astolfo
Dora Sophie Kellner - Giornalista,
traduttrice, scrittrice austriaca, già moglie un Max Pollak, un compagno di
università, col quale era emigrata da Vienna a Berlino, qui s’innamorò subito
di Walter Benjamin, che sposò, dopo un divorzio lampo dal primo marito. Il
matrimonio con Benjamin durerà a lungo, dal 1917 al 1930, arricchito dalla nascita
nel 1918 di un figlio, Stefan Rafael. Ma già nel 1929 era finito, Benjamin si
fidanzava con Asia Lacjs, l’attrice e regista lettone fiera comunista conosciuta
a Mosca nel 1924. Il divorzio fu lungo, essendoci di mezzo un figlio, ma senza
acrimonie.
Alla presa del potere di Hitler nel 1933 Dora
emigrò col proprio nome in Italia, a Sanremo. Dove lavorò dapprima come cuoca
all’hotel Miramare. Per poi rilevare Villa Emily, o Villa Verde, che gestì in
proprio come pensione – la vecchia residenza di Edward Lear, l’illustratore
londinese più noto come scrittore, di viaggi (in Calabria) e di limerick. Con l’avvento di Hitler Benjamin
aveva riallacciato i rapporti con l’ex moglie Dora: tra novembre 1934 e gennaio
1938 soggiornò a Sanremo, a Villa Verde (dove nel 1935 anche il loro
figlio Stefan si era trasferito) almeno cinque volte, anche per lunghi periodi
– nell’inverno 1934-25 per cinque mesi. Intervallati da soggiorni a Ibiza, ospite
di Jean Selz, nelle estati del 1934 e del 1936 a Skovbostrand, ospite di
Bertolt Brecht, e spesso in Francia, soprattutto a Parigi, dove era rifugiata
la sorella Dora, e dove poteva frequentare la Bibliothèque Nationale. A Villa
Verde Benjamin scrisse due capitoli di “Infanzia berlinese intorno al
Millenovecento”, e parti dei “«Passages» di Parigi” e dei lavori su Kafka.
La pensione di Dora ebbe grande successo,
divenendo il punto d’incontro di artisti e intellettuali di area tedesca. Tra
essi il poeta austriaco Richard Beer-Hoffmann, il pittore viennese Josef Floch, e il medico e scrittore Oskar Levy,
appassionato di Nietzsche, di cui curava la traduzione in inglese. A Capodanno 1937-1938 furono ospiti Theodor
W.Adorno e la moglie Gretel, in compagnia di Benjamin, con il quale Adorno
discusse le sue analisi di Wagner. Adorno, in certo senso allievo di Benjamin,
lo aveva introdotto sei anni prima all’Institut für Sozialforschung di Francoforte,
animato da Max Horkheimer, poi emigrato in America, che pagava a Benjamin
esilio un modesto sussidio mensile di 500 franchi francesi, per viaggi, libri e
trasloco della biblioteca.
Nel 1938, dopo le leggi razziali di
Mussolini, Dora lasciò Sanremo con Stefan per Londra, dove vivrà fino alla
fine, nel 1964, di settant’anni. Continuò a corrispondere con l’ex marito fino
al dicembre 1939, all’internamento di Benjamin in Francia. A Londra fece un
falso matrimonio, per avere la residenza, con un Harry Morser - un suo compagno
di gioventù a Vienna, Heinrich Mörzer - che aveva preso la cittadinanza sudafricana.
E ne mantenne il nome anche dopo la divisione nel 1945. Con un nuovo compagno, Franck Shaw,
ingegnere, aveva intanto ripreso la gestione di alberghi.
Il figlio Stefan, che dopo la guerra sarà
uno specialista di Romanistica, nel 1939, in quanto figlio di un tedesco, fu
deportato in un campo di concentramento in Australia, Camp Hay.
Dora (Deborah) a
Berlino era giornalista, scrittrice, traduttrice abbastanza nota. In una sorta
di divisione del lavoro con Benjamin, appassionato di scrittori francesi e
russi, lei traduceva dall’inglese. Di genitori ebrei, era figlia di una traduttrice,
Anna Kellner, e di un anglista, sionista (amico personale di Theodor Herzl),
Leon Kellner, Fino ai 14 anni era stata educata in casa dai genitori. Andò la
prima volta a scuola a 15 anni, a Czernowitz, dove il padre aveva avuto un incarico
al liceo.
Non bella, era apprezzata per la vivacità
e lo spirito. All’università aveva frequentato Chimica e Filosofia. Aveva
sposato Pollak, di ricca famiglia industriale, a 22 anni. A 26 era innamorata
di Benjamin, che sposerà un anno dopo. A Berlino lavorò come corrispondente dell’agenzia
United Telegraph, traduttrice dall’inglese, di Virginia Woolf, “Orlando”,
Walpole, Galsworthy, Michael Gold (“Ebrei senza denaro”), giornalista di
cronache letterarie e artistiche, intrattenitrice alla radio, di una certa fama
per il personaggio della casalinga svampita, sui toni del femminismo, autrice
di due romanzi-feuilletons,
pubblicati cioè a puntate, “Gas gegen Gas” (su “Südwestdeutsche Rundfunkzeitung”, e col titolo “Das Mädchen von Lagosta” su “Innsbrucker
Nachrichten” e “Grazer Tagblatt”), e “Béchamel Bettina” (su “Die Dame”).
Una duplice biografia, di lei con Walter Benjamin, è stata pubblicata
nel 2020: Eva Weissweiler, “Das Echo deiner Frage. Dora und Walter
Benjamin. Biographie einer Beziehung”, biografia di una relazione.
Neauphle-le-Chateau – Ripudia Khomeiny il paese
di 3 mila abitanti delle Yvelines, il dipartimento della regione dell’Île de France, limitrofo a
Parigi, in pratica un quartiere suburbano di Parigi, già famoso fra gli
appassionati come residenza di Marguerite Duras dal 1958, in una grande casa
all’entrata del villaggio (“vivevo sola a Neauphle”, dove “conoscevo tutto il
paese” - “ho
vissuto sola con l’alcol estati intere a Neauphle”), comprata con i diritti
cinematografici di “Una diga contro il Pacifico”, venuto alle cronache tra ottobre 1978 e gennaio
1979 perché scelto dai servizi segreti francesi di Giscard d’Estaing come vetrina
per promuovere l’ayatollah contro lo
scià di Persia. Quattro mesi soltanto ma bastanti per destabilizzare l’Iran:
l’1 febbraio l’ayatollah poteva sbarcare in trionfo a Teheran, su un aereo Air
France degli stessi servizi francesi. Da allora Neauphle ha prosperato come
meta di pellegrinaggio degli iraniani khomeinysti.
Lo stesso
villaggio se ne faceva motivo di orgoglio. La villetta a due piani nella quale
l’ayatollah era stato ospitato i proprietari è stata demolita. Ma una grande
targa ricordava dal 2017 con una lunga iscrizione quella esperienza storica, un
pannello protetto da una lastra di vetro. Neauphle-le-Château è “un nome
impresso per sempre nella storia delle relazioni franco-iraniane”, si leggeva
nella targa, come didascalia all’immagine dell’ayatollah: “Il popolo iraniano
si ricorderà sempre dell’ospitalità del popolo francese e dell’accoglienza che
è stata riservata all’ayatollah Khomeiny”. Al nome del villaggio è stata
intitolata a Teheran la strada dove sorge l’ambasciata iraniana. Ora la targa è
stata abbattuta, da non si sa chi, di notte, e sia il Comune che la
cittadinanza non la rivogliono.
La ripulsa
è stata generata ufficialmente dalle prolungate proteste in Iran contro il velo
imposto alle donne, e le tante morti successive all’assassinio il 22 settembre,
per non essere velata “appropriatamente”, della ventiduenne Mahsa Amini. Non era il primo assassinio da
parte delle polizie iraniane di ragazze non velate, tra 400 e 500 ne sono stati
contati, ma quello di Mahsa Amini ha acceso una lunga ondata di proteste in
tutto l’Iran, e a Neauphle il rifiuto è subentrato alla memoria storica. In un
primo momento la municipalità aveva provato una soluzione intermedia, annunciando che la targa sarebbe stata
“velata”. In attesa che la protesta in Iran rientrasse. Oppure che il proprietario, tuttora protetto da anonimato, del terreno dove sorgeva la targa, un’area incolta, a maggese, ma molto
visibile dalla strada, decidesse di rimuoverla. Poi la targa si è trovata
frantumata per terra, e ora il velo copre il muro nudo.
Khomeiny ha proclamato l’11
febbraio la festa nazionale, il giorno della “rinascita dell’Iran”. Neauphle
conta – contava – numerosi visitatori iraniani, o sciiti di obbedienza
iraniana. Ai primi di febbraio ogni anno, da quarant’anni, una fila di
sostenitori del khomeinismo, organizzati da associazioni di obbedienza sciita
tra gli iraniani, i libanesi e gli algerini emigrati in Francia, col sostegno
organizzativo ed economico dell’ambasciata iraniana a Parigi, si ritrovavano a
Neauphle per commemorare commossi Khomeiny – sul motivo: “È qui, a 5 mila chilometri
da Teheran, che è nata la Repubblica islamica”. Si progettava anche un museo.
Khomeiny
era un oscuro esiliato in Iraq da una dozzina d’anni senza alcun seguito nel
suo paese. Fu imposto dai servizi francesi con una scenografia semplice e
oculata. Semplice era la residenza scelta a Neauphle: una villetta monofamiliare
a due piani, con un balcone al primo: Semplice la procedura: l’ayatollah si
affacciava ogni giorno al balcone, per un pubblico ristretto scelto, e pronunciava
un sermone, che era già stato registrato e riprodotto in cassetta in milioni di
copie, distribuite ad horas in Iran.
Con brevi immagini televisive, diffuse attraverso Tf 1 sui tg occidentali e
arabi.
Khomeiny
parlava davanti a una folla modesta. Per lo più di giornalisti. Tutti fatti
confluire dopo un triage meticoloso,
anche corporale. Con l’abituale grossolanità verbale e spicciatezza delle gendarmerie
francesi, che non guardano mai negli occhi. La condanna dello scià era
stata sanzionata a inizio gennaio da
Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Germania Ovest. Su iniziativa francese, del
presidente Giscard d’Estaing, esponente autorevole della Francia laica.
Le sporadiche
ricorrenti mobilitazioni popolari in Iran s’intensificarono con gli
audiomessaggi dell’ayatollah Khomeiny. All’inizio del 1989 Giscard d’Estaing
organizzò alla Guadalupe, dal 4 al 7 gennaio, un vertice a quattro, col presidente
americano Carter, il cancelliere tedesco Schmidt e il primo ministro britannico
Callaghan. I quattro diffusero immagini di
grande self-assurance e contentezza, avendo deciso che la cosa migliore era “consigliare”
allo scià l’abbandono dell’Iran. Un revirement improvviso, di
cui non è stata data la ragione, anche se ha portato il mondo islamico e l’Occidente
a tristi passi. Di cui i quattro si mostrarono tutti d’accordo. Solo pochi mesi
prima, il 15 ottobre 1977, Carter e la moglie Rosalynn avevano intrattenuto per
due giorni a Washington lo scià e la moglie Farah Diba, tra feste, giochi,
grandi risate e grandi pranzi – lo scià per la prima volta si era visto ridere.
Un mese dopo Carter aveva fatto tappa a Teheran, in un giro delle capitali
amiche, insieme con Rosalynn, e aveva dichiarato lo scià “un’isola di stabilità”.
Patto
Ribbentrop-Molotov – Il partito Comunista francese fu per quasi due
anni di guerra, dopo il patto Hitler-Stalin, o Ribbentrop-Molotov,
filo-tedesco, filo-Hitler. Il patto, firmato il 23 agosto 1939, una settimana
prima dell’invasione tedesca della Polonia, e dell’entrata in guerra contro la
Germania della Francia e della Gran Bretagna, disorientò il partito Comunista
francese, pur essendone la Francia la prima vittima, dopo la Polonia. Era un partito
forte, e politicamente navigato: era stato al potere di recente, nei due anni aprile
1936-aprile 1938, a sostegno del governo radical-socialista del Fronte
Popolare. Ma il 3 settembre 1939 condannò la “guerra imperialista”, che Francia
e Gran Bretagna dichiaravano a Hitler. E dopo l’invasione della Francia, dopo
la drôle de guerre, la “buffa
guerra” che la Francia perdette in poche settimane, fece propaganda per
fraternizzare con le truppe tedesche di occupazione. Fece anche petizione al
comando tedesco per la ripresa delle pubblicazione del giornale di partito.
“L’Humanité”. E quando l’autorizzazione fu negata, ne fece colpa al suo proprio
negoziatore, Maurice Tréand, il responsabile della Sezione Quadri del partito
(Tréand, sentendosi sospettato, s’industriò di evitare la “liquidazione”
ritirandosi a vita privata, lontano da Parigi, in un piccolo agglomerato di
provincia).
Ma già durante il tentativo francese di resistere
all’invasione tedesca il partito Comunista francese aveva agito contro la
Francia. Gli studenti della federazione
giovanile organizzarono a Parigi plurime e ampie manifestazioni contro la
Francia in guerra. Giovani operai sabotavano nelle fabbriche la produzione di
guerra – la cosa è nota perché alcuni giovani operai furono fucilati per atti
di sabotaggio. Ancora a fine maggio 1941, cioè alla vigilia dell’attacco
tedesco all’Unione Sovietica, i minatori del bacino carbonifero del
Pas-de-Calais che osarono scioperare per dieci giorni, tra fine maggio e primi
di giugno del 1941, furono lasciati soli dal Pcf: lo sciopero fu enorme, di
almeno 120 mila minatori, ma si poté concludere, senza resistenze, con
deportazioni in massa (molti minatori, forse il maggior numero fra gli
scioperanti, erano polacchi), incarcerazioni (con suicidi) e alcune esecuzioni,
a opera delle truppe tedesche e della polizia di Vichy, il regime creato in Francia
dalla Germania.
astolfo@antiit.eu
Niente
kitsch , flabelli, baldacchini, negretti, eserciti, cavalli,
per l’ Aida” a Verona, alla celebrazione del centenario dell’Arena –
dell’apertura dell’Arena alla lirica, per la giusta intuizione del tenore
veronese Giovanni Zenatello nel lontano 1913, quando di persona constatava
l’acustica dell’anfiteatro. Una rappresentazione sempre kolossal, con un’orchestra di 160 elementi, altrettanti coristi, e
masse di oltre duecento figuranti, tra ballerini e comparse. Tutti con lusso di costumi, ma in un’atmosfera quasi
intimista: Stefano Coda, il regista, che è anche scenografo, costumista e
coreografo della rappresentazione, fa scoprire la vera essenza dell’opera, che è
una storia d’amore – a cominciare dalla celeberrima “Celeste Aida” d’apertura.
Il
sottile tema dell’opera è dell’amore non riamato, di Amneris in mezzo a Radames
e Aida. Che s’intreccia coi destini di due re, di due popoli. Un plot perfetto, inventato dall’egittologo
francese Augste Mariette (Antonio Ghislanzoni. che figura autore del libretto,
è solo un adattatore) per il khedivé d’Egitto, che voleva una degna
celebrazione del canale di Suez – lo stesso Mariette che tanto si adoperò per
convincere all’opera un Verdi recalcitrante, approntandogli anche la
possibilità di provare a Parigi invece che al Cairo.
Coda
ha potuto giovarsi della sonorità naturale dei protagonisti, Netrebko, Eyvazov
e Olesya Petrova, tanto gli è bastato per sedurre e commuovere. La guerra
lasciando sullo sfondo, da pacifista, critico. La battaglia ha inscenato stilizzata,
con balletti capolavoro, di coreografie quasi indistinte, di movimenti
naturali, senza clangori né crudeltà. Questa limitando alla gigantesca mano che
funge da sfondo, unico riferimento battagliero e crudele, rinviando al deposito
di mani mozzate dagli Hyksos ritrovato ad Avaria (Tell el-Daba). Un monito più che una vicenda.
Stefano
Coda, Aida di Verdi, Arena di Verona
spock
Morto Berlusconi, si riforma la giustizia
Si disintasano i tribunali, la Cassazione può andare in
vacanza ad agosto, le Camere pure?
Ci saranno ora giudici in soprannumero?
Anche giornalisti - speriamo di no, che Berlusconi
risusciti, chi paga la pensione?
E Guardie di Finanza - le avremo finalmente libere di dare la
caccia agli evasori?
È la liberazione, o era meglio prima, ci evitava il dovere
di fare politica?
Con Schlein a capo del Pd, avremo più processi contro
Meloni&co o meno processi – i Procuratori dovranno finalmente lavorare?
spock@antiit.eu
“Il
campo lavora, mangia, beve, ama e odia, legge libri, ascolta la radio. Gente
muore, bambini nascono. Uomini e donne si innamorano, fanno piani per il
futuro, oppure si dividono. Si danno concerti, si cucinano dolci, si tengono
conferenze, si imparano le lingue, si progetta un teatro. Qui, come ovunque nel
mondo, ci sono persone che scrivono poesie, dipingono quadri. Poiché il futuro
è del tutto vago, e non solo, anche spaventoso, si vive nel presente meglio che si può, il meglio possibile”. Si
fanno commerci, c’è chi apre un caffè, anche se il caffè è di cicoria, chi un
ristorante, anche se il cibo latita, chi fa sartoria. Con quattro squadre di
calcio, la polacca, la tedesca, la jugoslava, e “quelli di Rodi”, cechi sionisti
naufragati a Rodi e cofinati a Ferramonti. E il “club inglese del caffè Kitty”.
Si ruba anche, qualcuno è un ladro specializzato.
“Mille
giorni di una giovane ebrea in un campo di concentramento” è il sottotitolo. Ma
non sembra, è un campo sui generis. Il
“caffè jugoslavo” è pieno di tutto, anche vero caffè, e sigarette inglesi. Dapprima
con le candele, poi con la luce elettrica. Si ascolta radio Londra, arriva il
“Basler Nachrichten”. “Un’isola fuori dal mondo… tutto insensato”. Si può
andare in gita, con la corriera, fino a Cosenza. Si può chiedere il trasferimento:
bene accetto all’autorità è quello al confino singolo, in un paese isolato, che
però non è popolare nel campo (la punizione più temuta è il “campo di concentramento
femminile”).
Burocrazia
al minimo, nessuna animosità. Ci sono due sinagoghe. Il direttore, Paolo Salvatore,
organizza feste da ballo, con pasticcini e orchestrina. Come se non ci fossero
state le leggi razziali. Comitati Ebraici sono sempre attivi, a Roma, Genova,
Milano, che per le feste mandano pacchi dono, che vengono recapitati. Il campo
raccoglie ebrei originari di Germania, Polonia, Austria, Russia, Cecoslovacchia,
Ungheria, anche della Turchia non invasa dai tedeschi, rifugiati in Italia
malgrado le leggi razziali del 1938, colti impreparati dall’entrata in guerra. Nina
scrive: il diario, racconti, scenette. E li “pubblica” anche, in tutta libertà. Si
organizzano premi letterari, Nina vince un secondo premio, sessanta lire. Alla
partenza per Ferramonti, dopo dieci giorni di San Vittore, alla stazione
Centrale di Milano “amici e conoscenti”, che già erano andati a trovarla in
carcere, sono venuti a congedarsi con pacchi e pacchetti. Il campo calabrese è uno dei 42 aperti in Italia, ma tutto sembrerà meno che un campo di concentramento.
Un
racconto dal vivo, in presa diretta, l’autrice ventenne vi fu internata, di
Ferramonti, in Calabria, vicino Cosenza, nel comune di Tarsia, uno dei campi di
internamento per stranieri allogeni, cioè cittadini di paesi con cui l’Italia
era in guerra o considerava ostili, creati nel 1940. Molti però vi furono
internati solo per essere ebrei – molti erano infatti allogeni di paesi
dell’Unione Sovietica, che all’epoca era alleata dell’Asse. Ci sono anche
comunisti jugoslavi, comunisti greci. E cinesi, “incredibilmente eleganti e
abili”. Tre anni “di giorni vuoti. E pieni”.
La
morte arriva con la liberazione, con i bombardamenti, e i mitragliamenti
insistiti, degli Alleati. Il campo si svuota dopo l’11 settembre (il primo bombarda
mento) e poi si riemie, senza coercizione Con l’aiuto anche dei soldati
italiani sbandati. Con la liberazione, “gli affari delle cortigiane del campo
andarono magnificamente, era un momento molto favorevole” – c’era un bordello
nel campo, tennuto da un’ebrea ungherese, la signora Parkowski.
Ferramonti
fu un luogo di deportazione (confino) costruito appositamente, con decine di
baracche ordinate in fila. Ma fu un luogo speciale anche per le condizioni di
vita. Diretto da un prefetto, Paolo Salvatore, un ex ardito di D’Annunzio a
Fiume, esperto di prigioni-confino a Ventotene e a Ponza. Guardato da
carabinieri e militi, pochi e non intromissivi. Al comando del maresciallo
Gaetano Marrari, che interveniva solo per evitare danni ai confinati. C’era il
filo spinato attorno al campo, ma si poteva oltrepassare senza problemi. La
vita scorreva normale a Ferramonti malgrado l’isolamento, e le ristrettezze.
La
posta arrivava, e veniva spedita. Il cibo veniva distribuito regolarmente. I
confinati ricevevano il soldo, come i militari: la “decade”, sessantacinque
lire – che nel tempo fu anche aumentata, a ottanta lire. Se sposati, e molti si
sposavano per questo, potevano avera una casa per sposati, una stanza privata
invece della camerata a venti o trenta. Un campo di baracche, faticoso come può
essere una comunità ristretta, un villaggio, per gente urbanizzata, ma
incredibilmente vispo per quegli anni di guerra, pulito quanto possibile –
quando Nina, che prima dell’internamento viveva a Milano, lavorando come
modella per pittori famosi, Albertosi e Carminati, mentre leggeva e scriveva, si
avventura per curiosità fino a Tarsia,
ne ritorna tramortita, dall’indigenza.
Un
racconto vivace, e diverso. Incomprensibilmente isolato e quasi trascurato. Non
c’è racconto di vita di internati ebrei durane la guerra, testimonianza,
ricordo, che non sia accettato e letto. Di questo, che pure è di grande
lettura, è stata trascurata la traduzione e poi la diffusione. Nina Weksler,
autrice di molte narrazioni, l’ha ottenuta in tarda età, quando col marito
hanno deciso di passare gli ultimi anni in agro di Cosenza, da un editore
locale – quasi una memoria a Cosenza. L’edizione è peraltro curata e ben
presentata. Molte fotografie documentano il racconto.
Nina
Weksler, Con la gente di Ferramonti,
Editoriale Progetto, pp. 248, ill. € 15
Paolo Mieli finalmente dopo trent’anni dice la verità
sull’atto di accusa a Berlusconi a dicembre del 1994, poi rivelatosi insussistente, da lui anticipato a tutta pagina sul “Corriere della sera” per mettere Berlusconi
in difficoltà all’assise internazionale Onu sulla giustizia che la mattina
della pubblicazione doveva inaugurare a Napoli. Da Mentana nella maratona Berlusconi lunedì notte dice: “L’avviso mi fu recapitato alle 2 del pomeriggio e quindi non poteva
venire che dalla Procura di Milano”. Non dice tutta la verità, come si vedrà.
Però dice cioè che il suo giornale, il “Corriere della sera”, e la Procura di Borrelli
e Di Pietro erano non solo in sintonia (“Anche io vivevo nella retorica di Mani Pulite” è l’esordio della testimonianza), ma collaboravano. Sembra assurdo, ma lo dice: il giornale dava una mano
agli sbirri.
E lo conferma subito dopo. Dice infatti Mieli anche
che nessuno dei giudici che, a Brescia e a Milano, indagarono sulla “fuga di
notizie” lo contattò mai: “Non mi chiamarono i giudici di Brescia. E
nessuno di quelli del pool Mani pulite, con cui avevamo rapporti, mi avvicinò
per chiedermi di capire come era andata, per sapere se era stato un loro
collega, visto che se veniva dal palazzo di Giustizia qualcuno doveva essere
stato”.
“Con cui avevamo rapporti”,
cioè, di confidenza. Altro che democrazia e informazione corretta.
Ma non è tutto: Mieli ancora non dice come l’“avviso di garanzia” a Berlusconi gli è stato mandato in
copia. Fa un po’ d’ammuìna con la Procura: “Ci fu una cosa che mi diede molto
fastidio. Misero in giro la voce che a darci la notizia fosse stato Berlusconi
perché in quell’atto mancava una cosa... Questo mi fece andare su tutte le
furie, perché io sapevo come era andata. Non lo dirò qui fino in fondo, ma solo
che avevo saputo di quell’atto e conosciuto i suoi termini alle due di
pomeriggio. Quindi l’unico posto da cui poteva essermi arrivato era il palazzo
di Giustizia di Milano”.
“Non lo dirò qui
fino in fondo”. E dove allora?
Mieli ha paura (che ricatti qualcuno è da escludere,
almeno questo)? Ma Borrelli è morto, anonimo, solo. E Di Pietro si gode le provvisionali delle
250 cause che i suoi mille giudici gli hanno fatto vincere per diffamazione – se
le gode anche lui isolato e anonimo, essendo uscito dalla politica per indegnità.
“Luigi R. Einaudi, nipote del presidente
Luigi, ha lavorato nel Dipartimento di Stato americano con leader democratici e
repubblicani. Tre cose, dice, mancano all’approccio internazionale degli Stati
Uniti: «Capacità di stare a sentire gli altri, rispetto della sovranità, capire
che la democrazia si costruisce dentro i paesi ma anche tra di loro»”. Intervista
con Viviana Mazza, su “La Lettura”.
Luigi R. è figlio di Mario Einaudi, che
nel 1936 scese di andare a insegnare in un’università inglese. La famiglia
emigrata in America nel dopoguerra, il giovane Luigi scelse di fare il servizio
militare negli Stati Uniti, divenendone automaticamente cittadino. Luigi sta
per il nonno Einaudi, R. per Roberto, il nonno materno, Roberto Michels, il sociologo
tedesco-italiano infatuato invece del fascismo.
“Ci siamo tirati indietro dalla ratifica
di trattati internazionali”, dice ancora l’ex diplomatico Einaudi. E: “Diciamo
di volere un ordine basato sullo stato di diritto, ma vogliamo un sistema con
regole nostre anziché negoziate con gli altri. Crediamo in noi stessi e nella
nostra forza e dimentichiamo quella altrui”.
“In America c’è una tradizione di
violenza preventiva”, dice ancora.
L’ateista di Brooklyn sghignazza
freddo sulla fifosofia – e sulla stupidità. Joaquin Phoenix con un po’ di
pancetta è un professore di filosofia conteso dalle università, e dalle donne
dei campus, dirigenti, mogli, studentesse. Ma, non sa perché, è un po’ depresso
e un po’ attaccato alla fiaschetta del whisky, e disprezza la filosofia che
insegna. Al primo giorno le “stronzate” morali di Kant, del “pricnipio di
veridicità” - bisogna sempre dire la verità, a qualsiasi costo: “Arriva la
Gestapo, toc toc, scusi signore, che ha visto Anna Frank e la sua famiglia? Sì,
sono in soffitta”. Al secondo le angosce di Kierkegaard. E per questo è adorato
dagli studenti. Dalle studentesse, e da qualche moglie di professore al campus.
Tutto normale, tutto
scontato, da sit-comedy da università Americana. Finché il professore non ritrova
energia e voglia di vivere quando decide di eliminare “un parassita” - un
giudice che potrebbe fare del male a una donna di cui ha infraudito l’allarme
al caffè. Un uomo nemmeno corrotto, o cattivo, solo
ordinario, prevedibile, tanto che ucciderlo è perfino semplice.
Un giallo
filosofico. Con un finale brusco, che però lo rende incogruente: muore uno dei
due natrratori della storia – e quindi come fa a raccontarla? W.Allen regista,
sceneggiatore e produttore, ne ha probabilmente ne ha abbastanza di queste
altre “stronzate” filosofiche, se si può fare il male a fin di bene, etc.
Un film svelto,
da pezzo teatrale – solo dialogato. Un ultimo guizzo del Woody Allen serio,
anche se nichilista. Che fa i conti con la filosofia anche nella sua parte più
anarchica, dell’“atto gratuito”, del “delitto perfetto”, della “liberazione”.
W. Allen è un comico
riflessivo, molto, sul linguaggio e sull’esistenza. Il suo primissimo
amtrimonio, prima del riconoscimento e del successo, fu con una
studentessa-studiosa di filosofia. Qui si muove sulla traccia tentata negli
ultimi anni 1970, con “Annie Hall”, “Interiors”, “Manhattan”, seria anche se
non filosofica. Ripresa nel 1997 con “Harry a pezzi”.
Un film del 2015, di prima
del #metoo, che poi ha ostracizzato Woody Allen, ma considerato all’uscita atipico
e passato sotto silenzio, che invece si mantiene vivo. Di situazioni e dialoghi
da gag, anche se non divertenti.
Woody Allen, Innatural Man, Sky Cinema
Il circolo Arci di Arcore annuncia per oggi il “Di-Party-To”,
una festa tra #metoo e dipartito. In effetti l’odio c’è. La Questura che non ha
voluto la camera ardente pubblica, e il funerale con pubblico controllato, non si
sarà inventato tutto.
“C’è sempre un cadavere ingombrante nella storia
d’Italia, da Mussolini a Craxi e, come abbiamo visto in questi giorni, anche
Berlinguer. Berlusconi era un sopravvissuto che la morte ci ha restituito vivo.
Ha spaccato l’Italia in due metà e le ha cambiate tutte”. Per essere capofila
dell’anti-belusconismo “la Repubblica” non poteva rendergli omaggio più elevato
– anche se lo confida a Francesco Merlo, fra le lettere.
“Ho sempre considerato suicida la scelta della
sinistra di attaccarlo sul fronte giudiziario anziché su quello politico”, può dire Cacciari di Berlusconi a
Malaguti sulla “Stampa”.Cioè, un partito può attaccare sul “fronte giudiziario”,
la giustizia è un fronte, con baionette, elmetto?
Si legge il giornale, qualsiasi giornale, assillati ogni
giorno dalle serie tv, decine,centinaia di serie, ognuna più “strepitosa” dell’altra.
Che tutte invece sono un teatrino dei poveri, sceneggiate poveramente, e peggio
recitate – “Forum” è già un monumento di drammatizzazione. Ma non c’è giornale
che, tra i tanti elogi postumi, non deprechi “Sua Emittenza” che “decretò la
distrazione di massa” - “Beautiful” e le sitcom. Giornali e giornalisti non
sanno quello che dicono?
La morte riporta a galla vecchi beneficati, Casini, Follini, Fini. Accomunati dalla terminazione, e dalla inutilità.
Che però costrinsero Berlusconi e i suoi governi all’inattività, tra verifiche
e rimpasti. La vecchia politica, di cui pure si lamenta la perdita. E continua
a fare legge, nel Pd per esempio.
Il direttore del “Foglio” Cerasa confida alla sua rubrica
delle lettere la spiegazione che il giudice Piero Tony, ex Procuratore della Repubblica a Prato, tempo
fa gli diede di come la Procura e la Procura Generale di Milano, e il Csm, lavoravano a
incriminare Berlusconi. La vicenda giudiziaria è ritenuta un soprammobile, e comunque giustificata dalle
intemperanze di Berlusconi, mentre è un capitolo nero e nerissimo della vita italiana. Perfino
incredibile, tanto è antidemocratico, anticostituzionale – la giustizia politica è la vera
morte della politica.
“I numeri sono da capogiro”, in effetti, di Sottile
sullo stesso giornale, sul “Foglio”: “Ha subito 36 procedimenti. Si sono occupati di lui almeno mille
magistrati”, in tutta Italia, “da Milano a Palermo, da Caltanissetta a Firenze, da Siena a Bari”. Fra
Tribunali, Corti d’Appello e Cassazione “si sono tenute oltre 2.700 udienze”. Con milioni di pagine di “fascicoli
e faldoni, perizie e verbali, testimonianze e rogatorie. E tonnellate di “registrazioni
delle requisitorie e delle arringhe difensive”.
“Non ci furono complotti” giudiziari,
assicura l’avvocato Coppi alla “Stampa”, che ne condivide l’opinione. Ma poi
aggiunge: “Non avevo tempo da perdere a pensare cosa ci poteva essere dietro alle
accuse, mi bastava il davanti”. Un uppercut?
No, deve venire: “Sull’unica condanna ci sarebbe da discutere”.
Sempre sul “Foglio” Taradash così sintetizza il
defunto: “Impedì la nascita di un regime rosso bruno”, dopo “il golpe di Mani Pulite”, e “ci evitò,
per quanto ne fu capace, che l’Italia finisse in mano dei Travaglio, Santoro, Scalfari, De Benedetti,
Ingroia e Di Matteo”. Per fortuna, è da convenire, la storia non si fa con i se.
Si distingue fra gli omaggi di rito Vito Mancuo, il teologo
laico. Che sulla “Stampa” scrive: “Di Berlusconi io non avrei scritto nulla, non avendo
molto di buono da riconoscergli”. Molto o anche poco? “Cave catholicis”, attenti ai credenti.
Anche Rosy Bindi, l’ultima politica di sacrestia a
fare danni (privatizzò la sanità), ce l’ha col morto: “Era un uomo divisivo”, dopo anni di silenzio si fa
viva per dire. Lei che oltre ai misfatti ha accumulato solo polemiche.
Si continua a dire che “vinse le elezioni del 1994, ma
le perse nel 1996, le rivinse nel 2001, ma le perse nel 2006 per poi rivincerle nel 2008”. No, perse
nel 1996 perché Bossi andò per conto suo, e perché Prodi con l’Ulivo azzeccò le candidature nei collegi
uninominali – la legge Mattarella prevedeva una quota proporzionale e una quota maggioritaria:
al proporzionale Berlusconi aveva avuto 15,7 milioni di voti, e Prodi 13,1. Nel 2006 prese
ancora un milione di voti in più, ma Prodi fu ancora una volta più abile nei collegi uninominali.
C’anche chi ci vede giusto, Polito sul “Corriere”: “Berlusconi
ha avuto tutto per cambiare l’Italia: consenso, successo, forza, soldi, potere; e non ce l’ha
fatta”.
Ma è il solo?
Manca Montanelli, in questo affollatissimo compianto.
Quando fu cacciato dal “Corriere della sera”, quando Berlusconi gli pagò il giornale, e quando
fece una guerra spietata a Berlusconi, e lo ripresero al “Corriere”. Da vero opportunista – l’arcitaliano
di Maccari e Malaparte è Montanelli, che c’entra Berlusconi, niente “trasformismi” con lui.
Travaglio ha schierato 25 tra redattori e vignettisti per
deridere il morto. Sotto un titolo che lo definisce tutto: “La Repubblica del banana”. “Bananas”
era la rubrica anti-Berlusconi per la quale l’anticomunista Travaglio è stato chiamato all’“Unità”
nel 2001. Che già allora, dunque, non era il giornale di Berlinguer? O basta l’odio?
Una
scrittrice scomparsa dagli scaffali, che pure ha tanto da dire. Qui conversa di
tutto un po’, della scrittura, gli uomini, l’alcol, la madre, i luoghi, le
lettere, il grande ultimo amore per Yann Lemée, da lei ribattezzato Andréa. Con
numerosi ritorni sui propri romanzi, con indicazioni di lettura, presupposti,
interpretazioni.
I
paradossi non mancano: “Sono gli uomini che ho ingannato di più quelli che più
ho amato” – Duras si vuole sempre trasgressiva. Ma anche onesta, molti sono i
malumori. Oltre che contro l’alcol, nemico ritornante, contro Parigi, e a
favore. Contro l’età. Contro la madre – e a favore, un’ossessione in età
matura. Contro l’uomo. Contro la donna, che si banalizza. Materiali come vengono,
d’impulso, benché rivisti e corretti. Mai banali, Duras è una scrittrice che si
è sempre pensata. Forse per venire da fuori, l’Indocina della sua infanzia e
adolescenza era molto remota dalla Francia metropolitana, che ha dovuto
conquistare.
Confessioni
al registratore, nel 1986. Con Jérôme Beaujour, critico cinematografico
reputato specialista della filmografia della stessa Duras, nonché autore delle
interviste di lancio dei film di lei A
una registrazione ha partecipato pure Maurizio Ferrara, amico di Duras degli
anni quando fu espulsa per indegnità – sposata, aveva un amante – dal partito
Comunista. Duras avrebbe vissuto ancora dieci anni, pubblicando poco,
“Scrivere” e “Yann Andréa Steiner” in
memoriam.
Una
auto-intervista a briglia sciolta soprattutto di ripensamenti di sé, di quello
che avrebbe voluto e non ha saputo essere. “Una vita vissuta come un passaggio
del tempo” si dice a proposito della sua voglia di mare, e dell’incapacità di
goderselo, sia pure per una sola estate – della vita come un passaggio del
tempo. Ma pur sempre molto pratica. Le sei pagine di Parigi quarant’anni fa
rimandano pari pari a Roma oggi. Ma di Parigi – della città – ha il segreto,
venendo da un periferia della periferia, da zone remote della remota Indocina:
“Vi si viene, si crede, per essere più vicini al sendso, a quello che si crede
di trovare in una capitale, che è fatto dell’essenziale di tutte le conoscenze,
dell’arte di cosruire, di scrivere, di dipingere, fino a quello della
politica”. Puntuta, a volte. A proposito di R. Barthes: “Ha dovuto essere
adulto subito dopo l’infanzia”, “dopo le ‘Mitologie'” si è perduto. A proposito
del teatro delle donne: “Dal 1900 non un solo testo di donna è stato
rappresentato alla Comédie Française, o da Vilar al T.N.P. né all’Oéon, né a
Villeurbanne, né alla Schaubühne, né al Piccolo Teatro di Strehler, di un
autore donna o di un regista donna” – fino a che non sonoa arrivate lei e
Sarraute, anni 1960. Da virago
spesso: “Gli uomini sono omosessuali”, a danno delle donne. Molto dice come di
un disattamento, da alcolista cronica a partire dai 41 anni. L’uomo è donna, la
donna è uomo, etc.. Di un femminismo anti-femminista: “Non è cambiato nulla con
la donna prima della classe” – “scrivo delle donne per scrivere di me”.
Molto
è un ritorno ai suoi racconti. “Il libro” è “la storia di due persone che si amano”,
ma di un amore “che si tiene nell’impossibilità di essere scritto”. I
personaggi di “India Song” sono
invece reali. “L’estate 80” è il mare, la vita che la scrittrice avrebbe voluto ma non ha
vissuto. Tutte le donne dei suoi romanzi sono una, “Lola V. Stein” . Di “L’Amante”, il racconto che l’ha
consacrata, dà la chiave autobiografica: di un’attrazione non spiegabile ma
irresistibile, che in qualche modo si giustifica ex post, col suicidio successivo di lui, del giovane amante cinese, quando
la storia è terminata. Di “Moderato cantabile” spiega che è stato scritto dopo
un anno di sesso folle, con l’uomo che l’avvia all’alcol (non nominato, è
Gérard Jarlot, giornalista), dal giorno della morte della madre. Dopodiché,
dopo l’anno di bevute, la cosa “diventa meno grave, una storia d’amore”. Di
Yann non finirebbe di parlare. Un colpo di fulmine, a settant’anni, uscita
dalla disintossicazione con la depressione, gli antidepressivi micidiali con
l’alcolismo, sincopi in serie, per tre giorni, l’ospedale di corsa. Crisi in
serie, visioni, deliri, anche assassini, per fortuna senza esito, la décheance, e poi Yann.
Un
lungo capitolo di visioni, aberrazioni, fantasmi, chiude il libro. È il tema
ritornante, i fantasmi dell’alcolismo. “Ho vissuto sola con l’alcol estati
intiere a Neauphle”. “Vivere con l’alcol è vivere con la morte a portata di
mano”. “A quarantun’anni ho incontrato qualcuno che che amava bere liberamente
l’alcol…. Molto presto l’ho sorpassato. È durata dieci anni. Fino alla cirrosi,
agli sbocchi di sangue. Mi sono fermata per dieci anni. Era la prima volta. Ho
ricominciato”.
Marguerite
Duras, La vita materiale,
Feltrinelli, pp. 160 pp.vv.
Giuseppe Leuzzi
Quando
il padre di Stanley Tucci, originario di Marzi, vicino Cosenza, da ragazzo
chiedeva alla madre, girellando per la cucina, “cosa c’è per cena?”, la madre
gli rispondeva: “Cazzi e patate”. L’aneddoto è ripreso da Tucci in apertura del
suo libro di memorie e ricette “Ci vuole gusto”. Subito dopo un colloquio nello
steso stile di lui a sei anni con la madre. Ed è verosimile, oltre che vero:
ogni conversazione, anche animosa, deve avere un sottofondo scherzoso – “zani”
in americano.
Un
giorno Nina Weksler, confinata in guerra a Ferramonti, va in paese. Al ritorno
annota: “Al confronto del paese calabrese,
Ferramonti mi sembra bello, ampio, pulito”. Il campo di concentramento è
meglio del paese calabrese, Tarsia. Tarsia come Eboli, luoghi-non luoghi. La
miseria si dimentica presto, tutta.
Il
campo di concentramento di Ferramonti, per gli “allogeni” nemici, ebrei per
esempio per essere russi, o jugoslavi per essere “comunisti”, era meglio del confine.
Dove si aveva una stanza per sé (una “casa”), un soldo, e la libertà, ma in
qualche paese sperduto – da Eboli in giù.
Se anche la mafia è
milanese
Nelle decine
di pagine dei quotidiani oggi su Berlusconi solo poche righe, a fondo pagina,
sono lasciate ai cronisti giudiziari, cui in miriadi di pagine il defunto ha
cosentito in trent’anni di illustrarsi. Non per questo si prendono meno
seriosamente, ma in poche righe si mostrano per quello che sono: maschere, di
un teatro grottesco.
Che si possa insistere ancora dopo morto, tra le tante
dichiarazioni di affetto, a dire Berlusconi un mafioso, anzi un capomafia si può
capire: si può tutto di tutti, impunemente se si è in un certo filone di giustizia,
come lo sono i giudiziari. Compresa l’accusa triplice di mafia: 1) Berlusconi
si è fatto i soldi riciclando quelli della mafia; 2) Berlusconi ha finanziato
la mafia con 200 milioni di lire l’anno - dopo essersi perduto con Craxi negli
agrumeti di Rosarno (che però è in Calabria e non in Sicilia) in cerca della
Cupola: 3) Nel 1993 ha ordinato le stragi di Firenze e Milano.
Che i già disprezzati cronisti giudiziari col tutto mafia
siano diventati Granfi Firme può dispiacere, ma c’è un rimedio – non comprare
il giornale. Che il Sud sia ostaggio di un paio di bestie di mafia, Cangemi, Brusca, Spatuzza, elevati a traggediaturi e “collaboratori di
giustizia”, e di una mezza dozzina di giudici che “mafia è meglio che
lavorare”, questa è la legge, e bisogna abbozzare – anche se sono giudici tutti
meridionali, quasi tutti siciliani, con una napoletana, e un pugliese. Ma dire
Berlusconi il Capo dei Capi, mettere la Sicilia e il Sud sotto le catene di
Milano anche nella mafia?
L’eredità è un linguaggio
Dopo Gay Talese (“Onora il padre”, “Ai figli dei figli”),
Styanley Tucci (La mia vita attraverso il cibo”): strano destino della Calabria,
di essere celebrata da letterati americanissimi, figli di emigranti, con
passione, e con acume filologico, anche con impegno di ricerca. Celebrata senza
le riserve d’obbligo. Celebrata per virtù che oggi si direbbero tradizionali, anzi
obsolete, e forse più vizi che virtù: la famiglia (la convivenza, la conversazione
incessante, i pasti in comune), l’amore per i figli, dei padri oltre che delle
madri, le grate memorie, la cucina.
Tucci fa, in
questo 2023, una celebrazione lieve e salda della famiglia, delle radici, e di
una cucina familiare, ancestrale, ripetitiva se si vuole, con garbo e
spigliatezza. Non il solito libro di ricette, ma il racconto delle ricette, e
dell’Italia, di ingredienti tutti italiani, quasi tutti. Un’operazione
nostalgica? Che però risulta di lettura avida. Per la sapienza narrativa,
evidentemente, ma pure per il gusto,
anch’esso familiare, tradizionale, dell’aneddoto. E, soprattutto, di un
linguaggio che, anche in inglese, privilegia l’aneddoto. E un linguaggio – i
lunghi dialoghi tra la madre e la nonna sua madre, i coloqui con zii e cgini al
apese dela madre – sempre pregno: semplice (diretto, indicativo), ma dalle
molteplici intonazioni, nel senso di una comunicazione\comprensione implicita,
quella che oggi si chiama empatia, le pause, gli anacoluti, le interrogative
retoriche o negative.
Un libro promozionale
ma non per soldi, emotivamente. Col “presepio”, e le “vigilie” di magro, benché
di tredici portate. Le “zeppule”, i”pitti fritti”, le friselle (il biscotto di
grano cotto due volte). Con i nonni, attivi anche se non impiccioni. Quelli
paterni del cosentino, lui di Marzi, uno dei vecchi Casali di Cosenza, lei di
Serra San Bruno (figlia di una Angela Albanese, una bisnonna a cui si tiene,
perché di origini arberëshe). Quelli materni di Cittanova, al centro della
grande selva di ulivi della piana di Gioia Tauro. La visita ai parenti della
madre a Cittanova, per la vacanza di Pasqua del 1974, quando la famiglia passò
un anno a Firenze, 1973-74, dove il padre si era preso un sabbatico per
lavorare all’Accademia di Belle Arti, è un racconto vivacissimo, di garbo e
scherzo: la ricerca dell’agnello al passo del Mercante, un pranzo che dura una
giornata, prozii e biscugini che non si conoscono ma si parlano.
La madre è, non
detta, al centro della narrazione, il suo segreto – un tributo non detto ma
insorgente a ogni piega: Joan Tropiano.
Laureata, occupata da segretaria, scrittrice, che non fa mancare ai figli un
pasto, a pranzo e a cena, e pubblica due libri di cucina di successo,
“Cucina&Famiglia”, e “The Tucci Cookbook”. Dove troneggia il “timpano”, o
timballo, che è la pasta al forno – di cui Tucci aveva già fatto nel 1986 il climax del suo film di culto sulla cucina, “Big
Night”, che si celebra insieme col classico “Babette’s Feast”: quello della
pasta al forno è “un grande pranzo” – anche se l’amata moglie americana di
Tucci, poi morta di tumore, e la seconda moglie inglese non lo gradiscono… Il
linguaggio sana tutto: di più conta il garbo, e l’ironia, lo scherzo.
Un
libro felice, perfino quando insorge un tumore alla gola, la fine per un
buongustaio. Molto calabrese. Il linguaggio sana tutto: di più cont ail garbo,
e l’ironia, scherzosa. Di un’altra Calabria, migliore fuori? L’understatement
sul tumore si sarebbe portati a dire molto calabrese. Ma “antico calabrese”. Ora
si è al contrario sepolti dai semplici disturbi, parenti, amici, conoscenti non
li risparmiano, l’emigrazione ha cambiato “i gusti” – il linguaggio, la riservatezza,
l’ironia bonaria.
Berlusconi e la Sicilia
Di “Berlusconi
mafioso” si trascura che fece l’en plein, una volta (o due?), al voto
politico, prendendosi tutti i sessanta e passa parlamentari che l’isola
eleggeva, deputati e senatori. Che di più facile, in un’isola che si vuole
mafiosa, che dire: Berlusconi ha preso i voti della mafia? Sarebbe stato un bel
romanzo, nelle mille pagine delle celebrazioni funebri. E invece niente,
nessuno lo ricorda.
Non se ne può
fare colpa ai cronisti giudiziari, che solo sanno di contatti occulti, numeri
segreti, e giudici sbirri. Ma non si ricorda nemmeno che alla Sicilia Berlusconi
voleva regalare il Ponte. Era una sua idea. È stata la sua fissa, si può dire
da sempre, anche prima della “discecsa in campo”. Non un Ponte vero, un
progetto, dei materiali, dei costruttori, ma l’idea del Ponte. Con comitati,
consulenze, concorsi di idee – Berlusconi era generoso con tutti, questo lo
dicono oggi tutti i giornali, perfino “Il Fatto Quotidiano”, che schiera ben 25 giornalisti e vignettisti anti-Berlusconi. Cioè, prendeva i
siciliani per siciliani.
Questo andava
detto. Non sarà qui il punto, che impedisce alla Sicilia di essere una
Lombardia - che cosa le manca? Mentre la Lombardia sa essere siciliana.
Sicilia
Un’agenzia di Messina organizza
un programma “Discover Sicily”, viaggi di siculoamericani nei luoghi di nascita
di nonni e bisnonni. Li traccia uno per uno, studiando l’anagrafe, partenze e
cancellazioni. Le radici possono essere un patrimonio.
“Una terra, la Siciia”, dice
Roberto Andò, “che predilige più l’implicito all’esplicito, l’enigma alla
soluzione”. Notazione che l’intervistatore, Gnoli, può esplicitare: “Si torna
al dire e al non dire. Alla reticenza”. Mentre invece la Sicilia reale è
parecchio chiacchierona, troppo.
Arturo Di Modica, scultore, Di
Modica solo di nome, nato a Vittoria, è famoso negli Stati Uniti, dove ha
realizzato anche il “Toro” simbolo di Wall Street – e un po’ anche a Shangai.
Negli Usa e in Cina viene peridocamente celebrato. Ma la Sicilia non lo sa. È
vero che che subito ai diciott’anni lasciò Vittoria, per Firenze.
A
Cazzullo che chiede di Dell’Utri – “è stato scritto che (Fedele) Confalonieri è
il lato bianco del berlusconisMo, e (Marcello) dell’Utri, condannato per mafia,
quello nero” - Galliani può rispondere: “A parte il fatto che il concorso
esterno esiste solo in Italia, Marcello è nato a Palermo, Confalonieri a Milano
e io a Monza. La cosa è tutta qui”.
I paesani di Sant’Agata li
Battiati (dei battezzati), 10 mila abitanti, sono i più ricchi della Sicilia e
del Sud, con un reddito medio annuo di 28.055 euro, al 152mo posto fra i Comuni in Italia. Subito
poi, a due o tre posizioni nella clasifica nazionale, viene San Gregorio di
Catania, con 28.019 euro a testa. Sono i resti di “Catania, la Milano del Sud”.
Yvette Pierpaoli, francese figlia
di emigrati eoliani, è solo ricordata da Le Carré nelle memorie, “Tiro al
piccione”. Dove rivela in lei il modello del suo romanzo “Il giardiniere
tenace”. E poi, dopo morta, l’ha ricodata sul settimanale “The Observer”.
Indomita imprenditrice sanitaria in Cambogia e altrove. Da ultimo volontaria umanitaria
in Kossovo, dove è morta, alla frontiera con l’Albania, in un incidente d’auto.
Marguerite Duras ricorda (“La vita
materiale”, § “La casa”), al termine di una lunga disquisizione per cui la
casa è donna, anche se è l’uomo a occuparsene, a proposito delle madri cuoche e
serve ansiose dei figli: “Con le Italiane, per esempio, in Sicilia, si vedono
donne di ottant’anni servire figli di sessanta. Le ho viste in Sicilia, di
queste donne”. Duras ne parlava nel 1985, di esperienze fuggitive degli anni
1950. Ma è sempre vero, seppure non solo in Sicilia.
leuzzi@antiit.eu
Antonio
Albanese, attore sessantenne, con una figlia trentenne esule volontaria in
Canada da quattro anni, un gabbiotto di casa a Ciampino, dove prova a dormire
tra un areo al decollo o all’atterraggio, e un treno che passa frastornante,
sopravvive col doppiaggio, mimando amplessi per film porno. Dimenticato il
debutto promettente, in un “Aspettando Godot”. Messo in scena col suo amico di
Accademia, ora Grande Teatrante, con “le mani in pasata” dappertutto.
I
giorni passano opachi, finché fra i progetti multiformi dell’amico Grande
Teatrante non fiorisce un corso per carcerati, alcune ore per tre mesi: pochi
soldi per lui, ma già un passo. Un’altra Cayenna. Che però prende la mano al
vecchio attore, risuscita antichi ardori, e proprio con Becket, col Godot,
mette su uno spettacolino che richiama mezza Italia. Per i carcerati è solo un
sotterfugio, anche se ne moltiplica per mille potenzialità e capacità. Per
Antonio una rinascita: la salvezza arriva attraverso il teatro, una
trasmutazione.
Il
film di Albanese e Milani è il rifacimento di un fim francese, “Un triomphe”, di
Emmanuel Courcol. Che a sua volta è la drammatizzazione di un documentario, “I
prigionieri di Beckett”, di Michka Saäl, sul lavoro svolto in carcere da un
attore svedese, Jan Jönson. Ma Albanese gli dà più intensità: non è un scherzo,
è il teatro taumaturgo.
Riccardo
Milani, Grazie, ragazzi, Sky Cinema
Usa in altro ambito – usava - il “Compianto del Cristo morto”, come prodromo alla Resurrezione,
salmodiandone le qualità, a prolungarne la vita. Non così per Berlusconi, lo si
celebra nella dimenticanza. Di fatti anche gravi di cui è stato – è - accusato.
Che non ha commesso. Da parte di molti giudici, e dell’opinione pubblica che si
vuole “liberal”. Fatti che dunque sono normali nella democrazia – nella democrazia
italiana. Che uno possa essere perseguitato da centinaia di giudici,
procuratori e giudicanti. Così, perché è antipatico. Anzi, nemeno antipatico, viste
le condoglianze che si moltiplicano sui siti, senza riserve, ma solo avversario
politico.
È normale che la Guardia di
Finanza concentri la sua attività su un solo uomo, e neanche evasore, una sola
azienda o attività. Che si insista dopo morto, sotto i compianti, a indagarlo
come mafioso, anzi Capo dei Capi, e autore di stragi – a imputarlo di fatto,
con anticipazioni, indiscrezioni, commenti. Che due presidenti della
Repubblica, Scalfaro e Napolitano, abbiano operato contro le loro competenze
per destituirlo dalla presidenza del consiglio.
L’Italia non si fa la
storia, ma i fatti sono macigni – i mondi “decadono” per molto meno. La democrazia non
è “compiuta”, ma per colpa di chi?
Un
romanzone anticlericale, stile Ottocento (manca la pedofilia).
Marco
Bellocchio, Rapito
“Rialzo
dei tassi: alle famiglie costa 2 miliardi, alle imprese 11” – Sole 24 Ore”. E chi
paga questi nuovi costi – che naturalmente vengono traslati? Una politica monetaria
per l’inflazione?
Vince la Champions il Manchester City, squadra di
miliardari arabi e perciò antipatica in partenza, con un solo tiro in porta. Ma
i commentatori, su Sky e Canale 5, hanno parole solo per i calciatori dello
sceicco. Acerbi, Dimarco, Barella, Darmian? No, De Bruyne De Bruyne, Diego
Silva Diego Silva, Grealish, Grealish. Provincialismo? Sono giornalisti e calciatori
in età, si sono formati quando si poteva scommettere solo in Inghilterra, e
quindi sanno (ancora) tutto e solo dei calciatori inglesi, tutti semidei. Molta
noia.
La finale di Champions League d’Istanbul era l’occasione
per il pubblico italiano di ammirare Haaland,
un centravanti che nel campionato inglese fa gola a decine, “un fenomeno”, “un
mostro”, etc. E non si è visto mai,
benché sia un mastodonte, di quasi due metri, e novanta chili, nei 100 minuti
di partita. È bastato mettergli accanto uno di pari stazza, un po’ meno, un po’
più atletico.
Ma ha anche ragione, oltre che fare ridere,
Enrico Dal Buono che sull’“Espresso”, a commento di una galleria di foto oltraggiose
di Oliviero Toscani del calcio dei tifosi, vede i calciatori come maestri del
tifoso sul simbolismo dei tatuaggi sul collo,
sulla “corretta applicazione del gel nei capelli”, e sull’uso dello smartphone –
e la playstation?
“L’invasione russa dell’Ucraina
ha alimentato una serie di reazioni contro il libero scambio che si sono venuto
armando da circa un decennio: alcune delle più grandi economie mondiali scelgono
di bloccare ulteriori integrazioni mondiali e, in molti casi, di adottare
politiche commerciali protezioniste o nazionaliste”, Imf
“Finance &Development” di giugno. A che fine? “Una possibilità è che la deglobalizzazione
si fermi entro questi limiti. Ma un’altra possibilità è una nuova guerra
fredda, questa volta tra gli Stati Uniti e la Cina e i loro rispettivi alleati,
il mondo si frammenta in campi rivali”. Semplice.
L’ennesimo «campionato giudiziario» che ha riguardato
il calcio ed in particolare la Juve”, riflette sull’“Espresso” il giurista Fimmanò,
esperto di diritto commerciale, “ha tenuto fuori ancora una volta l’unica componente
del sistema che qualsiasi cosa accada è sempre più potente e
deresponsabilizzata. È abbastanza ovvio che non possono prodursi plusvalenze
fittizie, o realizzarsi strane manovre sugli stipendi, senza che le stesse
vengano condivise dagli agenti o congegnate con loro”. Gli “agenti”, tutti
ospiti apprezzati (danarosi) dei paradisi fiscali, dividono bene le provvigioni?
Currò sintetizza su “la Repubblica” la stagione di
Lautaro Martinez – prima dell’ultima partita: “71 partite giocate, 54 delle
quali senza pausa, 5.164 minuti in campo, 72 minuti di media a partita, 61.710
chilometri di viaggi per 84 ore di trasferte internazionali”. Un atleta? Cosa è
il calcio?
L’Italia ha il record delle automobili per abitante.
Ne ha il 20 per cento in più degli inglesi, dei francesi e degli spagnoli, e il
10 per cento in più della Germania, grande fabbricante di automobili. E un traffico
ferroviario e aereo molto più basso. In Italia è pubblica, la si vuole pubblica,
l’industria, anche dove non ce ne sarebbe bisogno. Ma non i servizi,
evidentemente sempre insufficienti, come i trasporti pubblici.
“Abbaiano, sporcano, perdono il pelo, odorano”, cioè
puzzano, “hanno bisogno di uscire, accuditi, più volte al giorno, fanno danni
in casa, vanno curati, mangiano cibi dedicati, costano un bel po’ di soldi”. Singolare
anamnesi del cane in casa (“così li salveremo dai padroni inadatti”) sull’“Espresso”.
Tutto pur di non fare un figlio? Cinque milioni
di bambini 1-9 anni, contro 9 milioni di cani, da accudire per dodici-quindici
anni.
Una
celebrazione ennesima di Raffaello, nella villa di Agostino Chigi che lo ricorda
in ogni angolo. Di due personalità accomunate nella vita e nella morte – sopravvenuta
a cinque giorni di distanza l’uno dall’altro, nell’aprile del 1520. Amore e
Psiche, le fatiche di Ercole, le “teste” andate disperse: “Le collezioni di
statue che arredavano la residenza di Agostino hanno offerto modelli e stimolo
all’invenzione delle storie dipinte dai suoi artisti, e in particolare per
Raffaello, la cui svolta classicista è già compiuta nel 1514”. Una celebrazione
anche, o soprattutto, del banchiere “Chisio”, che i curatori vogliono “l’altro
Magnifico”.
Di
Raffaello si ricostruiscono possibili, anzi probabili, influenze di modelli greci,
scultorei, emersi ai suoi anni oppure in mostra a Roma. La novità è il personaggio
Agostino Chigi, che la mostra per la
prima volta mette in luce. Giovane curioso a Roma, poi banchiere abile, propositivo
e non impositivo, che seppe meritarsi la fiducia di papi molti diversi, dal
Borgia Alessandro IV a Leone X Medici. Di cui finanziò le cerimonie di
incoronazione, e che lo volle sposato, dopo un convivenza lunga quattro figli –
sfumata la possibilità di nobilitarsi per matrimonio con Margherita Gonzaga (“La
Fornarina” degli Uffizi, a giudizio dei curatori, che la titolazione vogliono erronea),
che lo rifiutò. Senza rimetterci (anche se alla sua morte i creditori
disintegrarono il suo notevolissimo patrimonio) e anzi guadagnandosene i favori
- fino all’“adozione” da parte di Giulio II nella sua famiglia, per nobililarlo.
E i privilegi, il più importante (e ricco) il monopolio dell’allume che si
cominciava a produrre sui monti della Tolfa – il borgo di Allumiere lo ricorda.
Una
larga parte della mostra espone volumi fatti stampare da Chigi, o edizioni a lui
coeve, dei classici, Teocrito, Pindaro, Ovidio, Apuleio, fonti delle storie
dipinte nella grande loggia e nelle sale della villa. E parte della grande collezione
con cui “il Magnifico” ornava il suo gabinetto di lavoro, di gemme, camei,
medaglie.
Una
sede sempre eccezionale, per il luogo, tra l’Orto botanico e il fiume, le architetture,
i giardini, ma limitata alla fruizione, due o tre panche fuori della villa. Una
mostra curata, a rileggere tutto, che si vede come abborracciata - troppo buio
nelle sale, molto più di quanto necessario per proteggere le cinquecentine. Un
biglietto caro, e un brochure solo
online.
Raffaello e
l’Antico, nella villa di Agostino Chigi, Roma, Villa Farnesina