spock
La follia è pura?
La storia è prevedibile?
I genitori di figlie hanno più
probabilità di divorziare di quelli con fili maschi?
Solo quando le figlie raggiungono la
pubertà?
“Meno ti conosci, meglio stai”, Emanuele
Trevi?
E la psicoanalisi?
Perché ci dovrebbe essere nell’universo, per quanto infinito,
qualcosa di simile all’umanità, o anche soltanto alla terra, a ventimila anni
luce?
spock@antiit.eu
I processi a Trump, sei finora,
sono scaglionati lungo la campagna elettorale.
Il processo civile contro la
Trump Organization comincia il 2 ottobre.
Il processo penale per
diffamazione avviato da Jean Carroll comincia il 15 gennaio.
La class action per un “pyramid
scheme”, o metodo Ponzi, o Madoff, il 29 gennaio.
Il processo hush money (“acquisto” di
testimoni) il 25 marzo.
La denncia per i documenti
segreti tenuti in casa il 20 maggio.
Resta da calendarizzare il
processo per i fatti del 6 genaio 2020.
I processi avrebbero prosciugato
la liquidità di cui Trump dispone, compresi i fondi elettorali per le primarie
repubblicane.
Giurista,
astronomo, filosofo, interlocutore e ispiratore di Platone, che a lui intitolò
un dialogo celebre, per di più pitagorico, dunque un discepolo di Pitagora che
ha scritto, ha scritto un trattato, ma poi, Timeo di Locri è mai esistito? La parte
migliore del volumetto è il lavoro della curatrice, Cinzia Campus: la sua introduzine
e le lunghe note di traduzione - il trattato è poca cosa nel libro, una ventina
di pagine (con al centro una lunga serie di numeri armonici), e poca cosa in sé.
Che
non sia esistito è ipotesi inesatta. C’è nel “Timeo” di Platone: “Timeo di Locri,
in Italia, città dalle ottime leggi, ove
non è secondo a nessuno né per sostanze, né per nascita, ha rivestito le più
alte cariche e le magistrature nella città, ed ha toccato, a parer mio, la vetta
di tutta la filosofia”, degno interlocutore di Socrate. Quale filosofia, questa?
Platone insiste: “Il più valente tra noi nell’astronomia, e quello che maggiore
impegno ha profuso nella conoscenza della natura del tutto”. Anzi, addirittura,
sarebbe Timeo e non Platone l’autore del “Timeo”, secondo una malignità di Diogene
Laerzio: Platone avrebbe derivato il suo “Timeo” da alcuni “libercoli” comprati
a caro prezzo, di Filolao e di tre autori pitagorici (che Diogene Laerzio non menziona,
ma uno di questi si supporrebbe Timeo di Locri). Malignità ripresa da Proclo due secoli dopo.
Altre
notizie non abbondano. Platone lo nomina qualificandolo sempre di “pitagorico”. L’incontro di
Socrate con Timeo, che occasiona il dialogo di Platone, sarebbe avvenuto intorno
al 421 - “Timeo apparterrebbe quindi alla generazione di Filolao, contemporaneo
più vecchio di Socrate”. Cicerone accenna in un paio di passi a un incontro fra
Timeo e Platone in uno dei viaggi di Platone in Italia – ma anche lui credeva
che Platone si fosse ispirato a Pitagora.
Timeo
di Locri, Sulla natura del mondo e dell’anima, Ets, pp. 97 € 6,71
letterautore
Amore
-
Il destino si può piegare in mille modi,
“ma non c’è assolutamente un modo per ognuno di innamorarsi”, Robert L. Stevenson,
“On falling in Love” (in “Virginibus puerisque”).Soprattutto non c’è per gli
scrittori, sembra dire, dall’esemplificazione che fa seguire alla massima: “Si
sa di Shakespeare, del problema che gli si è creato quando la regina Elisabetta gli chiese di inscenare Falstaff innamorato.
Non credo che Henry Fielding sia mai stato innamorato. Scott, se non fosse per
un passaggio o due in ‘Rob Roy’, mi darebbe la stessa impressione”.
Lo stesso Stevenson pensa della “innumerevole
armata di persone anemiche fatte con lo stampino che occupano ordinatamente la
faccia di questo pianeta” che la cosa è rara, per un motivo: “Il semplice
incidente di innamorarsi è altrettanto benefico quanto è stupefacente”.
È anche inclassificabile. Fra tutti i
sentimenti, “l’amore, in particolare, non supera un riesame storico; per tutti
quelli che lo hanno sperimentato, è uno dei fatti più incontestabili al mondo;
ma se si comincia a chiedere che cosa era in altri periodi e paesi, in Grecia
per esempio, i più diversi dubbi cominciano a insorgere”.
Analfabetismo
di ritorno –“L’ondata
di immagini favorisce un nuovo analfabetismo”, poteva rilevare E. Jünger a fine
anni 1980 in una serie di annotazioni occasionali poi pubblicate col titolo “La
forbice”, §164: “La scrittura è sostituita dai segni, si può osservare il peggioramento
dell’ortografia. Ne consegue l’involgarirsi della grammatica”.
E non aveva ancora gli emoticon, gli idiotismi,
stretti, obbligati e decidui, le abbreviazioni da iniziati, le sigle variabili
quasi quotidianamente – sempre da iniziati.
Braccio
teso –
Il saluto romano, poi fascista e nazista, era un segno di difesa e non di affermazione?
Così lo dice E. Jünger, “La forbice”, § 102, con “un significato magico”: “Il
braccio teso in avanti orizzontalmente, esibito a difesa dallo sguardo del
male, con un significato magico”.
Buon
costume –
Era “teoria dei moralisti dell’Ottocento che il buon costume varia a seconda
dei paralleli”” – E. Jünger, “Un incontro pericoloso”, p. 37.
Dante
–
Leopardi non lo sentiva “suo”, a fronte del Tasso. In un esteso passo dello
“Zibaldone”, 4255, a proposito delle sfortune dei due poeti, “sfortunatissimi”.
Entrambi onorati, di cui visitiamo riverenti i sepolcri. Ma, continua Leopardi,
“io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di
tenerezza a quello di Dante”. Se lo rimprovera, avendo “un altissima stima,
anzi ammirazione, verso Dante”. Tanto più che “le sventure di quello (Dante, n.d.r.)
furono senza dubbi reali e grandi”, mentre “di questo (Tasso, n..d.r.) appena
siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie”. E ne cerca il
perché. Se lo dà in quanto “veggiamo in Dante un uomo d’animo forte, d‘animo
bastante a reggere e sostenere la mala fortuna. Oltracciò un uomo che contrasta,
e combatte con essa, colla necessità, col fato”. Un ritratto in qualche modo
originale. Mentre “nel Tasso veggiamo uno
che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato”, etc.
Dante
islamico –
Tante avventure nell’aldilà sono delle “Mille e una notte”.
Don
Giovanni –
È coetaneo della Costituzione americana. “Il più famoso libertino all’opera,
che impersona la libertà non solo dai vincoli sociali e politici ma dalla
sessualità, la religione, e la stessa morale, è sempre stato una figura inquietante”
- Larry Wolf, il cultore di Verdi, sulla “New York Review of Books”: “«Viva la
libertà!» canta Don Giovanni come i suoi ospiti arrivano per una festa serale,
e poiché l’opera fu composta nel 1787, nell’età dell’Illuminismo e alla vigilia
della Rivoluzione Francese, non è irragionevole chiedersi che specie di libertà
ha in mente. È la specie di libertà politica che fu stabilita nella Costituzione
americana, anch’essa scritta nel 1787….”.
Wolf continua riferendo il messaggio a
Da Ponte, il librettista, più che a Mozart. Ma evita di dire che Da Ponte era
lui stesso don Giovanni – tanto da essere bandito, prete scomunicato, da Venezia.
E che, dopo vari matrimoni, imprese fallimentari, peregrinazioni fra Praga, Dresda,
Londra, si stabilì in America – vi si stabilì con l’ultima famiglia, e vi
divenne insegnante, libraio e infine professore, alla Columbia.
U.
Eco –
“Umberto Eco, in un saggio di cui mi sto occupando giusto stamattina, il 4
giugno 1988, dice che ogni tentativo di fondare un senso ultimo conduce
nell’insensato e sottrae al mondo il suo mistero”– Ernst Jünger, “La forbice”,
§ 173. Tomista di formazione, Eco ha presto abbandonato la filosofia (la
metafisica) per le applicazioni pratiche del pensiero, la sociologia della letteratura,
la semiotica, il costume, il giornalismo.
Figure
–
“La fiaba fa riferimento di preferenza al regno animale, la parabola a quello
delle piante – il granello di senape, il loto, il fico, il giglio. Tutte queste
figure sono imparentate: sono simboli dell’uomo entro il regno vivente. Ritroviamo
invece esempi tratti dal mondo inanimato nei proverbi” – E. Jünger, “La
forbice”, §17.
Madre-figlia
–
Il rapporto conflittuale è uno dei primi temi dei primi romanzi. Miss Howe
scrive a Miss Harlowe in “Clarissa”, vol. II, lettera XIII: “Sai, mia madre
ogni tanto litiga con molta forza; sempre almeno molto caldamente. Mi capita
spesso di pensarla diversamente da lei, e entrambi pensiamo così bene delle
nostre ragioni che raramente siamo felici di aver convinto l’una l’altra. Un aso
molto comune, penso, in tutti i dibattiti veementi.
Lei dice che sono troppo intelligente.
Anglicizzato, troppo impertinente.
Io, che lei è troppo saggia. Cioè,
per metterla in altro modo in inglese, non
più così giovane come pure è stata”.
Mosè –
È citato per la
prima volta da Longino?
Fra le tante
perplessità
su chi era Mosè non poteva mancare Voltaire. Nel
breve scritto “Auteurs”, 1770 circa, rifacendosi alla “Histoire de la
philosophie” del “buon abate Bazin”, fa valere che “mai nessun autore ha citato un passaggio di Mosè prima di
Longino, che visse e morì al tempo dell’imperatore Aureliano”. Il nome era
noto, Giuseppe ne parla più volte, ma nessuno cita un detto o uno scritto,
nessuno dei profeti autori dei libri biblici. “Benché egli sia un autore
divino”, aggiungeva Voltaire. Che però non notava che i libri della Bibbia non si citano fra di loro.
Prima del “romanzo” (poi non pubblicato)
e dei tre saggi di Freud su Mosè, “un generale egiziano”, la sua figura era stata
al centro di un Antisemitismusdiskurs a
fine Settecento, un dibattito sull’antisemitismo.
Nel 1790 Schiller pubblicava sulla rivista “Thalia” “La missione di Mosè” –
Schiller è stato storico valente, prima che drammaturgo. C’era in corso la
rivoluzione francese, ma Schiller si impegnava a rielaborare, in parte
confutandola, la prolusione tenuta un anno prima a Jena dall’illuminista
framassone Carl Leonhard Reinhold. Con un testo fitto, di una quindicina di
pagine, come la prolusione. Schiller fa nascere la parola “ebrei” con la fuga
dall’Egitto, un nome spregiativo dato ai riottosi israeliti dal faraone, che li
aveva confinati in aree separate. Ma non fa di Mosè un egiziano, bensì il
figlio di un’ebrea fatto crescere con un trucco dalla figlia del faraone, e
quindi a scuola dai sacerdoti, dai quali apprende i Misteri di Iside. E lo dice
per questo un capo opportuno ma anomalo per gli ebrei.
Nazionalità
-
“Sarebbe belllo se nazioni e razze potessero comunicarsi le loro qualità; ma in
pratica, quando si guardano l’una con l’altra, hanno l’occhio solo ai difetti” -
R.L.Stevenson, “Village Communities of Painters”.
Psicologia
–
“Fabbrica i sogni che studia”, E. Jünger, “La forbice”, §75: “A volte pare che
i vecchi libri di sogni possano darci informazioni migliori di quelle che della moderna psicologia, che fabbrica i
sogni che studia”.
Santippe
–
Personaggio ricorrente delle narrazioni (p.es. l’ultimo racconto delle “Mille e
una notte”), la donna autoritaria, scomparsa dal secondo Novecento in qua –
scomparsa col femminismo che invece ne
sarebbe l’applicazione pratica?
Viaggio
–Non
si viaggia per viaggiare ma per aver viaggiato”, Alphonse Kerr, 1847.
letterautore@antiit.eu
Fino al 60 per cento delle
famiglie americane potrebbe possedere armi.
La percentuale dichiarata dei
detentori di armi in casa è molto inferiore, poco più della metà, il 33 per
cento del totale della popolazione. Ma il Centro di Ricerca sulle Armi dell’università
Rutgers nel New Jersey dubita della veridicità delle dichiarazioni (le ricerche
si fanno a campione, il dato non è statistico), e prospetta che una metà di chi
dichiara di non possedere armi di fatto le detiene.
Una statistica di fine 2020 dà in
434 milioni di armi da braccio la produzione per il mercato privato nei
precedenti venticinque anni.
Nel 2002 sono stati venduti 17
milioni di armi per possesso privato.
Jünger
nel 1985, a 90 anni, debutta nel thriller.
Nella Parigi di Fine Secolo (Ottocento) centro del mondo: Belle Époque, champagne,
fortune accidentate, amori à gogo. E
una casa d’appuntamenti elegate e discreta. Vittima, sarebe il caso di dire, un
giovane – tedesco – tanto bello quanto innocente. Mentre lei, la femme fatale, di un solo sguardo, è un caso borderline, si direbbe oggi. Il tutto agito, per caso, da un
Mercurio, un deus ex machina, dispetico.
E agitato (shakerato), in un mondo altolocato, di ammiragli e brasseurs d’affaires, all’ombra del
Jockey Club. C’è anche un detective, anzi ce ne sono due – e uno viene dal
Deuxième Bureau, il controspionaggio, poi famigerato al tempo delle indipendenze
africane.
Un
racconto di suspense più che d’azione – c’è quasi l’unità di tempo,
luogo e azione. Con lunghe escursioni attorno ai luoghi e ai personaggi: Jünger si cimenta
col feuilleton, col romanzo popolare,
che vuole personaggi “distinti”, attorno naturalmente a una seduzione.
Non
propriamente un giallo. Un omaggio a Parigi, passeggiata e commentata in dettaglio. Centro più che altro del demi-monde. Delle avventure facili, in
affari e a letto, di licenza misurata e obbligata. Un romanzo di costumi. E di formazione,
di giovane vergine a opera di un mefistofele di passaggio. Del thriller ha il ritmo - anche se non veloce. Nella traduzione
di Anna Bianco, Bompiani, a ruota sulla prima edizione tedesca.
Ernst
Jünger, Un incontro pericoloso, Adelphi,
pp. 193 € 14
Giuseppe Leuzzi
Si scopre per la curiosità di un senatore americano
che i colori della bandiera, bianco, rosso e verde, erano i colori della
Repubblica Cispadana al tempo di Napoleone. Cosa che si sapeva. Ma che la
Cispadana li aveva adottati in quanto colori della Lombardia (la cosa,
perlomeno, è spiegata così dal sito del Quirinale, chissà): il verde della
guardia civica milanese, dal 1782, il bianco e rosso dell’“antichissimo stemma
comunale di Milano” (croce rossa su campo bianco). La Lega non lo sapeva, oppure
vanno bene una cosa e l’altra, il leghismo e la bandiera?
“Un ponte fra due cosche” è
una battuta per il ponte sullo Stretto di don Ciotti, il fondatore
e animatore di Libera, l’organizzazione che gestisce i beni sottratti ai
condannati per mafia. Un patrimonio enorme, di cui non si conosce la qualità
della gestione, né la destinazione dei risultati di gestione. Una gestione
peraltro assortita di cospicui aiuti pubblici. Il sacerdote conferma che il Sud
è vittima (anche) dell’antimafia. Una camicia di forza.
Nella Parigi a cavaliere
dell’Otto-Novecento, che molto s’immaginava mondi futuri, un Henry Le Bon
(pseudonimo per il re omonimo, Henry VI “Le Bon”) pubblicava nel 1890 un “L’an
7860 de l’ère chrétienne”, in cui s’immaginava gli alimenti sintetici e conflitti
giganteschi, tra la Francia e l’Inghilterra, e tra la Sicilia e l’Italia.
Il linguaggio dei gesti
“È dimostrato che, da sempre,
si è attribuita al movimento una forza immediata: la capacità di intendersi
attraverso i movimenti, infatti, venne prima del linguaggio. Un’intesa più che
sufficiente per un contatto, spesso più comprensibile della stessa parola
esplicita. Il fim muto e il teatro Kabuki ne sono una prova” – Ernst Jünger, “La
forbice”, § 99.
È il linguaggio del Sud, che
si vuole più economico. Quindi espressione del fanientismo meridionale - è topos anche del western, per semplificare l’indolenza chicana. Ma più articolato
e significativo di quello parlato, che
si disperde tra dialetto e lingua, nelle forme dialettali e nel dialetto italianizzato.
Più comprensibile o più carico di senso, un gesto, un messaggio forse indolente
o forse in vece di una parola che non si trova, forse di un giro di parole.
Ma era arte discorsiva, ora non più, sacrificata alla modernità – alla
forma compiuta, anche se inespressiva o poco espressiva, di valore legale. Oggi,
per via social, in forma prevalentemente di eufemismi, inversioni, paradossi,
interrogative, interrogative negative. Cioè parole non solo insignificanti (non
o poco significanti), ma incerte, e come un rifiuto del linguaggio, della comunicazione.
Una non assunzione di responsabilità di quello che si intende dire, che viene
lasciata all’interlocutore – che è una funzione del linguaggio, ma ancillare,
non se ne è la parte costituente. Ed è il rifiuto di responsabilità che invece
si imputa – si imputava - al “linguaggio del Sud”.
C’è anche una “linea della
palma” linguistica, che è montata al Nord, che ha soggiogato il Nord? La “linea
della palma” che monta era già troppo pretendere in termini di codici mafiosi –
il Sud non dovrebbe pretendere troppo di sé, non conta nulla.
Il tempo del Settentrione
Leopardi aveva antevisto
anche questo. In più passi dello “Zibaldone”, 867, 2333. Il primo
riferimento, 867, è molto chiaro, dopo un’estesa disamina del perché le civiltà, gli imperi, fioriscono e
poi decadono, a opera dei barbari – nel quadro del pessimismo della storia: “Che vuol dire che i
cosiddetti barbari… hanno sempre trionfato de’ popoli civili, e del mondo?...
Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la
civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili…”:“L’Europa tutta civilizzata sarà preda di quei mezzi barbari che la
minacciano dai fondi del Settentrione”. Conclusione
ribadita nel “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani”: “Sembra che il tempo del settentrione sia
venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il mezzogiorno. Ed esso
era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali furono gli antichi.
E il settentrione viceversa è propriamente fatto per tenere al di sopra ne’
tempi della natura de’ moderni”.
Un pensiero che Leopardi
potrebbe avere mediato da Herder, dalle “Idee per la Filosofia della storia
dell’umanità”, del 1784-1791. Che trovava disponibile alla lettura in francese
nel 1828, nella traduzione di Edgar Quinet.
La mafia onnipotente è dell’antimafia
Salvatore Lupo non lo dice
più, si è forse stancato, ma ne dà i dati di fatto in breve, presentando la sua
ricerca sul “Mito del Grande Complotto”, dello sbarco Alleato in Sicilia in
combutta con la mafia, e la liberazione dell’Europa dal nazifascismo come opera
sicula, cioè della mafia – d’intesa e in alleanza con la mafia. Mito che, Lupo
non lo dice ma serve ricordarlo, è stato a lungo, e perdura, nella sinistra
politica in Italia, nel Pci e negli scrittori che si legano al Pci, come
Camilleri. Ma anche in chi, come Sciascia, può essere stato tutto ma sicuramente
non sovietista, non uno che credeva tutto in chiave di “guerra fredda”.
Il “complotto” nasce con
Michele Pantaleone, persona peraltro stimabile, un politico siciliano e gionalista,
interlocutore di Carlo Levi, combattente anti-separatista e antimafia, nel 1968
sul quotidiano di Palermo “L’Ora”, in una sua inchiesta di quattro puntate (a
quattro mani con “Castrense Dadò”, pseudonimo dell’avvocato Nino Sergi), e poi,
quattro anni dopo, nel primo libro della storia su “Mafia e politica”,
pubblicato via Levi da Einaudi.
Non se ne parla successivamente
molto, se non in chiave “guerra fredda”, nel Pci e dintorni. Fino alla
Commissione Parlamentare Antimafia. Sarà la prima Commissione Antimafia, presieduta
dal senatore democristiano Luigi Carraro di Padova, a fare nel 1976 della mafia
la mallevadrice, se non l’organizzatrice, dello sbarco Alleato. E poi ancora
l’Antimafia di Violante, che pure sapeva di cosa si parlava, interlocutore di
Falcone e di Caponnetto, il cui rapporto finale, nel 1993 (“nel momento della massima
minaccia portata da Cosa Nostra alla Repubblica”) ripeteva la conclusione di
Carraro. Malgrado ci fosse già una documentazione storica, pubblica, che la
smentiva.
Cronache della
differenza: Napoli
“Napoli è certamente la città
i cui abitanti parlano più ossessivamente di sé, e della collettività,
dell’ambiente, della cultura e della storia di cui fanno parte”, comincia cosi
Fofi, napoletano eccellente, la recensione-stroncatura sul “Sole 24 Ore
Domenica” di “Napoli stanca. 17 scrittori raccontano la città nascosta”,
l’antologia curata da Mirella Armiero. Cui il gironale dà il titolo: “Scrivi
Napoli, dici Napoli, ma come stanca Napoli!”. Fofi è arrabbiato, si sente. “In
questo senso sì, Napoli stanca, come
dice il titolo”.
Un solo atout Fofi riconosce alla sua città, che Napoli è un po’ Milano per “una comune massiccia
«gentrificazione»”. Che si pensa sia un complimento: il risanamento dei
quartieri degradati. O è un’altra polpetta avvelenata? Il risanamento dei
Quartieri Spagnoli, via dei Tribunali, Spaccanapoli si è fatto come a Roma Panico
e dintorni, o Trastevere, o il Pigneto: sloggiando i residenti – magari alloggiandoli
in abitazioni più morderne e confortevoli, ma in ambiente estraneo, ovviamente
periferico.
In contemporanea con Fofi sul “Sole 24
Ore”, “Le Monde” fa anch’esso colpa alla città di essersi “gentrificata”, di
non essere più sporca e cattiva ma tutta bed
and breakfast, sulla via di diventare un’altra Barcellona, un hot spot per turisti. Si stava meglio
quando si stava peggio?
O, con un detto calabrese: falla come
vuoi, sempre è cocuzza – non si sfugge al “destino”?
Voltaire non dà molto tempo a
san Gennaro: “Quando la ragione arriva, i miracoli se ne vanno”. Tanto più che
non porta prosperità - nessuno, né nobili né borghesi né popolani, ci guadagna
niente. Mentre si sa che “Dio non fa miracoli a data fissa, e che non cambia le
leggi che ha imposto alla natura”. Ma lo diceva, “Conformez-vous au temps”,
verso il 1765, duecentocinquant’anni fa. Poi si dice che Napoli manca di resilience.
Ha l’onore di essere elevata tra le capitali mondiali dei ladri (vory in russo) da Le Carré nelle memorie, “Tiro al piccione”, §18 – insieme con Varsavia, Madrid, Berlino, Roma, Londra
e New York.
“Città andalusa sperduta in
Italia” la definisce Elisa Chimenti, la scrittrice-imprenditrice scolastica a
Tangeri in Marocco, napoletana di origine, emigrata in Marocco col padre medico
all’inizio del Novecento, nell’opera inedita “Miettes”, briciole (Chimenti, che
si sentiva molto napoletana, scriveva in francese, lingua franca di Tangeri), assicura la sua biografa per
l’“Enciclopedia delle donne”, Maria Pia Tolentino, che ne cura le carte.
Avellino ha una novità, un
assessore al brand. È Barbara Politi,
giornalista e conduttrice tv in Puglia, dove vive, premio Ischia per il giornalismo
enogastronomico: assessore alla Promozione del brand Avellino. Un Sud 5.0, avendo saltato le precedenti tappe? La
fantasia non difetta.
“Nella sola provincia partenopea ci sono più beneficiari
di Lomardia Piemonte e Veneto, messe assieme”. Nella Campania più beneficiari
di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna Liguria. Battere il Nord non è
difficile se ci riesce Napoli da sola - la “città metropolitana” certo. Il
beneficio è del reddito di cittadinanza. Poi si dice che a Napoli non sono
bravi cittadini.
La ministra Calderone può dire: “In Campania, regione
col più alto numero di percettori del Reddito di Cittadinanza, sono stati censiti
108 mila posti di lavoro disponibili”. Il redattore che ne raccoglie le
dichiarazioni specifica tra parentesi: “circa 25 mila percettori”. Ma è saltato un
5: sono, erano, 255 mila.
Il paradosso, per così dire, era materia di più
inchieste del “Sole 24 Ore” trent’anni fa, e forse anche quaranta: che a Napoli
capeggiavano la classifica dei disoccupati (allora c’era un punteggio, una graduatoria per anzianità, e ai primi veniva segnalato il maggior numero di offerte) sempre
gli stessi nomi. Disoccupati di mestiere - i “disoccupati organizzati” di cui
non si rise, anzi il Pci se ne fece una forza.
Fa sempre senso, ancora a
quarant’anni di distanza, ripubblicandosi le lettere di Tortora dal carcere, leggere
che tutti i giudici che lo perseguitarono, in Procura e nei Tribunali, fecero
carriera. Il presidente del Tribunale di primo giudizio, di cui si tace il nome
tale è l’infamia, si produsse in uno sfottente: “Tanto perché non dicano che non
do spazio alla difesa”. Questa strafottenza è “molto napoletana”.
Fecero tutti carriera, i
perscutori di Tortora. Uno dei procuratori fu pure eletto al Csm, senza
vergogna. Lo stesso avverrà nel 2006 con Calciopoli, il processo alla Juventus, tutto napoletano, inquirenti,
Carabinieri compresi, giudicanti, e giornalisti accusayori. Invece il giudice
che in Appello assolse Tortora, Michele Morello, venne isolato nel palazzo di
Giustiza napoletano.
Anche questo è “molto napoletano”,
il giudice onesto, e il boicottaggio. Qualche anno dopo ci sarà la serrata dei
Procuratori contro un capo della Procura, Cordova, un calabrese, che pretendeva
che lavorassero, ogni giorno – che aprissero qualcuna dei due milioni di pratiche
arretrate.
leuzzi@antiit.eu
La
mostra che i Lincei hanno organizzato alla Villa Farnesina a Roma nella seconda parte
del 2021 è ripresa dall’Istituto Italiano di Cultura a Pechino da fine luglio.
Riorganizzata per il pubblico cinese, propone per due mesi 120 manufatti: opere
d’arte, manifesti e riviste a parete, e oltre 150 fra libri, cataloghi, pubblicità,
cartoline, francobolli d’epoca. Una mostra che collega le prime manifestazioni
dell’uso del made in Italy a fini commerciali alle passate celebrazioni dei
centenari dei tre artisti: Leonardo, Raffaello e Dante celebrati non per sé ma
per l’effetto immagine, per quanto sono stati spesi come nome per consentire al
nuovo brand di affermarsi come
sinonimo di qualità.
La Raffles City di Pechino è lo
spazio più in voga della capitale della Cina. Un complesso di torri,
appena inaugurato, a uso promiscuo,
abitazione, lavoro, svago, sport, commercio. A somiglianza della più celebre Raffles’
City di Singapore, già ripresa a Shangai. Intitolata al personaggio dei thriller un secolo fa di
Hornung, il “ladro gentiluomo”. Che
aveva derivato il nome dall’albergo allora di lusso di Singapore, il Raffles
Hotel, luogo di molte avventure del personaggio: una costruzione neoclassica
fronte mare, tuttora in attività, realizzata da una società, i Sarkies Brothers,
e intitolata a sir Stamford Raffles, il fondatore di Singapore.
Accademia
dei Lincei, Il trittico del Centenario,
Leonardo 2019, Raffaello 2020, Dante 2021, e l’Ingegno Italiano alle origini
del Made in Italy, Raffles City, Pechino
Circa 400 mila bambini nati
ogni anno da genitori non residenti hanno la cittadinanza americana per nascita.
Sono gli “anchor babies”.
Sono più delle nascite ogni
anno in ognuno dei cinquanta Stati dell’Unione. Eccetto la California, che
mediamente registra oltre 400 mila nascite (420 mila nel 2020) – il Texas,
invece, è lo Stato con meno nascite, 366 mila nel 2020.
Si considerano “anchor babies”
i figli di immigrati irregolari, o di genitori non cittadini degli Stati Uniti
che vi risiedono per lavoro, studio, turismo. Mediamente, sui 300 mila “anchor
babies” sono figli d’immigrati irregolari, 70-80 mila di dipendenti stranieri in
America col visto di lavoro, di studenti stranieri, di turisti.
L’America si considera
tuttora un paese d’immigrazione, che favorisce con la cittadinanza alla nascita
(lo ius soli). Uno status guridico
largamente maggioritario anche nell’opinione. Ora contestato dai teorici della
Grande Sostituzione del ministro Lollobrigida, con due argomenti. Ai 18 anni
gli “anchor babies” possono “nazionalizzare” i genitori e altri familiari attraverso
la green card, anche se immigrati illegali.
O residenti in altri paesi in età avanzata, genitori, nonni. I 4,5 milioni di
“anchor babies” in America oggi sotto i 18 anni aumentano la spesa sanitaria
pubblica di 2,4 miliardi di dollari ogni anno, “pagati dal contribuente
americano”.
“Anchor baby” è termine
spregiativo, come di chi avesse fatto un bambino per ottenere poi la cittadinanza,
o comunque la non espulsione.
Quattro trentenni
disinvolte, trendy, scafate, iperaggiornate. Ma inguaribilmente romantiche.
La scrittrice palermitana di belle speranze a Roma, naturalmente al Pigneto,
dove sennò, che finisce nella palude del business
sceneggiatura. La negoziante di Guidonia in calzature sposina del carabiniere
che il ritorno del ragazzino dell’infanzia turba. La figlia aristocratica che
vuole andare verso il popolo, e sposta sacchi in panetteria. Una santanché dei
Parioli, che non perdona uno sguardo. Quattro storie divertenti. Non
esilaranti, non ci sono battute fulminanti, la sceneggiatura è distesa, discorsiva, ma di personaggi e immagini
notevoli. Soprattutto, curioso, quelli maschili, anche se marginali nell’economia
del film.
Pilar Fogliati ha aspettato invano la chiamata, dopo l’apparizione
in “Forever Young” sette o otto anni fa, poi ha sparato la sua salve. Non ancora
il suo “Sacco bello”, ma qualcosa che comunque lascia la traccia. La scena
iniziale, delle amiche che si raccontano e mimano gli atti sessuali degli
uomini. Il mondo ambiguo dello spettacolo, cinico per bisogno. O in filigrana
la pratica inutile del sostegno psicologico – una Bobulova sorridente, che pone
problemi invece di risolverli, senza crederci.
Un film anche, senza dirlo e forse senza volerlo, tutto
al femminile. Con un taglio e un colpo d’occhio femminile-femminile. Come un
dato di fatto, cioè, senza rivalse, polemiche, rivendicazioni.
Pilar
Fogliati, Romantiche, Sky Cinema
zeulig
Ateismo – “Il gatto non ha alcuna religione”, E. Jünger, “La forbice, § 51. E tuttavia, se “il gatto non è in grado di porre domande sull’esistenza,
possiede certamente un’esistenza, dunque qualcosa di più di una religione. Gli antichi erano ben
consapevoli di questa differenza; potevano perciò adorare gli animali come dei,
mentre noi non attribuiamo, persino un Eracle, che il rango di semidio”.
Coerenza – È una virtù perduta, come tale, come intesa comunemente, di fedeltà a un
credo o insieme di credenze e di fedi, calcistiche come politiche. Forse perché
malintesa. “Esporre le proprie opinioni non è necessariamente essere sordi a
tutti gli altri”, come argomenta Stevenson, il romanziere, in “An Apology for
Idlers”, l’elogio dell’ozio - p. es., “che uno abbia scritto un libro di viaggi
in Montenegro non è una ragione per cui non dovrebbe essere mai stato a Richmond”:
“La più grande difficoltà di alcun argomenti è di esporli bene”.
Coscienza – È senziente, la linea cognitiva è in qualche modo collegata a quella
affettiva? Almeno fino a un certo punto – sta pure nell’evoluzione, o nella
graduatoria creaturale, se ce n’è una (a un certo punto, a certi punti, si possono dare salti). Se così è, se ne estende
l’ambito al di fuori e al di là dell’umanità.
È il termometro allora e il metro più evidente dell’evoluzione
– la più inafferrabile delle concezioni umane, creatura della metafisica, prima che della logica. Dovendo(si) anche scontare che – nel segmento
umano della storia - non tutti gli umani sono coscienti, alcuni sono solo
bestie, malgrado la pedagogia, la formazione, l’istruzione, anche forzata:
reagiscono cioè sensorialmente, per istinto. In fondo, una coscienza non può
che essere socievole – una constatazione di socievolezza se non di
disponibilità. Al modo di quel personaggio di Pirandello in “A ciascuno il suo”
che dice: “La tua coscienza significa «gli altri dentro di te».
Ci si chiede, ora anche in biologia, se c’è una coscienza
in natura – per “natura” intendendosi il creato fuori dalla sfera umana. Ed è
evidente che c’è, degli animali e anche dei vegetali. Ma come si forma? Questo
è un problema, perché il corpo è un problema, non solo quello umano, ma di
tutte le specie, animali e vegetali (e minerali, perché no, anche la pietra è
un corpo) – l’evoluzione dice come si è proceduto e si può procedere, ma su
sentieri statistici e non creaturali (fondanti). E non perché. Così diffusa e
così inspiegabile, la coscienza è quel che rimanda alla creazione – alla favola
del paradiso terrestre, che era in potenza tutta la storia successiva, Darwin
compreso.
È, si dice, “la radice
di ogni conoscenza”. La quale è ricezione ma è anche “creazione”: assetto, o
riassetto (identificazione), sistemazione (catalogazione), disposizione anche. È alla radice, anche, di ogni volontà
– seppure irriflessa.
È curioso che il suo massimo denegatore, William James,
“empirista radicale”, da sempre scettico, non molti anni prima della Grande
Guerra sancisse: “Ora mi sembra che i tempi siano maturi per disfarsene
apertamente e senza sconti”. Scettico ma ottimista (razionalista).
Islam – “È stupefacente la rinascita dell’islam ai giorni nostri”, nota E. Jünger
in una delle sue ultime opere. Notava, novantacinquenne, nel 1990. Non aveva
visto il Mia (Mouvement Islamique Armé), il Gia (Groupe Islamique Armé) e l’Isa
(Islamic Salvation Army) del terribile decennio di fine secolo in Algeria, con
stragi giornaliere e almeno mezzo milione di morti. Né i Talebani, né l’Is – o le
formazione terroristiche tuttora attiva nell’Africa sub-sahariana, dalla Somalia
alla Nigeria. Né l’abbattimento di Gheddafi, a opera dei tradizionalisti.
A opera, si direbbe, soprattutto delle donne. Che si reputerebbe
danneggiate dall’islam, di fatto e di diritto, e invece ne sono la difesa e l’avamposto
militante – nel khomeinismo, che è il germe della militanza islamica, e poi
nell’Is. Specie in terra infidelium,
nei paesi di emigrazione, in Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia, più
degli uomini, per quanto pii – con hijab
completi, dalla cima dei capelli ai talloni voluttuosamente passeggiati per le
città roventi di questo luglio, magari aggraziati con cat-eye Chanel da mille
euro.
Stupefacente la rinascita è senz’altro. L’Iran, laico e modernista
nel 1978, integralista islamico due anni dopo, severissimo: un mondo grande, di
storia, formazione, demografia, che si consegna legato agli ayatollah. O la Turchia: si faticava
vent’anni fa a trovare una donna velata nella parte occidentale, la più
densamente popolata – una sola di fatto in migliaia di chilometri, una sposina,
con marito e padre. Un paese candidato dieci anni fa all’Unione Europea. E
subito dopo islamico, , anche se la sharia
non è la legge – lo è però di fatto. O la Tunisia di Burghiba, altro modello
di stato islamico e democratico improvvisamente convertito all’islam politico –
da cui non riesce ora a liberarsi. O l’Algeria, che ancora non ha ricucito le
ferite del jihad. E i Fratelli
Mussulmani nelle altre roccaforti del laicismo arabe o indo-pakistane.
Jünger ha introdotto il tema “rinascita” legandolo alla
durata dell’istituzione clericale: “Il clero ha il vantaggio di disporre di un
tempo suo proprio. Ancora più importante che uno spazio proprio”. Ma poi ha uno
scatto, dopo aver notato la sorprendente rinascita: “Occorre a questo proposito
rilevare che essa rimane disposta nell’ordine della tecnica in quanto uniforme
dell’operaio”, della massa, come mobilitazione. L’islam odierno questo è, un
piano di mobilitazione. Culturale, di genere, sociale, di proiezione internazionale,
in chiave rivendicazionista (nazionalista). In epoca di diritti, incondizionali,
rovesciandone l’ottica: non per un’estensione dei diritti individuali, ma
culturali (nazionali, popolari, storici, eccetera). Con tutte le esche della
rivalsa, del nazionalismo.
La mobilitazione fa aggio naturalmente sui diritti
individuali – che possono venire calpestati o rovesciati impunemente, e anzi con
merito – “Per i combattenti di ogni tipo, il consenso è stato da sempre un’immediata
necessità”, deve notare Jünger: “Il che significa: attacca o muori”. La
mobilitazione come militanza.
Una tesi lega l’espansione dell’islam, in Africa e in Asia
(Malesia, Filippine e altrove), ai soldi del petrolio, dopo il 1973 – una pioggia
d’oro per le petromonarchie della penisola arabica e per l’Iran (in questo sito
è stata materia di riflessione:
http://www.antiit.com/2023/07/condo-il-genocide-watch-nei-diciotto.htm
In questa ipotesi, la caduta del saggio di profitto delle
petroeconomie per effetto della transizione alle fonti di energia rinnovabili,
invece che fossili, prima che esse stesse abbiano completato la transizione ecologica
(i profitti sono oggi inalterati, elevati, ma gli investimenti sono prossimi a
zero), indebolirà lo slancio dell’islam – la proiezione politica dell’islam, e
quindi il suo appeal?
Millennio – Nel segno di Nietzsche, avvertiva E. Jünger in una delle ultime riflessioni, raccolte sotto il titolo “La
forbice”, nel 1990: “Nuove sorprese si annunciano per il XXmo secolo, che già
Nietzsche aveva considerato la sua patria spirituale. Secondo la visione nietzscheana,
già a partire dal Rinascimento, la morale era rimasta indietro rispetto allo
sviluppo del progresso. Era necessaria una rivoluzione dei valori”. Con
riserve, come per ogni innovazione: “Alla ricerca viene comunque sempre attribuita
una serie di tabù. E non solo da parte della Chiesa, che nel frattempo è divenuta
più docile, ma anche da parte della coscienza collettiva e della giustizia”. E
oggi: “Oggi sembra piuttosto che il progresso debba essere frenato. Resta solo
da chiedersi se, ora che le ruote si fanno incandescenti, questo arresto sia
ancora possibile”. Jünger era pessimista: “Come conseguenza ne è derivata la
ramificazione di un nuovo alchimismo”.
Postmoderno – “La parola
allude a una condizione che si è data da sempre. La si è già raggiunta anche
solo quando una donna indossa un
cappellino nuovo” – Ernst Jünger, “La forbice”, § 177.
Speranza – “La speranza
imperitura-immortale è cogestora nell’intimo dell’uomo con la credulità
infallibile”, Robert Louis Stevenson, “Crabbed Age and Youth”: “Un uomo scopra
di avere sbagliato a ogni passaggio della sua carriera, solo per dedurre la stupefacente
conclusione che ora è finalmente nel giusto. L’umanità, dopo secoli di fallimento,
è sempre alla vigilia di un millennio rettamente decisivo”.
Storia – È prevedibile – la storia è
già oggi. Sorprese comprese.
zeulig@antiit.eu
La mattinata è
calda, come ormai da un mese o due a Roma. Nella basilica di San Pancrazio al
Gianicolo, fuori Villa Pamphili, si è tenuto il funerale di una gentile
signora, in età molto avanzata ma persona dai mille spiriti e dalla grande
amicizia. I convenuti s’intrattengono dopo la funzione sul sagrato per
scambiarsi saluti, ricordi, apprezzamenti. Qualcuno accenna a una delle canzoni
che la defunta amava cantare, accompagnandosi al pianoforte, “Au temps des
cerises”, una hit di Yves Montand. Dalla parte in ombra del sagrato, come usa da persone bennate del
Mediterraneo, che sanno il valore di un velo al sole, meglio se sotto le fronde
che alitano l’aria. Finché un furgone Ups non ha bisogno di passare, per una consegna.
Non guarda nemmeno, ha solo fretta. E poi di ripassare, effettuata alla Jacques
Tati la consegna veloce – avrebbe divertito la defunta, la consegna alla “Jour
de fête”.
Un tempo le macchine
si fermavano, se passava un funerale. Una forma di omaggio, e un momento di
pausa. Ma non c’è pausa per le consegne: ora che si compra tutto online, costa
la metà, la consegna a domicilio deve andare veloce, la logistica ha tempi e
metodi ferrei, non si prende pause e non guarda in faccia nessuno, neanche la
morte – o la vita.
La morte di Luca Di Meo
(l’unico dei quattro scrittori del collettivo Luther Blissett-Wu Ming di cui non
ci sia in rete una biografia…) porta a risprire questo romanzone che fu il loro
esordio, nel 1999. Luther
Blissett è nome proprio, del centravanti del Milan del campionato 1983-84, il primo o secondo
calciatore nero del campionato italiano, con una fama di goleader in Inghilterra,
in campionato e nella nazionale, a cui nessun calciatore del Milan passò mai la
palla.
Uno pseudonimo ironico, quale
già l’altro collettivo, Wu Ming (“senza nome”), di quatro artisti dada, autori
di leggende metropolitane, fake news, scherzi, beffe, quindi scaduto nella
goliardia. Ma, goliardicamente è vero, senza crederci troppo, non seriamente,
autori anche di veri romanzi d’avventure alla Dumas, alla Walter Scott.
Sbrigativi, poco autoriali. Maestri però del canone del genere come decretato da
un altro bolognese, seppure d’adozione, a sua volta loro maestro: Umberto Eco. Nel
“Superuomo di massa “ e nell’introduzione alla nuova traduzione americana del “Conte
di Montecristo”. E, soprattutto, più capaci della esemplificazione che lo
stesso Eco aveva dato della teoria con i suoi romanzi storici, l’arcinoto “Il
nome dela rosa”, “Il pendolo di Foucault”, “L’isola del giorno prima”. Questa
la prima impressione che danno, quasi una delle loro beffe. Perché, al
paragone, i romanzi storici per i quali Eco era anche autore famoso e
famosissimo sono dispersivi e noiosi, buona parte. Mentre questo, come poi i
successivi, scorre veloce – e anche attendibile, volendone fare l’anamnesi
sulle fonti (più certamente delle variazioni “d’autore” di Eco).
Il plot è semplice. Cioè complicatissimo. È la storia della Riforma,
di Lutero e dopo. Pieno di personaggi e liti, più o meno teologiche, tutte
ultimative: Thomas Müntzer, Melantone, Carlostadio, Lutero naturalmente, il cardinale
Gianpietro Carafa, la Dieta di Worms, i Profeti di Zwichau, Jan di Leida, i
contadini, con le terribili guerre dei contadini, i tessitori, protomarxiani, la
riforma sociale. Una storia piena di nomi e di fatti. Che però, ecco il miracolo,
il collettivo riesce a far metabolizzare: il romanzone si legge in fretta, con
curiosità, l’avventura è sempre dietro l’angolo - e lo spirito del tempo che ne
esce regge anche al contrappunto storico, lo spirito e gli eventi stessi.
Con una seconda beffa, o
“pasticcio”. C’è anche un dopo in “Q”, che vede protagonisti a qualche distanza
di tempo Anton Fugger, il banchiere, Gian Pietro Carafa eletto papa (il terribile
Paolo IV), il cardinale Reginald Pole, gli ebrei. Qui siamo nel 1555. È da qui,
ex post, che un eretico senza nome (dai
mille nomi) racconta i quarant’anni di lotte di religione che hanno sconvolto
l’Europa dopo lo scisma di Lutero.
Sono tutti personaggi, quelli
della seconda parte, di un romanzo anteriore di qualche anno a questo “Q”, “In
virtù della follia”, autore G. Leuzzi, l’amministratore di questo sito, che aveva
avuto qualche eco, di lettori e di critica. Ma svolta con ritmo indiavolato e
senza alcun peso alla Storia - anche se Gian Pietro Carafa Paolo IV sarà il
creatore dei ghetti e della “questione ebraica” in Italia.
Luther
Blissett (Wu Ming), Q, Einaudi, pp.
XV + 677, ill. € 15
spock
Molto presto è troppo tardi?
Il mondo si consuma, o si immortala?
Il mondo elettrificato è lo stesso di prima?
Il mondo interconnesso è lo stesso di prima?
Il mondo per immagini è lo stesso di quello di parole?
O non sarà un ritorno a Sulawesi, al graffito?
spock@antiit.eu
Un romanzo di debutto, a 36 anni, docente apprezzata di Letteratura al
liceo Carnot a Parigi, di estraneità. Alla Francia, che l’ha adottata, bene o
male – e la mantiene al liceo. E alla famiglia. Immigrati poveri, con molte
figlie e molte sorelle, cattive, due braccianti, lui, Ruggero, di Refrontolo
(Treviso), e lei, Teresina, di Vicenza. Due degli ottocentomila “ritals” che
dopo la Grande Guerra invasero la Francia per occupare le campagne svuotate
dalle trincee. Confinati in una landa abbandonata e da bonificare, di sassi e acquitrini,
in Aquitania, Sud-Ovest della Francia – il posto più lontano dal Veneto. Nell’isolamento,
ricercato dopo essere stato imposto, nell’ostilità praticamente universale,
della gente, dell’amministrazione. e della politica.
Questo primo romanzo è il racconto, duro, durissimo, di questa povertà. “In un
paese di paludi, piovischio e foschia”. Inès, terza di cinque sorelle, Elsa,
Gilda, Annie, Anabel, ha scoperto il mondo alle elementari. Un mondo ostile. “A
scuola”, spiegherà così in sintesi la materia del racconto, vissuto dall’alter
ego quattordicenne, Galla, “maestri e allievi mi picchiavano perché ero
diversa. Soffrivo e mi vergognavo. Colpevole di essere povera. Colpevole di
essere altro”.
Colpevole di non essere francese. Il romanzo è anche di un’estraneità. Voluta,
dichiarata, anche se non vissuta. Alla Francia, da insegnante di francese, e
scrittrice francese. Dovette imparare il francese a scuola, a casa parlavano la
lingua della madre, il vicentino. Isolata e osteggiata per questo, e per essere
povera, poverissima. Poiché era nata in Francia, è stata naturalizzata di
diritto francese, e questo la spoglia ancora di più: “Non ero francese e
non ero più italiana, non ero niente”. Fino all’ultimo, è morta nel 2007, di
settant’anni. A 67 anni avendo ribadito: “Non mi sono mai sentita francese”.
Questo e i successivi romanzi di Cagnati sono di una sorta di rancore – la
scrittrice, che ora si riscopre in Italia e in America, è rimasta per questo
parecchio isolata in Francia. Di non essere italiana, come era cresciuta, e di
non sentirsi francese. Il suo libro di maggior successo, “Génie la matta”,
dedicò alla madre compitandone il nome in italiano, Térésina Stédile (qui
purtroppo ricorre un Antonnella, per
una delle sorelle, perdonabile poiché è un sorellina nata cieca). Ma un rancore
non sterile: “Con la mia testimonianza ho voluto rendere meno assurde certe
vite fatte solo di miseria”, ha spiegato in una rara intervista.
Un racconto di amarezze, e cattiverie. Soprattutto a opera delle zie,
cattivissime. Ma
è di una zia che è venuta a stare con la nonna il solo regalo di Natale mai
ricevuto, “La piccola fiammiferaia”, dove la bambina alla fine muore ma muore
contenta. Mai una carezza, i genitori si occupano delle bestie, dei figli no.
Una sorellina vola incornata da una vacca, e poi cade stecchita. A scuola “oggetti
che spariscono ce ne sono molti, sono io che li prendo”, il racconto è in prima
persona: “È divertente. Spariscono così tante cose che ciascuno crede gli altri
ladri o futuri ladri. E io so che nessuno ruba” – lei ruba il denaro, solo gli
spiccioli, alle convittrici esterne – quelle che non ci dormono. E “i
professori”, che sono professoresse, che si fanno dire dalle allieve quello che
loro, professori, pensano.
La madre è anche qui la chiave del racconto, si saprà alla fine. Il giorno
di vacanza è il giorno in cui tutte le disgrazie culminano - il sabato che
Galla, convittrice interna a 35 km da casa, decide di tornare dalla madre con
la vecchia bicicletta. E il padre manesco la lascia fuori casa la notte.
Un racconto serrato di poche ore. Di solitudini e emarginazione, alla Olmi.
E un raro caso di scrittura. Dal metodo semplice: si procede per paginette, una
immagine, un soggetto, persona, animale, cosa, un evento. Ma esercizio già all’uscita
raro di creazione letteraria, di scrittura d’autore, anche se legato in qualche
modo, s’intuisce, alla rappresentazione di sé.
Inès Cagnati, Giorno di vacanza, Adelphi, pp. 151 € 18
“Tutti
i magistrati del caso Tortora fecero carriera. Tranne il giudice che lo assolse”.
Può annunciare “Il Dubbio” con questo catenaccio la ripubblicazione estiva
della raccolta di “Lettere a Francesca” (Scopelliti), la sua compagna, da parte
di Tortora, carcerato e condannato benché innocente. Non innocente fino a prova
contraria, innocente a conoscenza dei giudici che lo incolparono e lo condannarono
– quello di Tortora non fu un errore giudiziario.
Si
dovrebbe aggiungere che nessuno chiese scusa, nessuno dei giudici della Procura
e del Tribunale – Tortora fu assolto solo in Appello, dopo alcuni anni.
“Resistere,
resistere,. resistere”, c’è anche il combattente Larussa nelle foto della
passerella in Galleria che che Borrelli regale si concesse con i damigelli Di
Pietro e Colombo all’uscita dal funerale in Duomo per la strage di via Palestro
ttrent’anni fa. Certo, Di Pietro non c’è più, e Larussa presiede il Senato – dopo
Mattarella viene lui. Più onesto o più abile?
L’Italia
femminile del calcio debutta con una vittoria, ed è tutti noi. Girelli, che ha fatto
il gol vincente, un’eroina. L’allenatrice pure. Boattin fa le prime pagine
perché convive con una svedese sua compagna di squadra nella Juventus. Poi
l’Italia becca proprio dalla Svezia cinque gol, con l’eroina Girelli in
panchina, e scompare: niente più tg, neanche alla Rai, che ha (paga) l’esclusiva
del Mondale femninile, e pure i giornali hanno il broncio. Se non vince, l’Italia
non c’è.
L’Italia
non va più al Mondiale di calcio da una dozzina d’anni, poiché non ha calciatori
bravi, non li forma, e ora ammette come “comunitari” anche i calciatori britannici
e svizzeri. Cosmopolitismo? No, Gravina, il capo del calcio, è stato messo lì
da Galliani-(ex) Milan e da Lotito, e fa quello che gli dicono di fare, il
calcio come commercio.
“Il
Fondo Monetario Internazionale promuove l’Italia meglio di Francia e Germania”.
Il giornalismo della gloriola. La gloriola è l’unica politica estera di cui si
trova ancora traccia nei media, dell’economia come del calcio. Senza sapere che
se Germania e Francia non vanno bene, l’Italia andrà male.
Non
c’è danno che da qualche tempo la Ferrari non si infligga. È curioso, ma da
quando c’è Elkann a capo della Famiglia Agnelli, la Fiat non c’è più, la Ferrari
va male, la Juventus peggio (un miliardo e mezzo di capitale bruciato in due anni,
e una miriade di processi, penali e sportivi, sul capo). I dividendi,invece,
questo il curioso, aumentano per la Famiglia (Exor). Da Stellantis, da Ferrari,
perfino da Juventus.
Lukaku,
Cuadrado, il colore della maglia non è più un totem. Non è una novità: molti
calciatori si sono accasati di fronte, sopratutto a carriera inoltrata, tra le rivali
milanesi, romane e torinesi, e tra nemici storici. Ma è anche vero che i miti
rimangono quelli che non hanno “tradito”, Maradona, John Charles, Jeppson, Gre-No-Li,
anche se Liedhom, da allenatore, qualche capriccio se lo è preso (a Roma di
lusso), Platini – gli stessi Sivori, Suarez, anche se prolungarono la carriera
di qualche anno altrove.
A
proposito di tradimenti, il filone di trasferimenti più grosso è probabilmente
quello che intercorre tra due delle più irriducibili
nemiche del campionato, Fiorentina e Juventus. Il più sostanzioso, da Firenze a
Torino: Vlahovic, Chiesa, Bernardeschi (a Firenze sbocciano, a Torino si
perdono), Baggio, cinque anni di Juventus dopo cinque di Fiorentina, Felipe
Melo, Cervato. Il più numeroso da Torino a Firenze, Arthur oggi, Pjaca, Maresca, Blasi,
Amauri, Di Livio,Torricelli, Gentile, Cuccureddu, e soprattutto Mutu, arrivato
quasi gratis, ma la Fiorentina ci fece cinque campionati.
Sulla
morte di Purgatori, per più aspetti inevitabile, s’innesta una causa per danni,
per malasanità: diagnosi errate e\o terapie sbagliate. Avvocati erano già al
lavoro, con testimonianze, diagnosi accusatorie, intercettazioni. È pratica
ormai anche italiana quella dei contingency
lawyers della tradizione americana:
avvocati a percentuale, che si rivalgono sui danni eventualmente liquidati. Che
sembra una pratica giusta, ma somiglia a un ricatto. Ed è il fattore maggiore
del caro sanità, in studio, in clinica, in ospedale. Che si devono assicurare
anche contro i processi. I contingency
lawyers lavorano contro le
assicurazioni e contro le grandi aziende.
Un
grande edificio carcerario alle porte di Romna. Dove la quindicenne rifiuta
ogni contatto e anche ogni pasticcca. Sarà per questo legata, isolata, controllata,
picchiata, in questa e in altre cliniche per la salute mentale dove la
sollecitudine familiare la rinchiudeva, “costruzioni eleganti, chiamate «ville»,
cliniche rivate intese a «curare» il pazzo”. Ma non ci sarà niente da fare, lei
non si farà togliere la sua ragione, o meglio le sue ragioni.
Questo
succedeva in Italia prima della rivoluzione psichiatrica di Basaglia. Ma inanto
c’era stata la scoperta di un asilo diverso, in Francia, dove la ragazza
arivava da sola, e non c’era un apparato di accoglienza carceraria ad
aspettarla. Tutto aperto, tutto semplice, tutto compagnoneria e ascolto. Dove
si entrava solo col consenso del “pazzo”. La clinca de La Borde, in Sologne, un
castello, in “un luogo pieno di alberi”, e di “porte aperte”. Dove “la nonna
(di madre francese)” le aveva raccontato
di “cliniche per le bambole rotte dalle bambine”. E dove fu accolta in una stanza
tutta per sé. Bastò per risolvere i suoi
problemi. E fu la pace.
Un
r acconto senza illusioni. “Conobbi altre ospedalizzazioni, nel corso della mia
vita, in altri luoghi, di nuovo a La Borde. Più crudeli, queste ospedalizzazioni.
Proprio come più crudeli furono i deliri che li accompagnarono, passando il
tempo, avanazndo l’età. Perché quando si è scoperta la porticina che conduce
dall’altro lato dello specchio, la si usa (si impara a usarla?) quando una difficoltà
troppo dolorosa, troppo feroce da sopportare si profila all’orizzonte”.
Antonella
Santacroce, L’amour (ardente) de la
liberté, “Chimères” 2009\2, n. 720, pp. 209-218, free online