sabato 15 luglio 2023
La sindrome Fini, o della destra impresentabile
È curioso vedere come le destre al governo, pur non avendo praticamente opposizione, e pur sapendo che gli scandali sono politici (quanti non ne hanno praticato loro, con manette e sarcasmi?), stiano sempre in guardia e sulla difensiva. Sempre dietro il panno rosso che “la Repubblica”, ora un po’ supplita da “Il Fatto quotidiano”, gli agita ogni giorno sotto il naso – non grandi cose: il Pnrr (il Pnrr?), il salario minimo che nessuno vuole, la riforma della giustizia che tutti vogliono, le intemperanze di Larussa, i debiti di Santanché. Sempre in affanno. E sempre a caccia di un’intervistina con la stessa “la Repubblica”, anche se pochi ormai la leggono – erano le destre il maggior numero di lettori del quotidiano al tempo di Scalfari.
Kennedy non deve morire – il Grande Complotto americano
Un
gruppo di uomini ex – più o meno: demansionati – della Cia dopo la fallita
invasione di Cuba nel 1962 vuole rifarsi con un fallito attentato a Kennedy, a
Miami, capitale dei cubani negli Usa, da poter imputare a Castro, per dare poi
una “vera lezione ai comunisti”. Cioè per invadere Cuba e cacciare Castro,
senza i tentennamenti (“tradimenti”) dello stesso Kennedy. Per questo occorre “un
cecchino con le credenziali”, capace di colpire il marciapiedi, la scorta, la berlina presidenziale
che procede a passo d’uomo, ma evitando il presidente. E che sia
stato comunista, e quindi da labellare castrista: Lee Oswald.
Una
storia vera, una delle più verosimili dell’attentato a Kennedy. Andato poi
male. “Noi non colpiremo Kennedy, noi lo mancheremo”, è la chiave del piano,
architettato da Walter “Wim” Everett, Cia in disgrazia. L’attentato a Kennedy come “un colpo al cuore del nostro governo”, tale da costringerlo ad annientare
Cuba. Sarà la “soluzione elegante” che gli scienziati vogliono ai problemi per
dirli risolti. Tale da costringere lo stesso Kennedy, cui i
congiurati imputano il fallimento della Baia dei Porci – il luogo di Cuba dove
gli anticastristi, e gli americani di supporto, furono annientati o fatti
prigionieri.
La
prima delle tre storie canoniche sull’attentato, pubblicata nel 1988. Più verosimile delle
altre due, “Un caso ancora aperto” (“The Story that won’t go Away”), il film di
Oliver Stone, 1991, e “American Tabloid” di James Ellroy, 1995. Il più
persuasivo e il meglio articolato, meglio caratterizzato oltre che documentato –
con testimonianze, si suppone, documentali, legali, mediatiche, ricordi,
incidenti, manie. Un po’ di tutti i personaggi, ma specialmente di Lee Oswald, seguito
passo passo - questa è la sua unica forse, comunque migliore, biografia. Anche di
Everett, il filo conduttore della storia, lo spessore è notevole. E di molte
spie storiche, spesso doppiogiochiste, anche triplogiochiste. Per la notazione,
anch’essa a inizio racconto, sulla triste arte dello spionaggio: “È così che
andremo a finire, pensò”, pensa Everett, spia e golpista, “a spiare noi
stessi”.
Sappiamo
dall’inizio la trama. E sappiamo dalla cronaca come è finita male. Non è quindi
un thriller. Eppure si fa leggere,
scorrevolissimo, e tutto quanto è fitto, senza saltare: scene, dialoghi,
antefatti, e documenti, dichiarazioni, testimonianze. Anche se un indice dei personaggi,
essendo la narrazione frammentata nei tempi e nelle vicende, avrebbe aiutato –
chi è chi. Come pure qualche nota esplicativa – sull’U-2 per esempio, sul quale
si esercita e nasce la particolare “intelligenza” di Lee Oswald, e il suo
rilievo per i servizi segreti, russi e quindi americani.
Il
romanzo procede per più rivoli, ma è, si vuole, la storia di un fatto preciso,
l’attentato a Kennedy, finito col suo assassinio. Non si vuole un romanzo
storico, corale, di una società e un’epoca. Sotto questo aspetto è solo un
racconto dell’oscenità dello spionaggio, del “mondo della Cia”, specie in quegli
anni. E tuttavia, pur essendo un racconto circostanziato, di un fatto preciso,
senza elucubrazioni sociologiche o sociopolitiche, è un romanzo della storia
come complotto, che pure dovrebbe contestare. C’è in America una complottomania,
vecchia ormai di mezzo secolo, dall’attentato a Kennedy, di cui ora si fa colpa
alla destra reazionaria, ma che nasce a sinistra, come qui con Delillo (al tempo del film su Kennedy anche Stone era a sinistra) - senza peraltro mai incidere,
perlomeno riflettere, sui veri crimini
americani. A differenza per esempio che in Italia, dove a partire da piazza
Fontana, sei anni dopo Kennedy, la storia si è sicuramente annebbiata, ma pure
molti punti oscuri si è riusciti a chiarire, e comunque la stagione dei
complotti, del terrorismo invasivo, di destra, di sinistra, di Stato, è durato
una dozzina d’anni, una parentesi, non un modo di pensare e forse di essere - o senza forse.
Don
Delillo, Libra, “Corriere della
sera”, p. 429 € 8,90
venerdì 14 luglio 2023
Appalti, fisco, abusi (230)
Quattro chiamate la mattina,
tra fisso e cellulare, e quattro chiamate il pomeriggio. Da numeri semrpe
diversi. Che il cellulare per fortuna sgama, ma il fisso no. Senza rimedio. Il
Garante della Privacy, che pure costa una ventina di milioni l’anno, che ci sta
a fare?
Sotto tiro sono i numeri
dei titolari di contratti telefonici, luce e gas. C’è un mercato di questi
numeri? Si possono utilizzare a fini commerciali, impunemente?
Via Girolamo
Induno e largo Ascianghi a Roma sono non più di cento metri di strada urbana,
che connettono viale Trastevere con Porta Portese e i lungotevere. Sono chiusi
da sei mesi per ripavimentazione, senza che un solo colpo di piccone sia stato
dato. L’impresa riteneva di aver vinto l’appalto per la bitumazione, mentre i
regolamenti urbani danno ancora il tratto selciato a sampietrini. Controversia, chiarimenti, ma l’impresa
non ha tolto il blocco. Altri sei mesi minimo di chiusura, se la questione sarà
risolta. Con danno per due soli esercizi, due cinema, il Troisi e il Nuovo Sacher
(che tra l’altro dovrebbero stare a cuore all’amministrazione Pd), ma per i
mezzi pubblici sì: in alternativa fanno una deviazione di un paio di km., sia
all’andata che al ritorno, con gli ovvi inconvenienti (consumi, smog, traffico,
ritardi).
Il
governo patriottico Meloni dà a un fondo anglo-lussemburghese, Cvc Capital
Partners, il lucrativo business della
formazione in continuo della Pubblica
Amminstrazione. A tre università online, Pegaso, San Raffaele Roma e Mercatorum,
del gruppo Multiversity, del fondo Cvc, Un appalto molto ambito – molto lucrativo.
Il patriottismo online è cosmopolita?
Le
stesse università fanno man bassa dei Prin, gli assegni di ricerca del ministero
dell’Università: sedici nel 2022, per tre milioni. Non granché come prin, meno
di 200 mila euro a progetto – il vero prin è più consistente, e vuole la mobilitazione
di più centri di ricerca. Ma non sono da buttare.
Dandosi la guerra per vinta,
almeno sul piano dell’energia, sono tornati in bolletta gli odiosissimi oneri
di sistema e il trasporto. Due “tasse di scopo” senza scopo, a favore di Terna,
e degli imprenditori (facili) di pale eoliche - i pali della luce, per esempio
nella ricchissima Versilia, sono spesso ancora di legno, e qualche volta in mezzo
alla strada, con qualche filo penzoloni. Mentre non si sa quale “sistema” di energia pulita
stiamo finanziando. Due
tasse di scopo per finanziare due rendite.
La liberazione nell'armadio
Il
14 luglio usava celebrare la presa della Bastiglia. Il “Corriere della sera” lo
celebra on la serializzazione di “Armocromoe” e “Forme”, in collaborazione con
Yamamay, “due bestseller di Rossella Migliarino”. Che si presenta come “imprenditrice,
autrice ed esperta di immagine”, fondatrice dell’Italian Image Institute, per
consulenti d’immagine e professionisti del settore”.
La
liberazione dunque attraverso il corpo, l’immagine del corpo. A partire dall’abbigliamento,
dai colori con cui ci vestiamo. Applicata a Elly Schlein, la segretaria del Pd
che questa pratica ha imposto su “Vogue”, sembrerebbe contropducente -
ancorché, forse, veritiera (presentarsi, propagandarsi, in grigio?). E duqnue
bisogna crederci, la rivoluzione è fede.
Armocromia
la Crusca registra come armonizzazione dei colori. A partire dal 2011, da un
Neve Cosmesi Forum, in cui qualcuno affermava che è “sfruttatissima nello star
system hollywoodiano, sin dai tempi dei primi film a colori”. E con “altro
significato” nel 2000, in un articolo estivo sulla “Stampa”, Sezione Costume,
il 29 luglio, a firma Antonella Amapane, “Erotismo a tavola, l’estate è
servita”: “Potenza del colore. Ovvero armocromia, rìti del nuovo millennio che
molti applicano maniacalmente, nel guardaroba scegliendo i colori degli abiti
in base alla loro influenza sul(la) propria psiche e su quella degli altri”.
Oggi più ambiziosa: “I colori e la loro armonia sono da sempre un componente essenziale
dell’arte, della bellezza e della stessa quotidianità”. Obiezioni?
Rossella
Migliaccio, Armocromia e Forme, Corriere della sera, pp. 70,
gratuito col quotidiano
giovedì 13 luglio 2023
Il mondo com'è (464)
astolfo
Elisa
Chimenti – Una signora di Napoli, dove nacque nel 1883, la
prima di quattro sorelle, che visse in Marocco una vita, a Tangeri, fino al
1969, dove scrisse molto e aprì una cuola italiana, la prima in Africa. Riscoperta
recentemente, il 5 aprile, da Natascia Festa sul “Corriere della sera-Corriere
del Mezzogiorno” l’edizione napoletana. Poliglotta, scrisse però in francese, e
per questo forse è stata dimenticata – non una menzione alla morte, pur in
epoca molto attenta alla cultura, e a Tangeri. Era anche stata nominata
Cavaliere al Merito dal presidente Gronchi con decreto 30 maggio 1957. E nel
Palazzo delle Istituzioni Italiane a Tangeri, che tuttora esiste, una sala le
era stata dedicata in vita, “Elisa Chimenti”. Che tuttora ospita una Fondation
Méditerranéenne Elisa Chimenti.
Il padre medico,
Rosario Ruben, garibaldino, si era stabilito con la famiglia a Tunisi quando
Elisa aveva un anno. Ultima di sei figli, un fratello e un fratellastro di nome
Roberto, e tre sorelle, Mara Ester, Mara Giulia e Mara Dina. Alcuni anni dopo la
famiglia si sposta a Tangeri, in Marocco. Qui il padre si lega alle origini ebraiche, e fa
educare Elisa alla Alliance israélite della città. Dove l’insegnamento è tenuto
in francese, in arabo e in ebraico. Elisa cresce così cosmopolita e poliglotta –
si vuole che conoscesse e parlasse speditamente ben quindici lingue, di cui
buona parte dialetti araco-berberi, oltre a francese, tedesco, spagnolo, portoghese
(non l’inglese). Col padre, medico di corte del sultano del Marocco, Muley
Hassan I, frequenta la miglior società marocchina, ma anche le tribù berbere
dell’Atlante, della Montagna: segue il padre nelle visite periodiche tra le
popolazioni più povere, come interprete e per l’auscultazione delle donne.
Una vita divenuta più romanzesca alla morte del
padre, nel 1907. Elisa è mandata a proseguire gli studi in Germania, a Lipsia.
Qui pubblica i suoi due primi romanzi, “Meine Lieder” nel 1911 e “Taitouma” nel
1913. Nel 1912 si è anche sposata, con un conte polacco naturalizzato tedesco, Fritz
Dombrowskij, ma il matrimonio finisce presto: il conte ha crisi di follia e
tenta anche di strangolarla - successivamente si legherà a Si Ahmed Fekhardji, algerino,
interprete di corte, senza sposarlo. Nel
1914 è di nuovo a Tangeri, dove fonda con la madre una scuola italiana.
Multiculturale e multireligiosa. Finanziata dal 1924 dal governo italiano, da
Mussolini. Che però successivamente impone un suo direttore. Elisa resiste, e resiste
anche alle pressioni per prendere la tessera del fascio. Nel 1928 è licenziata,
Riprenderà la direzione della scuola alla caduta del fascismo, nel 1943. Chiederà
allo Stato italiano e otterrà un risarcimento per la “nazionalizzazione” della
scuola negli anni di Mussolini, per la somma di 30 mila franchi francesi – che però
non verrà mai pagata. Vivrà di giornalismo e di scrittura, soprattutto di cose
marocchine, storiche o etniche. È morta, a Tangeri, il 7 settembre 1969.
Mara Pia Tamburlini, udinese, insegnante all’estero,
anche a Tangeri, e cura l’archivio di Elisa Chimenti, per l’“Enciclopedia delle donne” ne fa un ritratto
lusinghiero, di “scrittrice eclettica e feconda, imprenditrice ante litteram,
antropologa, ecologa, poliglotta, studiosa delle differenti culture e credenze
presenti nel nord del Marocco – cristiana, musulmana, ebraica, animista”. Un
solo suo romanzo,”Al cuore dell’harem”, risulta tradotto, nel 2000.
Sacagaweha – Una squaw Shoshona, “moglie “ di un trapper franco-canadese, un cacciatore
di animali da pelliccia, si può dire la scopritrice dell’America, del wild West.
La
via verso il West fu aperta negli Stati Uniti nel 1804, dopo l’acquisto della
Louisiana dalla Francia, dalla spedizoione (Meriwether) Lewis e (William)
Clark. Che non conoscevano i luoghi verso cui si indirizzavano né le lingue
delle tribù che andavano a incontrare, lungo il Missouri e attraverso le
Montagne Rocciose, gli Shoshona, gli Hidatsa, i Mandan. Si appoggiarono quindi
a un avventuriero francese di nome Larocque. Dal quale però presto ricevettero
richieste eccessive. Assunsero allora come guida-interprete un aiuto di Larocque, Toussaint Charbonneau,
un francese del Québec, trafficante in pelli di discendenza mista, francese e
irochese, che aveva anche il pregio di due mogli, Otter Woman e Sacagaweha,
“donna uccello” – entrambe donne Shoshona, prese prigioniere dagli Hidatsa, in
una incursione contro gli Shoshona. “Mogli” incontrate o rapite nell’odierna Washburn, in North Dakota. Lo
assunsero in qualità di interprete. Charbonneau aveva lavorato per altre
spedizioni, ma era nota solo la brutalità: mentre lavorava per la North West
Company come trapper, venne registrato
nei diari della compagnia per essere stato accoltellato da una donna Saulteaux,
di cui aveva stuprato la figlia.
Presto anche Charbonneau decadde nelle
grazie di Lewis e Calrk, classificato come “un uomo di nessun merito”.
Litigioso anche con le “mogli”, tanto che dovette essere rimproverato ufficialmente
dopo un diverbio con Sakagawea. Delle due donne indiane Sakagawea divenne di
fatto la vera interprete, e anzi la direttrice della spedizione: conosceva molti
luoghi e molte persone, sapeva muoversi ta la varie lingue tribali. Salvò carte
e documenti dal rovesciamento di una baca male manovrata da Charbonneau. Salvò
molte situazioni tese con le tribù che incontravano. Alla fine della spedizione
cedette la sua cintura di “grani blu” (turchesi) n cambio di una invidiatissima
pelliccia di foca che la spedizione volle portare indietro come regalo per il
presidente Jefferson.
Una donna oggi centrale negli studi
storici, misconosciuta fino a recente. Sempre riferita da Clark nei diari come “moglie
di Charbonneaux”, “donna indiana” o “squar” (non squaw). Il rapporto era ufficialmente mantenuto con Charbonneaux. Che
risulta pagato al termine della spedizione, nell’agosto 1806, dopo19 mesi, 500
dollari, più un cavallo e un alloggio. Ma nei diari dello stesso Clark, durante
la spedizione e dopo, non c’è che lei. Ora accreditata dagli storici della parte
migliore del lavoro della spedizione, un percorso di migliaia di miglia, dal
Nord Dakota al Pacifico: era il cardine dei contatti con i nativi americani,
risultò l’unico membro della spedizione in grado di spiegare tutti i fatti naturali,
vegetazione, fauna, ambienti, che incontravano, i passaggi da lei individuati e utilizzati per
attraversare le Montagne Rocciose sono quelli rimasti poi in uso. È una delle personalità più
onorate, con statuee e monumenti di ogni tipo dalla National Americam Woman
Suffrage Association.
Fratelli Vivaldi
– Ugolino e Vadino (Guido) Vivaldi, genovesi, navigatori, sono ricordati da
Fabio Genovesi in “Oro puro”, il romanzo della scoperta dell’America, come
precursori di Cristoforo Colombo. Della teoria che navigando verso Occidente si
raggiungesse l’Estremo Oriente, l’India e il Cathay, la Cina, con le loro
ricchezze. E della pratica: i due fratelli si avventurarono oltre “le colonne
d’Ercole”, e se ne persero la traccia.
Precursori
già due secoli prima, perché partirono nel 1291. Partirono con due galee,
“Allegranza” e “Sant’Antonio”. Finanziati da mercanti e patrizi genovesi, tra
essi un Doria, Tedisio. Una spedizione, come da contratto, “ad partes Indiae per
mare oceanum”. Con l’intento però non di arrivare in Oriente navigando verso
Ovest ma di arrivarci circumnavigando l’Africa - la rotta che seguitranno
Bartolomeo Diaz e Vasco da Gama due secoli dopo. Sono dati per dispersi nelle
cronache successive, dopo capo Juby,
dove oggi finisce il Marocco, al confine con la Mauritania. La loro fine,
personale e della spedizione, è controversa. Una delle spedizioni organizzate
per la ricerca, quella di Lanzerotto Malucello una ventina d’anni dopo, accertò
che le galee avevano toccato le Canarie, e poi proseguito, fino alla foce del
fiume Gambia (Senegal). Dove una delle due galee fece naufragio.La missione
proseguì, nel racconto dei nativi, caricando equipaggio e viveri sull’altra
galea. Nel 1455 Antoniotto Usodimare, anche lui genovese, scriveva di avere
incontrato nei pressi del Gambia “un giovane della nostra stirpe”, che capiva e
parlava genovese, qualificandosi discendente dai superstiti della spedizione
Vivandi.
Franco
Prosperi, regista cinematografico di documentari naturalistici, ideatore con
Gualtiero Jacopetti del cinema detto Mondo
movie, di formazione zoologo (ittiologo) ed etnologo, animatore di molte
spedizioni etnologiche della Società Geografica Italiana, in una di queste, nel
1950, trovò e fotografò, incisa su una roccia lungo il corso dello Zambesi, al
confine con la Rhodesia-Zimbabwe, in un tratto poi sommerso con la costruzione
della diga di Kariba, la scritta “V.V. ad 1294”, che dedusse essere di Vadino
Vivaldi.
Il
progetto dei Vivaldi rientrava nella ricerca di una via commerciale verso
l’Oriente dopo l’interruzione della via terrestre, con la caduta di San
Giovanni d’Acri e delle altre piazzeforti cristiane nel Levante.
astolfo@antiit.eu
L’amore tra fiaba e tragedia
Una fiaba, la figlia del castellano innamorata del
figlio del mugnaio, in abiti moderni. Con tanta natura, in ambito urbano. La
“ricetta” di Hamsun, delle sue prose semplici ma suggestive. Il racconto di un
amore, che di più scontato, per quanto contrastato? Ma sempre sorprendente – un racconto
“sull’amore”, avverte in nota Luca Taglianetti, che lo ha recuperato e ne ha
curato la traduzione, ma senza filosofie. Un racconto degli attimi fatali,
delle sliding doors in continuo, delle
parole che tradiscono gli umori, e viceversa. Tra le stagioni, le erbe, i fiori,
i colori, gli odori, gli alberi, ilmare, il postale, i laghi. E la città,
quando proprio ci dev’essere, in sottofondo, in sordina.
“Un unico canto ininterrotto alla gioia, alla
felicità”, si dice il figlio del mugnaio poi diventato scrittore, di successo,
nell’ultimo suo libro. Peccato che il risvolto sminuisca la sorpresa della
lettura, anticipando il finale.
Victoria, il nome che aveva dato alla castellana,
Hamsun chiamerà tre anni dopo la sua unica figlia. Peccato maggiore è che “l’infausta
adesione al nazismo in vecchiaia”, come avverte l’editore, faccia velo alla
lettura di questo sempre sorprendente scrittore.
Knut Hamsun, Victoria,
Lindau, pp. 128 € 13
mercoledì 12 luglio 2023
Problemi di base amorosi - 756
spock
“Già, che cos’è l’amore? Un vento che
sussurra tra le rose”, K. Hamsun, “Victoria”?
“No, una gialla fosforescenza nel
sangue”, id.?
“Una musica infernale che fa danzare
persino il cuore dei vecchi”, id.?
“La margherita che si apre tuta al giungere
della notte, l’anemone che si chiude a un soffio e muore se solo sfiorato”,
id.?
“È una notte d’estate con in cielo stelle
e profumi sulla terra”?, id.?
spock@antiit.eu
Il Mozart nero
La
vita e le opere di Joseph Boulogne Chvalier de Saint-Georges, figlio naturale
di un piantatore francese della Guadalupe e della schiava senegalese Nanon. Compositore e violinista in Francia
negli anni di Maria Antonietta e Luigi XVI. Un film alla Milos Forman, “Amadeus”,
con personaggi sempre su di tono, e colonna musicale vertiginosa, in un Settecento senza pregiudizi.
Si
ricompone la storia. Dopo il memorialista nero, sempre del Settecento, Olaudah
Equiano, il “Mozart nero”. Che però non fu un fiore unico: negli stessi anni
operavano l’afrobritannico George Augustus Polgreen Bridgetower, dedicatario della
“Sonata a Kreutzer” di Beethoven, e il poeta e attivista, oltre che compositore,
Ignatius Sancho, anch’egli afro-britannico.
Stephen
Williams, Chevalier, streaming Disney +
martedì 11 luglio 2023
Secondi pensieri - 518
zeulig
Corpo
-
Il grande rimosso del pensiero “occidentale” – in questo caso aggettivazione
appropriata. Si dice partito da Cartesio.
Il dualismo corpo-anima, in realtà l’uomo animale nel senso
unicamente dell’anima, è ben anteriore. Di Platone e non solo. Della coscienza o
anima come distinta dal corpo, di altra natura. Che Cartesio invece voleva localizzata
nel corpo, nella ghiandola pineale, un punto esatto alla base del cervello.
Si dice anche cancellato dalla religione. Dalla religione
cristiana? Partendo da sant’Agostino. Ma allora dopo i padri della chiesa, che
invece ce l’avevano ben presente. E fino al contemporaneo san Girolamo -
contemporaneo di Agostino. Che comunque nelle “Confessioni” ne fa buon conto.
Fake
–
È l’ansia, lo spettro agitato della contemporaneità. Che si ripropone in
successione, pena una riflessione che potrebbe scacciarla (sanarla). Delle fake news un mese o un anno fa come ora
della AI o IA, intelligenza artificiale: un’ansia stagionale, di periodicità
sempre più breve.
Una delle tante espressioni del
bisogno di novità, di incostanza, d’irrealtà piuttosto che di “realtà” – e
quindi di “verità”, di stabilità, sicurezza.
Se ne parla, lo-la si propone, lol-a
si soffre, come se fosse una novità. La novità è la voglia (tentazione,
pretesa, sotto forma di paura) di ritenerla una novità. E di volerla abolire.
Della “verità” come opposta al fake.
Oggi è la normalità – e dunque non più fake? L’informazione è sempre stata
delicata, un esercizio sul filo del rasoio, dire la verità, non di parte, non
di questo o quel testimone, di questo o quel partecipante, protagonista, interessato oppure non. Il giornalismo è sempre
stato un fine tuning, un’opera di sorveglianza
e di bulino. Ora il campo è occupato dagli informatori e dallo storytelling – dal “ve la racconto meglio”,
e tanto più suasivo tanto più vero.
I social – facebook per primo – che dovevano socializzare
ci hanno resi più isolati. “Come la campagna per unire il mondo si è risolta in
un sondaggio individuale”, a fini commerciali, è tema già di qualche anno.
Fake news alla fine è
solo il vezzo o moda di portare a galla il limo, le stupidaggini, le insensatezze,
magari colorate, dando loro status di informazione o di formazione. Ci sono sempre
state, si chiamavano conversazioni da bar o da treno, solo che ora prendono status
di opinione pubblica. Cosa è cambiato allora? Il tentativo sciocco (perdente) dei
media, giornali e radio-tv, di restare a galla sulla rete evidenziandone ogni palpito.
Non avendo saputo, non cercando di sapere, come esorcizzarle.
Non
è neanche vero che ora le chiacchiere da bar fanno rete. Cioè, non la fanno
diversamente da come la facevano prima, con altri mezzi di comunicazione. Che i
black blok d’Europa si riuniscano a Genova attraverso la rete quello è un altro
fatto, di cui la rete è solo un canale, uno dei tanti. O che si organizzino
attraverso la rete rave party
con migliaia e decine di migliaia di partecipanti di mezza Europa. Questo è un
commercio, una forma di servizio commerciale. Si vive di fake news in quanto i media
se ne fanno eco e tramite. I media hanno status di informazione e formazione
dell’opinione pubblica: è attraverso i media che gli sciocchezzai fanno
ultimamene opinione – perlomeno in Occidente, nel mondo che conosciamo.
Le
chiacchiere da bar o da treno restavano al bar o al treno. In rete diventano mondiali,
galleggiano in una sorta di fluido osmotico universale. È internet, allora, la
rete, la minaccia? No, è l’esito di un modo di recepire la rete, magnificandone
i lati inconsistenti o oscuri: lasciate a se stesse le fake news rimarrebbero
isolate, al gruppo, anche di migliaia o di milioni di followers. Rilanciate e commentate, diventano parte del discorso –
dell’informazione, dell’opinione pubblica.
Fede
–
“Anche profonda, la fede non è mai intera. Bisogna sostenerla senza posa o,
almeno, impedirsi di rovinarla” – J. P. Sartre, “Le parole”, p. 161. Sartre si
riferiva probabilmente, benché evocando la fanciullezza, alla fede politica -
di cui a sessant’anni, l’età de “Le parole”, si riteneva peraltro vittima – non
avendo avuto un’educazione religiosa.
È incostante, va rinnovata. Nelle
dottrina cristiana la fede è “atto di fede”
Immagini – Sono il fondamento
e la sostanza della creatività (immaginazione, fantasia, inventiva). Artistica
come religiosa.
Questo è un legame che pone E. Jünger,
in avvio al tardo zibaldone di riflessioni che intitola “La forbice”: “Non può
darsi alcun culto senza immagini”. Sia pure, aggiunge, solo una pietra nel
deserto (allusione all’islam).
È un dato di fatto. E c’è una
persistenza del culto: “Davanti a una statua sottratta alle macerie sentiamo:
qui ha abitato un dio. Anche se non conosciamo il santuario, e nemmeno il suo nome, ne avvertiamo il senso nascosto,
che fu ignoto allo stesso artista. Vive nell’opera d’arte una fede, sopravvive a
tutti i dogmi”.
Vi si lega il “numinoso”, argomenta
Quirino Principe commentando Jünger, “che pone fuori gioco il divino, essendo
un mistero inattaccabile a qualsiasi fede e a qualsiasi rivelazione e reden zione”.
Numinoso non è il paganesimo?
Immortalità
–
Dovrebbe variare con la navigazione spaziale, argomenta Nabokov nel suo racconto
di fantascienza “Lance”: “Nel profondo della mente umana il concetto di di
morire è sinonimo a quello di lasciare la terra. Sfuggire alla gravità significa
trascendere la tomba (“grave” in
inglese, da cui l’accostamento a “gravity”, n.d.r.), e un uomo che si ritrovi
su un altro pianeta non ha in effetti mezzo di provare a se stesso che non è
morto – che il vecchio ingenuo mito non si è prodotto”. La morte sarebbe una
finzione, cerimoniale?
Progresso
–
Un misirizzi. Inaffondabile, in qualsiasi mare, per qualunque vento ostile –
oggi l’ambientalismo, ieri Heidegger, la capanna, il montanaro, il carro. Cos’altro
è il pensiero, la riflessione filmica, pensata e ripensata,
rivista, rifatta, cioè in progress?
Progresso – scientifico, tecnico,
etico, perfino logico - come processo di verità (tensione a), scoperta.
Storia
-
L’“archeopizza” di
Pompei chiuderà il dibattito su chi ha inventato la pizza? Sicuramente no – la
pizza, anche “archeo”, potrebbe essere cinese, perché no (per ora è
“americana”). La storia può inventarsi quello che vuole. La “carbonara” non l’hanno
inventata a Roma soldati americani durante la liberazione, notori buongustai? Diventa
così anche un piatto americano, senza danno per nessuno.
zeulig@antiit.eu
Ci fu una volta la scoperta dell’America
Un romanzo d’avventure, anche se di storie
conosciute – la scoperta dell’America. Di tipo picaro, anche se perbenista, di
buoni sentimenti sempre. C’è Lei, l’indigena, l’amore. La ricerca di un padre –
l’Ammiraglio, il Capitano, Cristoforo Colombo in persona. E l’oro – l’oro ci
deve essere, perché altrimenti l’impresa?
Nuno, padre ignoto, figlio e nipote di puttane da porto
di mare, ebreo, costretto all’esodo dai re cattolicissimi di Castiglia e
Aragona, finisce imbarcato, è di Palos, sulla “Santa Maria”, l’ammiraglia della
spedizione di Cristoforo Colombo. Mozzo sprovveduto, entra nelle simpatie della
ciurma per il buonsenso – il buon uso degli scandagli, l’occhio fine, il fiuto
dei venti. E del Capitano, che rallegra, e che aiuta a correggere la scrittura
incerta, fra italiano, portgoghese e castigliano. Tiene in sostanza il
diario di bordo, che è questo racconto.
Sarà Nuno a causare il naufragio della “Santa Maria”,
il giorno dopo Natale. Ma il Capitano lo vorrà sempre con sé. E poiché Nuno è
come il granchio di mare, che anche buttato nelle acque profonde sempre torna
al suo scoglio di terra, ci sarà anche il ritorno. Dopo aver raccontato, passo
dopo passo, le Canarie, Cuba, Hispaniola (Haiti), la scoperta del pepe, cose
simili.
Una storia veloce, la sceneggiatura dei resoconti
dello stesso Colombo. Con qualche imprecisione: Palos non è Andalusia? al
ritorno gli ebrei sono ancora lì, non erano stati espulsi? E un po’ di
bozzettismo toscano, “bimbo”, “grullo” - non molto, il q.b. dei nuovi narratori
tirrenici, Genovesi, Malvaldi, etc.
Il fortemarmino fumantino Genovesi si mette da
parte, per una sveltina. Anche in senso proprio, del volgare scopereccio: nei
sogni con Lei, “prima di pensare a come non venire, venivo. A spasmi così forti
che mi ha sorretto Lei”. Roba da young
adult, la vena narrativa alla Antonio Dikele Distefano che ingolosisce gli
editori da qualche anno? Consolante – quindi i ragazzi leggono, qualcosa
leggono.
Fabio Genovesi, Oro puro, Mondadori, pp. 439, ril., € 20
lunedì 10 luglio 2023
Letture - 525
letterautore
Adelphi
–
La casa editrice è una miniera, di inventori. Ogni poco una scoperta. Ora Di Stefano fa
la scoperta di Claudio Rugafiori, che “faceva” i libri con Morante e con
Calvino. E ha creato il marchietto. Dopo Luciano Foà. Dopo Calasso. Dopo Bazlen,
in memoriam.
Però fa piacere che personaggi
dell’editoria abbiano due pagine sul “Corriere della sera”, anche se non belli,
molto meglio di influencer, volti tv (?) e cantanti, che solitamente riempiono
il giornale: sanno di esotico.
Cimiteri
italiani –
Sartre li adora, in una pagina insistita di “Le parole” (74) sui morti in famiglia
e sui funerali. Perché danno un senso di continuità, della morte vivente: “Per
questo motivo ho sempre amato, amo tuttora i cimiteri italiani: la pietra vi è
tormentata, è tutto un uomo barocco, un medaglione vi si incrosta, inquadrando
il defunto, che richiama il defunto nel suo primo stato”.
Corneille
–
Sartre adulto (“Le parole”, 128) ne fa un ritratto cattivo, descrivendo la sua
decisione a dieci o dodici anni di diventare scrittore – di diventare scrittore
di successo, non più epico, “un Pardaillan invece di Corneille” (i Pardaillan
erano il ciclo di maggior successo dello scrittore di successi Zévaco): “Trasformai Corneille in Pardaillan;
conservò le gambe storte, il petto stretto e la faccia di quaresima, ma gli tolsi
l’avarizia e il gusto del guadagno”.
Cookies
–
Oggi una delle mille idiozie che la privacy fa pagare per non avere nessuna privacy - siamo seguiti e registrati fin
nel sonno, oltre che al bagno, per non dire in camera da letto - è termine culinario, per dolcetti. L’inutile
richiesta affligente di consensi a non si sa che cosa aprendo un qualsiasi sito
è già in “Lance”, il racconto “fantascientifico” di Nabokov, che non amava la
fantascienza e i gialli (“Lance” in realtà il è Lancillotto del “romanzo
medievale” franco-germanico, annota lo stesso Nabokov, che opportunamente nel
Novecento naviga tra le stelle), e ne concludeva la critica in questi termini:
“Sono come i dolcetti assortiti che differiscono l’uno dall’altro solo in forma e ombreggiatura, con
le quali i loro abili manipolatori irretiscono il consumatore goloso in un
folle mondo pavloviano, dove, senza sovrapprezzo, variazioni di semplici valori
visivi influenzano e gradualmente sostituiscono
il sapore”.
Manzoni
–
De Giovanni (“La Lettura” di ieri) lo vuole liberare, anche lui. Ma per un
motivo plausibile: “Se fossi Manzoni chiederei soltanto il piacere di essere
letto come romanziere. È qualcosa che ha a che fare con la tragica modalità con
cui la scuola propone la narrativa, che è come spiegare il sesso attraverso la
dissezione degli organi genitali, una cosa ributtante”.
Misteri
–
“I romanzi fanno paura ai misteri”, può titolare “La Lettura” una lunga
conversazione con i due giallisti principe, Lucarelli e De Giovanni. De Giovanni
fa un esempio: “Inventare una trama narrativa può aiutare, per esempio, a
capire cosa accadde a Ustica”. Se non che cosa accadde a Ustica è noto da subito
– cosa accadde veramente. Il dopo-Ustica pure. Il romanzo avrebbe potuto imbellire,
forse, le due vicende: impossibile rappresentarne la sordidezza, sono senza
respiro - mancherebbe la necessaria catarsi. I misteri sono irredimibili.
Otto-Novecento
–
Il secolo del teatro l’Ottocento, il secolo del cinema il Novecento Sartre
caratterizza in “Le parole”, ricordando la golosità sua e della madre per le immagini
in movimento, ogni pomeriggio in tutte le sale di Parigi, quando aveva sui
dieci anni: “I borghesi dell’ultimo secolo non hanno mai dimenticato la loro prima
serata a teatro e i loro scrittori si sono incaricati di ricordarne le circostanze”
– il sacro sipario si leva, gli spettatori si sentono a corte, “gli ori e le
porpore, i fuochi, i belletti, l’enfasi e gli artifici mettevano il sacro fin
nel crimine”. Negli intervalli, “spettacoli” di nobiltà e vanità. Poi stacco radicale: “Sfido i miei coetanei a dirmi la data del loro primo incontro col
cinema”. Spettacolo per tutti, al buio,
che “prefigurava la nostra barbarie”: “Entravamo alla cieca, in un secolo senza
tradizioni che doveva segnalarsi per le cattive maniere”, e la nuova arte, “il
cinema, l’arte plebea, prefigurava la nostra barbarie”.
Sartre, curiosamente, ha sempre provato
col teatro, che seguiva, commentava, frequentava, anche fuori scena, scriveva, e
mai col cinema – non si ricorda una sua critica, un soggetto, anche una sola
amicizia o frequentazione , mai un’attrice, fra le tante donne che ne
ingombravano la giornata. Era uno Ottocento?
Parodia
–
Ha funzione seria – seriosa – secondo il suo cultore e mistagogo Umberto Eco:
“Una delle prime e più nobili funzioni delle cose poco serie è di gettare un’ombra
di diffidenza sulle cose troppo serie- e tale è la funzione seria della
parodia” (“Nota all’edizione 1975” di “Diario minimo”, riproposta nella
riedizione corrente).
Pastiche – È la parodia
di una scrittura, uno stile – Proust ne era maestro (le parodie raccolse in “Pastiches et
Mélanges”, che tuttora sono saporite). Si attaglia al pastiche la nota di buon cuore che Eco dà alla parodia: “Non sempre
una parodia si esercita su un modello che considera negativo; sovente parodiare
un testo significa anche rendergli omaggio” (ib.).
Poetesse
–
Sorpresa, sono escluse dalla poesia del Novecento, dalle migliori antologie, di
Gianfranco Contini, Edoardo Sanguineti, Pier Vincenzo Mengaldo, Cesare Segre e Carlo
Ossola. Le più progressiste comunque, teoricamente non sessiste. Per gli
editori Rizzoli, Mondadori, due volte Einaudi (Sanguineti e Ossola-Segre).
Riso
–
Il riso è proprio dei pazzi, diceva Baudelaire – e Umberto Eco concorda: “il
riso è satanico, e dunque profondamente umano” (citaz. in esergo all’ “Elogio di
Franti”, in “Diario minimo”). Se è vero, aveva spiegato il poeta, “che il riso
umano è intimamente legato alla disgrazia di un’antica caduta, di una
degradazione fisica e morale”. Di cui trovava conferma a teatro: “Tutti i furfanti
da melodramma, maledetti, dannati, fatalmente segnati da un sogghigno che
arriva alle loro orecchie, rientrano nella ortodossia pura del riso”.
Sartre
–
Nella autoanalisi che si fa ne “Le parole”, 1965, si dice nato “segnato”.
Segnato dalla sconfitta del 1870, in una famiglia luterana di lingua tedesca
che scelse la Francia, col cumulo conseguente di un bisogno permanente di
giustificazione: “Se ho commesso, in un
secolo di ferro”, il Novecento, "la folle bevuta di prendere la vita per una
epopea, è che sono un nipotino della sconfitta”.
Solo
contro tutti –
L’eroe duro e puro è il sogno borghese per
Sartre memorialista dell’infanzia (“Le parole”, 113): “Uno contro tutti:
era la mia regola”, da scrittore imberbe a dieci anni: “Si cerchi la sorgente
di questa fantasticheria triste e grandiosa nell’individualismo borghese e
puritano del mio ambiente”. Ma, allora, di una borghesia prima della “borghesia”
otto-novecentesca. Anzi eterna, poiché il mito ne è pieno.
Traduzioni
–
Sono rischiose. Jumpha Lahiri non cura le edizioni americane dei suoi racconti
italiani, li fa tradurre da specialisti. Nabokov, invece, che traduce in
americano i racconti russi, “russi” anche quando li scrive direttamente in
americano, “Lolita” compresa, sembra sempre a rischio imbalsamazione: parole
rare, costruzioni inconsuete, perfino i nomi propri sembrano falsi. Lo studio a
più voci sulle sue traduzioni, a cura di Chiara Montini, specialista del “clan
Nabokov”, si intitola “Traduzioni
pericolose (Scritti 1941-1969”- già il saggio biografico sul “clan”, sulla moglie
Vera e il figlio Dmitri, Montini aveva costruito attorno alla ”traduzione”.
letterautore@antiit.eu
Libero il cuore nel mondo dell’apartheid
A Città del Capo, 1967, in pieno apartheid – “questo non è un mondo per donne
e gente di colore” – una donna bianca e un uomo di colore rendono possibile il primo
trapianto, di cuore, evento epocale. Il film mescola una storia vera col clima odierno,
in favore di una piena equiparazione, sessuale e razziale. Quindi po’ si
contraddice, volendo fare dell’odierno femminismo e antirazzismo in un anno e
un posto che invece coltivava il razzismo per legge, l’apartheid, e praticava, come ovunque altrove, la discriminazione
sessuale. Ma ne guadagna in vivacità, contraddicendo le attese del subcosncio,
del saputo, col miracolo finale: due personaggi giovani, dotati e coraggiosi,
contribuiranno alla prima pioneristica operazione al cuore.
Franziska Buch mescola una storia vera col clima odierno in favore della
piena equiparazione, di genere e razziale. La storia vera è di una collaboratrice
del dottor Barnard, il chirurgo che in Sudafrica, nel 1967, sperimentò e avviò
la tecnica dei trapianti di cuore. Una cardiochirurga tedesca, Lisa Scheel, qualificata
ma in subordine nella cerchia del cardiologo principe Theodor Kohlfeld, che all’ultimo
sgarbo reagisce emigrando in Sud Africa, per lavorare col rivale del tedesco Kohlfeld,
l’austriaco Barnard. Una storia d’amore con un giovane africano, e l’opposizione
ai divieti e le imposizioni dell’apartheid completano il racconto.
Franziska Buch, Miracolo a Città
del Capo, Canale 5, Mediaset Play
domenica 9 luglio 2023
Migrazioni come business
Si fanno molti complimenti oggi a
Carrara per lo sbarco dei migranti raccolti dalla Geo Barents di Medici senza
Frontiere. Vantando in particolare “nessuno scafista tra i migranti”, Cioè confermando
le accuse alle ong di “organizzare” il traffico dei migranti d’intesa con con i
trafficanti. Appuntamenti precisi, trasbordi sicuri, da natanti che non
naufragano, trafficanti impuniti, asilo sicuro - che fa bene al commercio.
Nella stessa giornata Chiara
Severgnini fa parlare su “La Lettura” Hervé “Baru” Barulea, “uno dei maestri
della bande dessinée, di scuola franco-belga,
cantore della vita – durissima – della classe operaia”. A partire dai nonni,
emigrati dalle Marche prima nel Sud della Francia per i lavori agricoli
stagionali, come oggi a Rosarno, poi in Lorena, dove “la nascente industria
siderurgica offriva loro un lavoro stabile”. Una vita durissma con le famiglie
a casa nelle Marche, perché i ricongiungimenti familiari non erano ammessi – “un
viaggio di tre giorni per vedere mogli e figli”.
L’emigarzione è sempee
stata dura. Una sfida, di gente forte, e anche una disgrazia. Ma semrpe opera
dei migranti, di loro iniziativa e a loro giudizio. È ora che invece si fa
contrabbando dei migranti. Anche con le “migliori intenzioni”. È un business, dei trafficanti e delle
ong.
Non si trova altro motivo alla durezza del governo inglese - devono tornare ai loro paesi di origine, con deportazione forzata in Africa nelle more delle espulsioni. Un governo peraltro di inglesi di prima generazione, figli di immigrati, ancorché legali. Che altrimenti sarebbe un governo fascista, a ben più giusto titolo, anche se i giornali italiani non ne parlano ( questione di logge?), del governo ungherese o di quello polacco.