. Gente muore, bambini nascono. Uomini e donne si innamorano, fanno piani per il futuro, oppure si dividono. Si danno concerti, si cucinano dolci, si tengono conferenze, si imparano le lingue, si progetta un teatro. Qui, come ovunque nel mondo, ci sono persone che scrivono poesie, dipingono quadri. Poiché il futuro è del tutto vago, e non solo, anche spaventoso, si vive nel presente  meglio che si può, il meglio possibile”. Si fanno commerci, c’è chi apre un caffè, anche se il caffè è di cicoria, chi un ristorante, anche se il cibo latita, chi fa sartoria. Con quattro squadre di calcio, la polacca, la tedesca, la jugoslava, e “quelli di Rodi”, cechi sionisti naufragati a Rodi e cofinati a Ferramonti. E il “club inglese del caffè Kitty”. Si ruba anche, qualcuno è un ladro specializzato.
“Mille giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” è il sottotitolo. Ma non sembra, è un campo sui generis. Il “caffè jugoslavo” è pieno di tutto, anche vero caffè, e sigarette inglesi. Dapprima con le candele, poi con la luce elettrica. Si ascolta radio Londra, arriva il “Basler Nachrichten”. “Un’isola fuori dal mondo… tutto insensato”. Si può andare in gita, con la corriera, fino a Cosenza. Si può chiedere il trasferimento: bene accetto all’autorità è quello al confino singolo, in un paese isolato, che però non è popolare nel campo (la punizione più temuta è il “campo di concentramento femminile”).
Burocrazia al minimo, nessuna animosità. Ci sono due sinagoghe. Il direttore, Paolo Salvatore, organizza feste da ballo, con pasticcini e orchestrina. Come se non ci fossero state le leggi razziali. Comitati Ebraici sono sempre attivi, a Roma, Genova, Milano, che per le feste mandano pacchi dono, che vengono recapitati. Il campo raccoglie ebrei originari di Germania, Polonia, Austria, Russia, Cecoslovacchia, Ungheria, anche della Turchia non invasa dai tedeschi, rifugiati in Italia malgrado le leggi razziali del 1938, colti impreparati dall’entrata in guerra. Nina scrive: il diario, racconti, scenette. E li “pubblica” anche, in tutta libertà. Si organizzano premi letterari, Nina vince un secondo premio, sessanta lire. Alla partenza per Ferramonti, dopo dieci giorni di San Vittore, alla stazione Centrale di Milano “amici e conoscenti”, che già erano andati a trovarla in carcere, sono venuti a congedarsi con pacchi e pacchetti. Il campo calabrese è uno dei 42 aperti in Italia, ma tutto sembrerà meno che un campo di concentramento.

Un racconto dal vivo, in presa diretta, l’autrice ventenne vi fu internata, di Ferramonti, in Calabria, vicino Cosenza, nel comune di Tarsia, uno dei campi di internamento per stranieri allogeni, cioè cittadini di paesi con cui l’Italia era in guerra o considerava ostili, creati nel 1940. Molti però vi furono internati solo per essere ebrei – molti erano infatti allogeni di paesi dell’Unione Sovietica, che all’epoca era alleata dell’Asse. Ci sono anche comunisti jugoslavi, comunisti greci. E cinesi, “incredibilmente eleganti e abili”. Tre anni “di giorni vuoti. E pieni”.
La morte arriva con la liberazione, con i bombardamenti, e i mitragliamenti insistiti, degli Alleati. Il campo si svuota dopo l’11 settembre (il primo bombarda mento) e poi si riemie, senza coercizione Con l’aiuto anche dei soldati italiani sbandati. Con la liberazione, “gli affari delle cortigiane del campo andarono magnificamente, era un momento molto favorevole” – c’era un bordello nel campo, tennuto da un’ebrea ungherese, la signora Parkowski.
Ferramonti fu un luogo di deportazione (confino) costruito appositamente, con decine di baracche ordinate in fila. Ma fu un luogo speciale anche per le condizioni di vita. Diretto da un prefetto, Paolo Salvatore, un ex ardito di D’Annunzio a Fiume, esperto di prigioni-confino a Ventotene e a Ponza. Guardato da carabinieri e militi, pochi e non intromissivi. Al comando del maresciallo Gaetano Marrari, che interveniva solo per evitare danni ai confinati. C’era il filo spinato attorno al campo, ma si poteva oltrepassare senza problemi. La vita scorreva normale a Ferramonti malgrado l’isolamento, e le ristrettezze.
La posta arrivava, e veniva spedita. Il cibo veniva distribuito regolarmente. I confinati ricevevano il soldo, come i militari: la “decade”, sessantacinque lire – che nel tempo fu anche aumentata, a ottanta lire. Se sposati, e molti si sposavano per questo, potevano avera una casa per sposati, una stanza privata invece della camerata a venti o trenta. Un campo di baracche, faticoso come può essere una comunità ristretta, un villaggio, per gente urbanizzata, ma incredibilmente vispo per quegli anni di guerra, pulito quanto possibile – quando Nina, che prima dell’internamento viveva a Milano, lavorando come modella per pittori famosi, Albertosi e Carminati, mentre leggeva e scriveva, si avventura  per curiosità fino a Tarsia, ne ritorna tramortita, dall’indigenza.
Un racconto vivace, e diverso. Incomprensibilmente isolato e quasi trascurato. Non c’è racconto di vita di internati ebrei durane la guerra, testimonianza, ricordo, che non sia accettato e letto. Di questo, che pure è di grande lettura, è stata trascurata la traduzione e poi la diffusione. Nina Weksler, autrice di molte narrazioni, l’ha ottenuta in tarda età, quando col marito hanno deciso di passare gli ultimi anni in agro di Cosenza, da un editore locale – quasi una memoria a Cosenza. L’edizione è peraltro curata e ben presentata. Molte fotografie documentano il racconto.
Nina Weksler,
Con la gente di Ferramonti, Editoriale Progetto, pp. 248, ill. € 15 

giovedì 15 giugno 2023

Le trame non tanto oscure di Mani Pulite

Paolo Mieli finalmente dopo trent’anni dice la verità sull’atto di accusa a Berlusconi a dicembre del 1994, poi rivelatosi insussistente, da lui anticipato a tutta pagina sul “Corriere della sera” per mettere Berlusconi in difficoltà all’assise internazionale Onu sulla giustizia che la mattina della pubblicazione doveva inaugurare a Napoli. Da Mentana nella maratona Berlusconi lunedì notte dice: “L’avviso mi fu recapitato alle 2 del pomeriggio e quindi non poteva venire che dalla Procura di Milano”. Non dice tutta la verità, come si vedrà. Però dice cioè che il suo giornale, il “Corriere della sera”, e la Procura di Borrelli e Di Pietro erano non solo in sintonia (“Anche io vivevo nella retorica di Mani Pulite” è l’esordio della testimonianza), ma collaboravano. Sembra assurdo, ma lo dice: il giornale dava una mano agli sbirri.
E lo conferma subito dopo. Dice infatti Mieli anche che nessuno dei giudici che, a Brescia e a Milano, indagarono sulla “fuga di notizie” lo contattò mai: “Non mi chiamarono i giudici di Brescia. E nessuno di quelli del pool Mani pulite, con cui avevamo rapporti, mi avvicinò per chiedermi di capire come era andata, per sapere se era stato un loro collega, visto che se veniva dal palazzo di Giustizia qualcuno doveva essere stato”.
“Con cui avevamo rapporti”, cioè, di confidenza. Altro che democrazia e informazione corretta.
Ma non è tutto: Mieli ancora non dice come l’“avviso di garanzia” a Berlusconi gli è stato mandato in copia. Fa un po’ d’ammuìna con la Procura: “Ci fu una cosa che mi diede molto fastidio. Misero in giro la voce che a darci la notizia fosse stato Berlusconi perché in quell’atto mancava una cosa... Questo mi fece andare su tutte le furie, perché io sapevo come era andata. Non lo dirò qui fino in fondo, ma solo che avevo saputo di quell’atto e conosciuto i suoi termini alle due di pomeriggio. Quindi l’unico posto da cui poteva essermi arrivato era il palazzo di Giustizia di Milano”.
“Non lo dirò qui fino in fondo”. E dove allora?
Mieli ha paura (che ricatti qualcuno è da escludere, almeno questo)? Ma Borrelli è morto, anonimo, solo. E Di Pietro si gode le provvisionali delle 250 cause che i suoi mille giudici gli hanno fatto vincere per diffamazione – se le gode anche lui isolato e anonimo, essendo uscito dalla politica per indegnità.  

Cronache dell’altro mondo – diplomatiche (235)

“Luigi R. Einaudi, nipote del presidente Luigi, ha lavorato nel Dipartimento di Stato americano con leader democratici e repubblicani. Tre cose, dice, mancano all’approccio internazionale degli Stati Uniti: «Capacità di stare a sentire gli altri, rispetto della sovranità, capire che la democrazia si costruisce dentro i paesi ma anche tra di loro»”. Intervista con Viviana Mazza, su “La Lettura”.
Luigi R. è figlio di Mario Einaudi, che nel 1936 scese di andare a insegnare in un’università inglese. La famiglia emigrata in America nel dopoguerra, il giovane Luigi scelse di fare il servizio militare negli Stati Uniti, divenendone automaticamente cittadino. Luigi sta per il nonno Einaudi, R. per Roberto, il nonno materno, Roberto Michels, il sociologo tedesco-italiano infatuato invece del fascismo.  
“Ci siamo tirati indietro dalla ratifica di trattati internazionali”, dice ancora l’ex diplomatico Einaudi. E: “Diciamo di volere un ordine basato sullo stato di diritto, ma vogliamo un sistema con regole nostre anziché negoziate con gli altri. Crediamo in noi stessi e nella nostra forza e dimentichiamo quella altrui”.
“In America c’è una tradizione di violenza preventiva”, dice ancora.

Giallo filosofico

L’ateista di Brooklyn sghignazza freddo sulla fifosofia – e sulla stupidità. Joaquin Phoenix con un po’ di pancetta è un professore di filosofia conteso dalle università, e dalle donne dei campus, dirigenti, mogli, studentesse. Ma, non sa perché, è un po’ depresso e un po’ attaccato alla fiaschetta del whisky, e disprezza la filosofia che insegna. Al primo giorno le “stronzate” morali di Kant, del “pricnipio di veridicità” - bisogna sempre dire la verità, a qualsiasi costo: “Arriva la Gestapo, toc toc, scusi signore, che ha visto Anna Frank e la sua famiglia? Sì, sono in soffitta”. Al secondo le angosce di Kierkegaard. E per questo è adorato dagli studenti. Dalle studentesse, e da qualche moglie di professore al campus.
Tutto normale, tutto scontato, da sit-comedy da università Americana. Finché il professore non ritrova energia e voglia di vivere quando decide di eliminare “un parassita” - un giudice che potrebbe fare del male a una donna di cui ha infraudito l’allarme al caffè. Un uomo nemmeno corrotto, o cattivo, solo ordinario, prevedibile, tanto che ucciderlo è perfino semplice.
Un giallo filosofico. Con un finale brusco, che però lo rende incogruente: muore uno dei due natrratori della storia – e quindi come fa a raccontarla? W.Allen regista, sceneggiatore e produttore, ne ha probabilmente ne ha abbastanza di queste altre “stronzate” filosofiche, se si può fare il male a fin di bene, etc.
Un film svelto, da pezzo teatrale – solo dialogato. Un ultimo guizzo del Woody Allen serio, anche se nichilista. Che fa i conti con la filosofia anche nella sua parte più anarchica, dell’“atto gratuito”, del “delitto perfetto”, della “liberazione”.
W. Allen è un comico riflessivo, molto, sul linguaggio e sull’esistenza. Il suo primissimo amtrimonio, prima del riconoscimento e del successo, fu con una studentessa-studiosa di filosofia. Qui si muove sulla traccia tentata negli ultimi anni 1970, con “Annie Hall”, “Interiors”, “Manhattan”, seria anche se non filosofica. Ripresa nel 1997 con “Harry a pezzi”.
Un film del 2015, di prima del #metoo, che poi ha ostracizzato Woody Allen, ma considerato all’uscita atipico e passato sotto silenzio, che invece si mantiene vivo. Di situazioni e dialoghi da gag, anche se non divertenti.
Woody Allen, Innatural Man, Sky Cinema

mercoledì 14 giugno 2023

Berlusconeide – in memoriam 34

Il circolo Arci di Arcore annuncia per oggi il “Di-Party-To”, una festa tra #metoo e dipartito. In effetti l’odio c’è. La Questura che non ha voluto la camera ardente pubblica, e il funerale con pubblico controllato, non si sarà inventato tutto.
 
“C’è sempre un cadavere ingombrante nella storia d’Italia, da Mussolini a Craxi e, come abbiamo visto in questi giorni, anche Berlinguer. Berlusconi era un sopravvissuto che la morte ci ha restituito vivo. Ha spaccato l’Italia in due metà e le ha cambiate tutte”. Per essere capofila dell’anti-belusconismo “la Repubblica” non poteva rendergli omaggio più elevato – anche se lo confida a Francesco Merlo, fra le lettere.
 
“Ho sempre considerato suicida la scelta della sinistra di attaccarlo sul fronte giudiziario anziché su quello  politico”, può dire Cacciari di Berlusconi a Malaguti sulla “Stampa”.Cioè, un partito può attaccare sul “fronte giudiziario”, la giustizia è un fronte, con baionette, elmetto?
 
Si legge il giornale, qualsiasi giornale, assillati ogni giorno dalle serie tv, decine,centinaia di serie, ognuna più “strepitosa” dell’altra. Che tutte invece sono un teatrino dei poveri, sceneggiate poveramente, e peggio recitate – “Forum” è già un monumento di drammatizzazione. Ma non c’è giornale che, tra i tanti elogi postumi, non deprechi “Sua Emittenza” che “decretò la distrazione di massa” - “Beautiful” e le sitcom. Giornali e giornalisti non sanno quello che dicono?
 
La morte riporta a galla vecchi beneficati, Casini, Follini, Fini. Accomunati dalla terminazione, e dalla inutilità. Che però costrinsero Berlusconi e i suoi governi all’inattività, tra verifiche e rimpasti. La vecchia politica, di cui pure si lamenta la perdita. E continua a fare legge, nel Pd per esempio.
 
Il direttore del “Foglio” Cerasa confida alla sua rubrica delle lettere la spiegazione che il giudice Piero Tony, ex Procuratore della Repubblica a Prato, tempo fa gli diede di come la Procura e la 
Procura Generale di Milano, e il Csm, lavoravano a incriminare Berlusconi. La vicenda giudiziaria è ritenuta un soprammobile, e comunque giustificata dalle intemperanze di Berlusconi, mentre è un capitolo nero e nerissimo della vita italiana. Perfino incredibile, tanto è antidemocratico, anticostituzionale – la giustizia politica è la vera morte della politica.

 
“I numeri sono da capogiro”, in effetti, di Sottile sullo stesso giornale, sul “Foglio”: “Ha subito 36 procedimenti. Si sono occupati di lui almeno mille magistrati”, in tutta Italia, “da Milano a Palermo, da Caltanissetta a Firenze, da Siena a Bari”. Fra Tribunali, Corti d’Appello e Cassazione “si sono tenute oltre 2.700 udienze”. Con milioni di pagine di “fascicoli e faldoni, perizie e verbali, testimonianze e rogatorie. E tonnellate di “registrazioni delle requisitorie e delle arringhe difensive”.  

“Non ci furono complotti” giudiziari, assicura l’avvocato Coppi alla “Stampa”, che ne condivide l’opinione. Ma poi aggiunge: “Non avevo tempo da perdere a pensare cosa ci poteva essere dietro alle accuse, mi bastava il davanti”. Un uppercut? No, deve venire: “Sull’unica condanna ci sarebbe da discutere”.

Sempre sul “Foglio” Taradash così sintetizza il defunto: “Impedì la nascita di un regime rosso bruno”, dopo “il golpe di Mani Pulite”, e “ci evitò, per quanto ne fu capace, che l’Italia finisse in  mano dei Travaglio, Santoro, Scalfari, De Benedetti, Ingroia e Di Matteo”. Per fortuna, è da convenire, la storia non si fa con i se.  
 
Si distingue fra gli omaggi di rito Vito Mancuo, il teologo laico. Che sulla “Stampa” scrive: “Di Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo molto di buono da riconoscergli”. Molto o anche poco? “Cave catholicis”, attenti ai credenti.
 
Anche Rosy Bindi, l’ultima politica di sacrestia a fare danni (privatizzò la sanità), ce l’ha col morto: “Era un uomo divisivo”, dopo anni di silenzio si fa viva per dire. Lei che oltre ai misfatti ha accumulato solo polemiche.
 
Si continua a dire che “vinse le elezioni del 1994, ma le perse nel 1996, le rivinse nel 2001, ma le perse nel 2006 per poi rivincerle nel 2008”. No, perse nel 1996 perché Bossi andò per conto suo, e perché Prodi con l’Ulivo azzeccò le candidature nei collegi uninominali – la legge Mattarella prevedeva una quota proporzionale e una quota maggioritaria: al proporzionale Berlusconi aveva avuto 15,7 milioni di voti, e Prodi 13,1. Nel 2006 prese ancora un milione di voti in più, ma Prodi fu ancora una volta più abile nei collegi uninominali.
 
C’anche chi ci vede giusto, Polito sul “Corriere”: “Berlusconi ha avuto tutto per cambiare l’Italia: consenso, successo, forza, soldi, potere; e non ce l’ha fatta”. 
Ma è il solo?
 
Manca Montanelli, in questo affollatissimo compianto. Quando fu cacciato dal “Corriere della sera”, quando Berlusconi gli pagò il giornale, e quando fece una guerra spietata a Berlusconi, e lo ripresero al “Corriere”. Da vero opportunista – l’arcitaliano di Maccari e Malaparte è Montanelli, che c’entra Berlusconi, niente “trasformismi” con lui.

Travaglio ha schierato 25 tra redattori e vignettisti per deridere il morto. Sotto un titolo che lo definisce tutto: “La Repubblica del banana”. “Bananas” era la rubrica anti-Berlusconi per la quale l’anticomunista Travaglio è stato chiamato all’“Unità” nel 2001. Che già allora, dunque, non era il giornale di Berlinguer? O basta l’odio?  

Vita dura di scrittrice

Una scrittrice scomparsa dagli scaffali, che pure ha tanto da dire. Qui conversa di tutto un po’, della scrittura, gli uomini, l’alcol, la madre, i luoghi, le lettere, il grande ultimo amore per Yann Lemée, da lei ribattezzato Andréa. Con numerosi ritorni sui propri romanzi, con indicazioni di lettura, presupposti, interpretazioni. 
I paradossi non mancano: “Sono gli uomini che ho ingannato di più quelli che più ho amato” – Duras si vuole sempre trasgressiva. Ma anche onesta, molti sono i malumori. Oltre che contro l’alcol, nemico ritornante, contro Parigi, e a favore. Contro l’età. Contro la madre – e a favore, un’ossessione in età matura. Contro l’uomo. Contro la donna, che si banalizza. Materiali come vengono, d’impulso, benché rivisti e corretti. Mai banali, Duras è una scrittrice che si è sempre pensata. Forse per venire da fuori, l’Indocina della sua infanzia e adolescenza era molto remota dalla Francia metropolitana, che ha dovuto conquistare.
Confessioni al registratore, nel 1986. Con Jérôme Beaujour, critico cinematografico reputato specialista della filmografia della stessa Duras, nonché autore delle interviste di lancio dei film di lei  A una registrazione ha partecipato pure Maurizio Ferrara, amico di Duras degli anni quando fu espulsa per indegnità – sposata, aveva un amante – dal partito Comunista. Duras avrebbe vissuto ancora dieci anni, pubblicando poco, “Scrivere” e “Yann Andréa Steiner” in memoriam.
Una auto-intervista a briglia sciolta soprattutto di ripensamenti di sé, di quello che avrebbe voluto e non ha saputo essere. “Una vita vissuta come un passaggio del tempo” si dice a proposito della sua voglia di mare, e dell’incapacità di goderselo, sia pure per una sola estate – della vita come un passaggio del tempo. Ma pur sempre molto pratica. Le sei pagine di Parigi quarant’anni fa rimandano pari pari a Roma oggi. Ma di Parigi – della città – ha il segreto, venendo da un periferia della periferia, da zone remote della remota Indocina: “Vi si viene, si crede, per essere più vicini al sendso, a quello che si crede di trovare in una capitale, che è fatto dell’essenziale di tutte le conoscenze, dell’arte di cosruire, di scrivere, di dipingere, fino a quello della politica”. Puntuta, a volte. A proposito di R. Barthes: “Ha dovuto essere adulto subito dopo l’infanzia”, “dopo le ‘Mitologie'” si è perduto. A proposito del teatro delle donne: “Dal 1900 non un solo testo di donna è stato rappresentato alla Comédie Française, o da Vilar al T.N.P. né all’Oéon, né a Villeurbanne, né alla Schaubühne, né al Piccolo Teatro di Strehler, di un autore donna o di un regista donna” – fino a che non sonoa arrivate lei e Sarraute, anni 1960. Da virago spesso: “Gli uomini sono omosessuali”, a danno delle donne. Molto dice come di un disattamento, da alcolista cronica a partire dai 41 anni. L’uomo è donna, la donna è uomo, etc.. Di un femminismo anti-femminista: “Non è cambiato nulla con la donna prima della classe” – “scrivo delle donne per scrivere di me”.
Molto è un ritorno ai suoi racconti. “Il libro” è “la storia di due persone che si amano”, ma di un amore “che si tiene nell’impossibilità di essere scritto”. I personaggi di “India Song” sono invece reali. “L’estate 80” è il mare, la vita che la scrittrice avrebbe voluto ma non ha vissuto. Tutte le donne dei suoi romanzi sono una, “Lola V. Stein” . Di “L’Amante”, il racconto che l’ha consacrata, dà la chiave autobiografica: di un’attrazione non spiegabile ma irresistibile, che in qualche modo si giustifica ex post, col suicidio successivo di lui, del giovane amante cinese, quando la storia è terminata. Di “Moderato cantabile” spiega che è stato scritto dopo un anno di sesso folle, con l’uomo che l’avvia all’alcol (non nominato, è Gérard Jarlot, giornalista), dal giorno della morte della madre. Dopodiché, dopo l’anno di bevute, la cosa “diventa meno grave, una storia d’amore”. Di Yann non finirebbe di parlare. Un colpo di fulmine, a settant’anni, uscita dalla disintossicazione con la depressione, gli antidepressivi micidiali con l’alcolismo, sincopi in serie, per tre giorni, l’ospedale di corsa. Crisi in serie, visioni, deliri, anche assassini, per fortuna senza esito, la décheance, e poi Yann.    
Un lungo capitolo di visioni, aberrazioni, fantasmi, chiude il libro. È il tema ritornante, i fantasmi dell’alcolismo. “Ho vissuto sola con l’alcol estati intiere a Neauphle”. “Vivere con l’alcol è vivere con la morte a portata di mano”. “A quarantun’anni ho incontrato qualcuno che che amava bere liberamente l’alcol…. Molto presto l’ho sorpassato. È durata dieci anni. Fino alla cirrosi, agli sbocchi di sangue. Mi sono fermata per dieci anni. Era la prima volta. Ho ricominciato”.
Marguerite Duras, La vita materiale, Feltrinelli, pp. 160 pp.vv.

martedì 13 giugno 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (528)

Giuseppe Leuzzi


Quando il padre di Stanley Tucci, originario di Marzi, vicino  Cosenza, da ragazzo chiedeva alla madre, girellando per la cucina, “cosa c’è per cena?”, la madre gli rispondeva: “Cazzi e patate”. L’aneddoto è ripreso da Tucci in apertura del suo libro di memorie e ricette “Ci vuole gusto”. Subito dopo un colloquio nello steso stile di lui a sei anni con la madre. Ed è verosimile, oltre che vero: ogni conversazione, anche animosa, deve avere un sottofondo scherzoso – “zani” in americano.
 
Un giorno Nina Weksler, confinata in guerra a Ferramonti, va in paese. Al ritorno annota: “Al confronto del paese calabrese,  Ferramonti mi sembra bello, ampio, pulito”. Il campo di concentramento è meglio del paese calabrese, Tarsia. Tarsia come Eboli, luoghi-non luoghi. La miseria si dimentica presto, tutta.
 
Il campo di concentramento di Ferramonti, per gli “allogeni” nemici, ebrei per esempio per essere russi, o jugoslavi per essere “comunisti”, era meglio del confine. Dove si aveva una stanza per sé (una “casa”), un soldo, e la libertà, ma in qualche paese sperduto – da Eboli in giù.
 
Se anche la mafia è milanese
Nelle decine di pagine dei quotidiani oggi su Berlusconi solo poche righe, a fondo pagina, sono lasciate ai cronisti giudiziari, cui in miriadi di pagine il defunto ha cosentito in trent’anni di illustrarsi. Non per questo si prendono meno seriosamente, ma in poche righe si mostrano per quello che sono: maschere, di un  teatro grottesco.
Che si possa insistere ancora dopo morto, tra le tante dichiarazioni di affetto, a dire Berlusconi un mafioso, anzi un capomafia si può capire: si può tutto di tutti, impunemente se si è in un certo filone di giustizia, come lo sono i giudiziari. Compresa l’accusa triplice di mafia: 1) Berlusconi si è fatto i soldi riciclando quelli della mafia; 2) Berlusconi ha finanziato la mafia con 200 milioni di lire l’anno - dopo essersi perduto con Craxi negli agrumeti di Rosarno (che però è in Calabria e non in Sicilia) in cerca della Cupola: 3) Nel 1993 ha ordinato le stragi di Firenze e Milano.
Che i già disprezzati cronisti giudiziari col tutto mafia siano diventati Granfi Firme può dispiacere, ma c’è un rimedio – non comprare il giornale. Che il Sud sia ostaggio di un paio di bestie di mafia, Cangemi, Brusca, Spatuzza, elevati a traggediaturi e “collaboratori di giustizia”, e di una mezza dozzina di giudici che “mafia è meglio che lavorare”, questa è la legge, e bisogna abbozzare – anche se sono giudici tutti meridionali, quasi tutti siciliani, con una napoletana, e un pugliese. Ma dire Berlusconi il Capo dei Capi, mettere la Sicilia e il Sud sotto le catene di Milano anche nella mafia?
 
L’eredità è un linguaggio
Dopo Gay Talese (“Onora il padre”, “Ai figli dei figli”), Styanley Tucci (La mia vita attraverso il cibo”): strano destino della Calabria, di essere celebrata da letterati americanissimi, figli di emigranti, con passione, e con acume filologico, anche con impegno di ricerca. Celebrata senza le riserve d’obbligo. Celebrata per virtù che oggi si direbbero tradizionali, anzi obsolete, e forse più vizi che virtù: la famiglia (la convivenza, la conversazione incessante, i pasti in comune), l’amore per i figli, dei padri oltre che delle madri, le grate memorie, la cucina.  
Tucci fa, in questo 2023, una celebrazione lieve e salda della famiglia, delle radici, e di una cucina familiare, ancestrale, ripetitiva se si vuole, con garbo e spigliatezza. Non il solito libro di ricette, ma il racconto delle ricette, e dell’Italia, di ingredienti tutti italiani, quasi tutti. Un’operazione nostalgica? Che però risulta di lettura avida. Per la sapienza narrativa, evidentemente, ma pure per il  gusto, anch’esso familiare, tradizionale, dell’aneddoto. E, soprattutto, di un linguaggio che, anche in inglese, privilegia l’aneddoto. E un linguaggio – i lunghi dialoghi tra la madre e la nonna sua madre, i coloqui con zii e cgini al apese dela madre – sempre pregno: semplice (diretto, indicativo), ma dalle molteplici intonazioni, nel senso di una comunicazione\comprensione implicita, quella che oggi si chiama empatia, le pause, gli anacoluti, le interrogative retoriche o negative.
Un libro promozionale ma non per soldi, emotivamente. Col “presepio”, e le “vigilie” di magro, benché di tredici portate. Le “zeppule”, i”pitti fritti”, le friselle (il biscotto di grano cotto due volte). Con i nonni, attivi anche se non impiccioni. Quelli paterni del cosentino, lui di Marzi, uno dei vecchi Casali di Cosenza, lei di Serra San Bruno (figlia di una Angela Albanese, una bisnonna a cui si tiene, perché di origini arberëshe). Quelli materni di Cittanova, al centro della grande selva di ulivi della piana di Gioia Tauro. La visita ai parenti della madre a Cittanova, per la vacanza di Pasqua del 1974, quando la famiglia passò un anno a Firenze, 1973-74, dove il padre si era preso un sabbatico per lavorare all’Accademia di Belle Arti, è un racconto vivacissimo, di garbo e scherzo: la ricerca dell’agnello al passo del Mercante, un pranzo che dura una giornata, prozii e biscugini che non si conoscono ma si parlano.
La madre è, non detta, al centro della narrazione, il suo segreto – un tributo non detto ma insorgente a ogni piega:  Joan Tropiano. Laureata, occupata da segretaria, scrittrice, che non fa mancare ai figli un pasto, a pranzo e a cena, e pubblica due libri di cucina di successo, “Cucina&Famiglia”, e “The Tucci Cookbook”. Dove troneggia il “timpano”, o timballo, che è la pasta al forno – di cui Tucci aveva già fatto nel 1986 il climax  del suo film di culto sulla cucina, “Big Night”, che si celebra insieme col classico “Babette’s Feast”: quello della pasta al forno è “un grande pranzo” – anche se l’amata moglie americana di Tucci, poi morta di tumore, e la seconda moglie inglese non lo gradiscono… Il linguaggio sana tutto: di più conta il garbo, e l’ironia, lo scherzo.
Un libro felice, perfino quando insorge un tumore alla gola, la fine per un buongustaio. Molto calabrese. Il linguaggio sana tutto: di più cont ail garbo, e l’ironia, scherzosa. Di un’altra Calabria, migliore fuori? L’understatement sul tumore si sarebbe portati a dire molto calabrese. Ma “antico calabrese”. Ora si è al contrario sepolti dai semplici disturbi, parenti, amici, conoscenti non li risparmiano, l’emigrazione ha cambiato “i gusti” – il linguaggio, la riservatezza, l’ironia bonaria.
 
Berlusconi e la Sicilia
Di “Berlusconi mafioso” si trascura che fece l’en plein, una volta (o due?), al voto politico, prendendosi tutti i sessanta e passa parlamentari che l’isola eleggeva, deputati e senatori. Che di più facile, in un’isola che si vuole mafiosa, che dire: Berlusconi ha preso i voti della mafia? Sarebbe stato un bel romanzo, nelle mille pagine delle celebrazioni funebri. E invece niente, nessuno lo ricorda.
Non se ne può fare colpa ai cronisti giudiziari, che solo sanno di contatti occulti, numeri segreti, e giudici sbirri. Ma non si ricorda nemmeno che alla Sicilia Berlusconi voleva regalare il Ponte. Era una sua idea. È stata la sua fissa, si può dire da sempre, anche prima della “discecsa in campo”. Non un Ponte vero, un progetto, dei materiali, dei costruttori, ma l’idea del Ponte. Con comitati, consulenze, concorsi di idee – Berlusconi era generoso con tutti, questo lo dicono oggi tutti i giornali, perfino “Il Fatto Quotidiano”, che schiera ben 25 giornalisti e vignettisti anti-Berlusconi. Cioè, prendeva i siciliani per siciliani.
Questo andava detto. Non sarà qui il punto, che impedisce alla Sicilia di essere una Lombardia - che cosa le manca? Mentre la Lombardia sa essere siciliana.
 
Sicilia
Un’agenzia di Messina organizza un programma “Discover Sicily”, viaggi di siculoamericani nei luoghi di nascita di nonni e bisnonni. Li traccia uno per uno, studiando l’anagrafe, partenze e cancellazioni. Le radici possono essere un patrimonio.
 
“Una terra, la Siciia”, dice Roberto Andò, “che predilige più l’implicito all’esplicito, l’enigma alla soluzione”. Notazione che l’intervistatore, Gnoli, può esplicitare: “Si torna al dire e al non dire. Alla reticenza”. Mentre invece la Sicilia reale è parecchio chiacchierona, troppo.
 
Arturo Di Modica, scultore, Di Modica solo di nome, nato a Vittoria, è famoso negli Stati Uniti, dove ha realizzato anche il “Toro” simbolo di Wall Street – e un po’ anche a Shangai. Negli Usa e in Cina viene peridocamente celebrato. Ma la Sicilia non lo sa. È vero che che subito ai diciott’anni lasciò Vittoria, per Firenze.
 
A Cazzullo che chiede di Dell’Utri – “è stato scritto che (Fedele) Confalonieri è il lato bianco del berlusconisMo, e (Marcello) dell’Utri, condannato per mafia, quello nero” - Galliani può rispondere: “A parte il fatto che il concorso esterno esiste solo in Italia, Marcello è nato a Palermo, Confalonieri a Milano e io a Monza. La cosa è tutta qui”.
 
I paesani di Sant’Agata li Battiati (dei battezzati), 10 mila abitanti, sono i più ricchi della Sicilia e del Sud, con un reddito medio annuo di 28.055 euro, al 152mo posto fra i Comuni in Italia. Subito poi, a due o tre posizioni nella clasifica nazionale, viene San Gregorio di Catania, con 28.019 euro a testa. Sono i resti di “Catania, la Milano del Sud”.
 
Yvette Pierpaoli, francese figlia di emigrati eoliani, è solo ricordata da Le Carré nelle memorie, “Tiro al piccione”. Dove rivela in lei il modello del suo romanzo “Il giardiniere tenace”. E poi, dopo morta, l’ha ricodata sul settimanale “The Observer”. Indomita imprenditrice sanitaria in Cambogia e altrove. Da ultimo volontaria umanitaria in Kossovo, dove è morta, alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
 
Marguerite Duras ricorda (“La vita materiale”, § “La casa”), al termine di una lunga disquisizione per cui la casa è donna, anche se è l’uomo a occuparsene, a proposito delle madri cuoche e serve ansiose dei figli: “Con le Italiane, per esempio, in Sicilia, si vedono donne di ottant’anni servire figli di sessanta. Le ho viste in Sicilia, di queste donne”. Duras ne parlava nel 1985, di esperienze fuggitive degli anni 1950. Ma è sempre vero, seppure non solo in Sicilia. 

leuzzi@antiit.eu

Il teatro taumaturgico

Antonio Albanese, attore sessantenne, con una figlia trentenne esule volontaria in Canada da quattro anni, un gabbiotto di casa a Ciampino, dove prova a dormire tra un areo al decollo o all’atterraggio, e un treno che passa frastornante, sopravvive col doppiaggio, mimando amplessi per film porno. Dimenticato il debutto promettente, in un “Aspettando Godot”. Messo in scena col suo amico di Accademia, ora Grande Teatrante, con “le mani in pasata” dappertutto.
I giorni passano opachi, finché fra i progetti multiformi dell’amico Grande Teatrante non fiorisce un corso per carcerati, alcune ore per tre mesi: pochi soldi per lui, ma già un passo. Un’altra Cayenna. Che però prende la mano al vecchio attore, risuscita antichi ardori, e proprio con Becket, col Godot, mette su uno spettacolino che richiama mezza Italia. Per i carcerati è solo un sotterfugio, anche se ne moltiplica per mille potenzialità e capacità. Per Antonio una rinascita: la salvezza arriva attraverso il teatro, una trasmutazione.   
Il film di Albanese e Milani è il rifacimento di un fim francese, “Un triomphe”, di Emmanuel Courcol. Che a sua volta è la drammatizzazione di un documentario, “I prigionieri di Beckett”, di Michka Saäl, sul lavoro svolto in carcere da un attore svedese, Jan Jönson. Ma Albanese gli dà più intensità: non è un scherzo, è il teatro taumaturgo.

Riccardo Milani, Grazie, ragazzi, Sky Cinema

lunedì 12 giugno 2023

Berlusconi o dell'oblio - 34

Usa in altro ambito – usava - il “Compianto del Cristo morto”, come prodromo alla Resurrezione, salmodiandone le qualità, a prolungarne la vita. Non così per Berlusconi, lo si celebra nella dimenticanza. Di fatti anche gravi di cui è stato – è - accusato. Che non ha commesso. Da parte di molti giudici, e dell’opinione pubblica che si vuole “liberal”. Fatti che dunque sono normali nella democrazia – nella democrazia italiana. Che uno possa essere perseguitato da centinaia di giudici, procuratori e giudicanti. Così, perché è antipatico. Anzi, nemeno antipatico, viste le condoglianze che si moltiplicano sui siti, senza riserve, ma solo avversario politico.
È normale che la Guardia di Finanza concentri la sua attività su un solo uomo, e neanche evasore, una sola azienda o attività. Che si insista dopo morto, sotto i compianti, a indagarlo come mafioso, anzi Capo dei Capi, e autore di stragi – a imputarlo di fatto, con anticipazioni, indiscrezioni, commenti. Che due presidenti della Repubblica, Scalfaro e Napolitano, abbiano operato contro le loro competenze per destituirlo dalla presidenza del consiglio.
L’Italia non si fa la storia, ma i fatti sono macigni – i mondi “decadono” per molto meno. La democrazia non è “compiuta”, ma per colpa di chi?

Abbasso il papa, nemico dell’Italia

Un romanzone anticlericale, stile Ottocento (manca la pedofilia).
Marco Bellocchio,
Rapito

domenica 11 giugno 2023

Ombre - 671

“Rialzo dei tassi: alle famiglie costa 2 miliardi, alle imprese 11” – Sole 24 Ore”. E chi paga questi nuovi costi – che naturalmente vengono traslati? Una politica monetaria per l’inflazione?
 
Vince la Champions il Manchester City, squadra di miliardari arabi e perciò antipatica in partenza, con un solo tiro in porta. Ma i commentatori, su Sky e Canale 5, hanno parole solo per i calciatori dello sceicco. Acerbi, Dimarco, Barella, Darmian? No, De Bruyne De Bruyne, Diego Silva Diego Silva, Grealish, Grealish. Provincialismo? Sono giornalisti e calciatori in età, si sono formati quando si poteva scommettere solo in Inghilterra, e quindi sanno (ancora) tutto e solo dei calciatori inglesi, tutti semidei. Molta noia.


La finale di Champions League d’Istanbul era l’occasione per il pubblico italiano di ammirare  Haaland, un centravanti che nel campionato inglese fa gola a decine, “un fenomeno”, “un mostro”, etc.  E non si è visto mai, benché sia un mastodonte, di quasi due metri, e novanta chili, nei 100 minuti di partita. È bastato mettergli accanto uno di pari stazza, un po’ meno, un po’ più atletico.


Ma ha anche ragione, oltre che fare ridere, Enrico Dal Buono che sull’“Espresso”, a commento di una galleria di foto oltraggiose di Oliviero Toscani del calcio dei tifosi, vede i calciatori come maestri del tifoso sul simbolismo dei tatuaggi sul collo, sulla “corretta applicazione del gel nei capelli”, e sull’uso dello smartphone – e la playstation?


“L’invasione russa dell’Ucraina ha alimentato una serie di reazioni contro il libero scambio che si sono venuto armando da circa un decennio: alcune delle più grandi economie mondiali scelgono di bloccare ulteriori integrazioni mondiali e, in molti casi, di adottare politiche commerciali protezioniste o nazionaliste”, Imf “Finance &Development” di giugno. A che fine? “Una possibilità è che la deglobalizzazione si fermi entro questi limiti. Ma un’altra possibilità è una nuova guerra fredda, questa volta tra gli Stati Uniti e la Cina e i loro rispettivi alleati, il mondo si frammenta in campi rivali”. Semplice.


L’ennesimo «campionato giudiziario» che ha riguardato il calcio ed in particolare la Juve”, riflette sull’“Espresso” il giurista Fimmanò, esperto di diritto commerciale, “ha tenuto fuori ancora una volta l’unica componente del sistema che qualsiasi cosa accada è sempre più potente e deresponsabilizzata. È abbastanza ovvio che non possono prodursi plusvalenze fittizie, o realizzarsi strane manovre sugli stipendi, senza che le stesse vengano condivise dagli agenti o congegnate con loro”. Gli “agenti”, tutti ospiti apprezzati (danarosi) dei paradisi fiscali, dividono bene le provvigioni?


Currò sintetizza su “la Repubblica” la stagione di Lautaro Martinez – prima dell’ultima partita: “71 partite giocate, 54 delle quali senza pausa, 5.164 minuti in campo, 72 minuti di media a partita, 61.710 chilometri di viaggi per 84 ore di trasferte internazionali”. Un atleta? Cosa è il calcio?


L’Italia ha il record delle automobili per abitante. Ne ha il 20 per cento in più degli inglesi, dei francesi e degli spagnoli, e il 10 per cento in più della Germania, grande fabbricante di automobili. E un traffico ferroviario e aereo molto più basso. In Italia è pubblica, la si vuole pubblica, l’industria, anche dove non ce ne sarebbe bisogno. Ma non i servizi, evidentemente sempre insufficienti, come i trasporti pubblici.


“Abbaiano, sporcano, perdono il pelo, odorano”, cioè puzzano, “hanno bisogno di uscire, accuditi, più volte al giorno, fanno danni in casa, vanno curati, mangiano cibi dedicati, costano un bel po’ di soldi”. Singolare anamnesi del cane in casa (“così li salveremo dai padroni inadatti”) sull’“Espresso”. Tutto pur di non fare un figlio? Cinque  milioni di bambini 1-9 anni, contro 9 milioni di cani, da accudire per dodici-quindici anni.

Raffaello e i suoi modelli – e il Magnifico Chigi

Una celebrazione ennesima di Raffaello, nella villa di Agostino Chigi che lo ricorda in ogni angolo. Di due personalità accomunate nella vita e nella morte – sopravvenuta a cinque giorni di distanza l’uno dall’altro, nell’aprile del 1520. Amore e Psiche, le fatiche di Ercole, le “teste” andate disperse: “Le collezioni di statue che arredavano la residenza di Agostino hanno offerto modelli e stimolo all’invenzione delle storie dipinte dai suoi artisti, e in particolare per Raffaello, la cui svolta classicista è già compiuta nel 1514”. Una celebrazione anche, o soprattutto, del banchiere “Chisio”, che i curatori vogliono “l’altro Magnifico”.
Di Raffaello si ricostruiscono possibili, anzi probabili, influenze di modelli greci, scultorei, emersi ai suoi anni oppure in mostra a Roma. La novità è il personaggio Agostino  Chigi, che la mostra per la prima volta mette in luce. Giovane curioso a Roma, poi banchiere abile, propositivo e non impositivo, che seppe meritarsi la fiducia di papi molti diversi, dal Borgia Alessandro IV a Leone X Medici. Di cui finanziò le cerimonie di incoronazione, e che lo volle sposato, dopo un convivenza lunga quattro figli – sfumata la possibilità di nobilitarsi per matrimonio con Margherita Gonzaga (“La Fornarina” degli Uffizi, a giudizio dei curatori, che la titolazione vogliono erronea), che lo rifiutò. Senza rimetterci (anche se alla sua morte i creditori disintegrarono il suo notevolissimo patrimonio) e anzi guadagnandosene i favori - fino all’“adozione” da parte di Giulio II nella sua famiglia, per nobililarlo. E i privilegi, il più importante (e ricco) il monopolio dell’allume che si cominciava a produrre sui monti della Tolfa – il borgo di Allumiere lo ricorda.  
Una larga parte della mostra espone volumi fatti stampare da Chigi, o edizioni a lui coeve, dei classici, Teocrito, Pindaro, Ovidio, Apuleio, fonti delle storie dipinte nella grande loggia e nelle sale della villa. E parte della grande collezione con cui “il Magnifico” ornava il suo gabinetto di lavoro, di gemme, camei, medaglie.
Una sede sempre eccezionale, per il luogo, tra l’Orto botanico e il fiume, le architetture, i giardini, ma limitata alla fruizione, due o tre panche fuori della villa. Una mostra curata, a rileggere tutto, che si vede come abborracciata - troppo buio nelle sale, molto più di quanto necessario per proteggere le cinquecentine. Un biglietto caro, e un brochure solo online.
Raffaello e l’Antico, nella villa di Agostino Chigi
, Roma, Villa Farnesina