zeulig
Confine –Ridotto a segno tipografico, è la nozione
probabilmente più curiosa dell’essere umano,
dell’essere in generale. Che per essere ha bisogno di un confine – di un
limite, di una delimitazione-definizione. Dovrebbe essere estraneo alla concezione
del mondo come a sé stante, da big bang a big bang, qualcosa che si moltiplica -
s’incrementa o semplicemente muta - senza sosta, avendo l’illimitatezza come
suo distintivo, il vecchio panteismo, e invece è ad esso connaturato.
Kant
distingue tra limite e confine. Si possono superare i confini, questo è il
proprio degli esseri viventi, specie degli umani, che lavorano al progresso –
miglioramento degli assetti “naturali” (preordinati, precedenti). Ma nella creatività, la sperimentazione di nuovi
possibili, è necessario che vi siano dei limiti. Che i possibili cioè siano
delimitati da presupposti – che non siano distruttivi, che non siano violenti o
immorali.
Heidegger
argomenta al contrario, che nel limite l’essere prende senso. Ma è un sofisma:
non si vede perché l’essere dovrebbe essere limitato, oppure limitarsi. In questa
direzione semmai prende senso come spazio di libertà, come inveramento della
nozione di libertà. Che non può essere illimitata e anzi il confine o il limite
lo necessita, altrimenti è distruttiva. Cioè il contrario della libertà, che
non si vuole aggressiva – la libertà è relativa, in rapporto ad altre entità.
Il concetto
del possibile è un’esercitazione ininterrotta, e il fondamento dello sviluppo
umano – delle conoscenze, delle possibilità. Un confine elastico, teoricamente
all’infinito, ma necessario, per il bisogno di una continua revisione-riscontro.
Ogni previsione è un’esercitazione del possibile, cioè dei limiti della realtà.
La
limitatezza si direbbe semmai il fondamento del creato, di un mondo nato e non
auto propulsivo. Nato, per autocombustione o per direttiva, con delle regole,
fisiche, fisiologiche, logiche. Un caso sono, da cinquant’anni a questa parte,
le tante analisi sui limiti necessari alla crescita economica e sui limiti
(vincoli) della natura: non tutto è permesso, non tutto è possibile. Il limite
incorporando nel nuovo concetto della sostenibilità. Ma sempre c’è stato un
calcolo del possibile. Prova ne sia, in sociopolitica ma anche in logica, l’esigenza
di limiti per un governo corretto del mondo – limiti al potere. L’esigenza della
legge, che è il governo dei limiti - misura e sanzione del possibile.
È un
esercizio di fine tuning. Di conoscenza
o comprensione dei fenomeni e di giudizio critico – di decisioni accorte, di mezzi
cioè indirizzati al fine voluto, una scelta tra varie opzioni, più o meno
limitate. È la misura. Di cui si rileva la mansione oggi con facilità, nella
contemporaneità, tra mercato (“arricchitevi”, accumulate) , consumi, e diritti.
Che si presenta come una forma, un’epoca, di iperindividualismo, ed è invece
grettezza, limitatezza, per mancanza di senso del limite – il limite,
paradossalmente, acuisce l’intelligenza del mondo, la disposizione e la
capacità di comprendere.
Libertà – Funziona come la conoscenza in Kant, limitata.
La mente organizza attraverso le categorie l’esperienza sensoriale, ma la
classificazione è necessariamente limitata (come la scienza), non permette di
conoscere il reale in se stesso – il reale è il nostro reale, a mano a mano che la percezione del reale a sé stante
procede.
“Le
forme elementari della vita religiosa” di Durkheim vede la libertà sorgere con
i tabù, con i limiti alla disponibilità perfino alla conoscenza (analisi).
Tabù-limiti che Simmel può dire condizionanti per l’esistenza di una società,
in quanto la caratterizza e insieme la delimita, la contorna. All’esterno ma
anche all’interno, come funzionamento – molta sociologia è stata all’opera in
tal senso, da Max Weber a Talcott Parsons.
In epoca di presunta massima libertà il
“Corriere della sera”-Milano sente il bisogno di una tre giorni di riflessioni e
spettacoli in tema. Partendo da un supplemento di ben 56 pagine di giornale.
Dove però non sembra ci sia molto. Barbara Stefanelli apre ammonendo che “in
tempi di incertezza ci si illude di poter essere liberi in solitudine. E invece
la libertà si definisce insieme nel confronto”. Ma le storie del festival sono
di solitudini orgogliose, e di successi più o meno artistici, compresi gli-le
influencer, che invece sono pressioni commerciali camuffate –adeguate alla comunicazione
via social.
Mefistofele
– “Come
l’etimologia stessa suggerisce è il Portatore di Luce, il benefattore dell’intelligenza
e del sapere”, Quirino Principe, “La musica è una cura senza farmaci”,
intervista con Antonio Gnoli sul “Robinson” 19 agosto – “Lucifero ha insegnato
a disobbedire a chi ci vietava di cogliere i frutti della conoscenza”. Bene, si
sapeva. Lucifero “ha anche altri nomi: Dioniso, Prometeo, Thot”. Bene anche
questo. Ma, chiede Principe al suo
intervistatore, “Le sembra giusto che Dio ci privi del nostro diritto alla pur
minima parvenza di felicità concedendoci in cambio soltanto una beata ebetudine
nell’al di là”? Una “parvenza di felicità” quale sarebbe la conoscenza.
Ma è Dio, o il Dio della Bibbia? Ha altri nomi,
altri modi di essere.
Specchio – Come
spettacolo, spectaculum, e
speculazione? “C’è molta affinità tra lo spectaculum e lo speculum”, Quirino Principe
nell’intervista succitata: “L’essere rappresentato in uno spettacolo è affine
alle forme che ci appaiono in uno specchio, e ciascuna di quelle forme è una
parvenza, un fantasma, uno spectrum”.
zeulig@antiit.eu
Uno scrittore non più in
edizione, ed è un peccato. Questi racconti, per lo più veloci (di quando le
“terze pagine” dei quotidiani gratificavano gli scrittori, oltre che di
notorietà, di che vivere senza profondersi in altri mestieri), per lo più di
adolescenti o ricordi dell’adolescenza-prima giovinezza, racconti “di formazione”,
quasi mai drammatici, sebbene di aspettative spesso frustrate, sono curiosamente
vivi a distanza di generazioni, e di mutatissimi contesti. Su tematiche insieme
lievi e pesanti, e caratteristicamente indefinibili, non sistematizzabili: i rapporti
uomo-donna, com’era d’uso, ma anche i rapporti adolescenti-adulti, e l’amicizia,
un tempo fortissima e oggi dimenticata.
Si inizia con un gustoso controelogio
del paese di origine, San Luca, che per una serie di circostanze non volute caratterizza
Alvaro come autore, lo scrittore forse più cosmopolita del Novecento, prima di
Arbasino, legando alle radici. “La cavalla nera”, l’unico racconto lungo, che
apre la raccolta, anzi ne apre la sezione “Incontri d’amore”, è un non benevolo,
un po’ satirico, ritratto dei potamiesi. Potamia è l’antico San Luca, un paese
devastato da un terribile terremoto nel 1592, poi ricostruito a valle, verso la
costa, col nome nuovo del santo protettore, la cui statua restò incolume nel
sisma, ed era stata portata via dai sopravvissuti. Quando arrivano i potamiesi in
città si chiudono le porte, si chiudono i cancelli, si chiudono i fondaci: i
potamiesi non sono cattivi, ma non hanno il senso del tuo e del mio - le loro
donne in compenso sono “dure e forti”, “ghiotte e curiose”, “e sono proprio
belle” (la “donna del Sud”?).
Corrado Alvaro, 75 racconti, Bompiani, pp. 533, ill.,
ril., pp.vv.
La frutta costa, è costata questa
estate, due volte il prezzo dell’anno scorso, anche due volte e mezza. I pomodori,
introvabili (quelli di stagione) nel loro mese, agost, una volta e mezza-due.
Tutto costa molto di più - la benzina si sa, e le bollette, tutti i generi di
prima necessità, e tutti i servizi, dal bar alla trattoria. Ben più del pallido
6-7-8 per cento di carovita che l’Istat s’ingegna di certificare. E l’effetto si
vede nel pil, che ha già denunciato un calo nel secondo trimestre, e un altro
calo si prevede registrerà nel trimestre in corso. Senza altro motivo che il calo
dei consumi. Le esportazioni tirano, l’Italia vanta un surplus record fra i paesi
industriali. La produzione pure, al netto del quasi abbandono delle fabbriche
italiane da parte della ex Fiat. I consumi si sono ridotti e continuano a
ridursi.
Perché non se ne parla? Perché
non si adottano politiche di rilancio dei consumi – che non siano le grida di prezzi
bloccati? Perché non in Italia (uno sguardo comparato sugli altri paesi, dagli Stati
Uniti in giù, rivela un dibatito quotidiano, attivo, su inflazione, cause e
rimedi)?
Un po’ è l’indigenza dell’opinione
pubblica, dei mezzi d’informazione. Ma soptrattuto pesa l’indigenza del
dibattito politico. In senso alto, dei sindacati oltre che dei partiti, e degli
intellettuali, gli economisti, gli opinionisti: è come se l’Italia vivesse nell’acquario.
Si prenda per un attimo il calcio
sul serio. La Cassazioe dice che un certo processo a una squadra di calcio, la
Juventus, intentato a Torino, con tanto di condanna “morale” col semplice rinvio
a giudizio, non esiste. È stata fatta erroneamente,Torino non ne aveva la competenza.
Semmai andrà rifatta in altra sede – a Roma. L’istrittoria torinese intanto ha
azionato, oltre la condanna “morale”, il sospetto resta, una pesante condanna
del cosidetto tribunale sportivo, che ha valso al club incriminato la perdita
di 50-80 milioni – un bilancio.
Del tribunale sperotivo è inutile
parlare – si sa, sono ammucchiate di politicanteria romana. Della Cassazione
no, invece bisogna parlarne: la sentenza è importante e perfino incredibile. Sia
per quanto è successo prima della sentenza, sia per quanto dovrebbe ma non
succede dopo. Una Procura che non aveva titolo, di tifosi di una squadra rivale
di quella incriminata, supportata e forse azionata da una sollecita Guardia di
Finanza (di cui però non si può parlare), s’inventa un’istruttoria su cui non aveva competenza, e
promuove un giudizio – assortito da accorti annunci e preannunci, indiscrezioni,
anticipazioni, da parte degli inquirenti - con condanna preliminare, senza cioè
nessuna sentenza. Ma questa Procura non viene sanzionata in nessun modo – della
Finanza nom si può dire, non si sa.
La giustizia è al di sopra della
legge? O anche questo non si può dire – la giustizia fa capo a Mattarella, e il
capo dello Stato è intoccabile? Perché nessuno lo dice – a parte l’infaticabile
Alessandro Barbano, che con Zazzaroni fa il “Corriere dello Sport”.
Ma c’era una volta il partito
Comunista in Italia? E cosa faceva? L’ennesimo film (prima o dopo Moretti?) di
ex Pci che un po’ si consolano e un po’ si negano.
Neri Marcoré, militante Pci, al funerale di Berlinguer
nel 1984 è vittima di un incidente e resta in coma per 31 anni. Quando si
risveglia, non si raccapezza. Le inevitabili gags però non divertono. Forse non c’è abbastanza distacco.
Veltroni, un comunista puro e duro da ragazzo
(dirigeva la proscrizione dei giornalisti), è stato il primo allo scioglimento
del Pci a proclamarsi non comunista e anzi buon cristiano, con pellegrinaggi a
Dossetti, La Pira e tutti gli altri santi. Fino a fondare nel 2006 il Pd, come partito
delle anime buone – benché del compromesso, anche se storico.
Un film nostalgico. E non si
capisce di che, se il partito della nostalgia si è sciolto quando si è sciolta
l’Unione Sovietica. Dopo aver fatto molti danni, soprattutto a Roma – ma anche
in Centro Italia (Bologna e Ancona si governavano bene anche col papa, Firenze comunista
dopo La Pira è stata un abominio di rendite urbane – il Pci ha avuto un ruolo,
benefico, da Napoli in giù, ma presto ci aveva rinunciato). Il settarismo, per
quanto buonista, è indefettibile.
Walter Veltroni, Quando, Sky Cinema Uno
Succede di incontrare, in città durante
l’anno e in estate negli spostamenti, al mare o in campagna o in montagna, in
casa o da amici o anche nei locali, clienti o serventi, donne per lo più e
uomini che in qualche modo si penserebbero astiosi verso la Russia, di
provenienza moldava, georgiana, bulgara, bielorussa etc, insomma dell’Est. Che
invece sono riservate, tutte. Perfino qualche ucraina. Con un fondo di rispetto
verso la Russia. Partecipi forse di quello che qualcuno ha anche detto,
qualcuna per la verità, ma giovane, e quindi si penserebbe senza memoria
storica: “Con la Russia si stava meglio”. Cioè col sistema sovietico, della
sanità, la scuola, il lavoro e un futuro garantiti. Mentre ora c’è la
possibilità d’inebriarsi alla luce del mercato, ma poi c’è tanta fatica. E
questa dura, mentre il mercato ha stufato.
Si è liquidato senza appello –
senza riesame - il sovietismo, la rivoluzione “socialista”. È vero che il
mercato produce più merci, ma è anche vero che è aggressivo, ogni giorno. E
questo pesa. Il riserbo è comprensibile: è gente che ha dovuto emigrare per
sopravvivere alle promesse care del mercato e mantenere la famiglia, figli,
genitori, vivere soli, imparare lingue straniere (il russo serve ancora come
lingua comune), lavorare a ore, molte ore al giorno. È comunque curiosa la
reticenza sulla Russia, che niente e nessuno obbliga a rispettare.
Il nazionalismo nei confronti
dell’imperialismo russo ha molte frecce. Ma la memoria sovietica non è ingrata,
o dell’impero russo pre-sovietico nel suo insieme. Comprese le assurdità dello
stalinismo, peraltro analizzate e digerite – il sovietismo non era il nazismo,
per la questione ebraica ma non solo: per la questione ebraica come di tutte le
nazionalità, rispettate e anzi promosse.
Un racconto fuori tema, o fuori schema – si direbbe eccezionale. È la storia del tuttofare un po’ scemo di una casa d’appuntamenti a Roma, che racconta le sue giornate. Come e quando fa la spesa per la signora e per le ragazze, o le accompagna con gli “auti” agli appuntamenti, un paio di volte alle Acque Albule, per cui nell’attesa visita la villa Adriana, che gli apre un garbuglio di deduzioni su ciò che è e ciò che non è (fra attribuzioni, ricostruzioni, descrizioni del libro, la guida, subito poi smentite o ridotte a ipotesi), e ha un idillio all’ospedale con una delle ragazze, che si è “sparata” quando l’amica con cui conviveva l’ha lasciata. La storia di un linguaggio ordinario, così come si pratica giorno per giorno, fratto, ripetitivo, mugugnato per lo più, scurrile senza esserlo.
La vita quotidiana del “Professore”, un semplice, al servizio di donne non più complicate di lui, in una casa di via Sallustiana, zona Trinità dei Monti, la bellezza nel suo fulgore. Ma senza slanci, di bellezza o signorilità, o ricchezza: il mondo grigio della piccola gente. Della prostituzione che non è, non si riconosce, non se ne parla. Nella lingua di tutti i giorni: un romanesco in cui ognuno si riconosce - che non è quello contemporaneo di Pasolini, e neppure di Gadda, e nemmeno del Belli, anche lui erudito, molto.
L’edizione Avagliano, una ripresa quasi filologica, è seguita da una nota al testo corposa, di Domenico Scarpa – un omaggio “a Franco Lucentini per i suoi ottant’anni”, nel 2000. Che lo vuole un racconto “tragicamente comico”. Tragicamente? Ma è vero che il risvolto alla prima edizione rimandava a Beckett, alle “monologanti larve di un Beckett”. Scarpa fa grande caso della filosofia che sta dietro il binomio F&L, e specie dietro Lucentini – di cui sottolinea una sorta di ruolo-guida all’interno della “ditta”, per un fondo filosofico costante. Dal suo proprio “Compagni sconosciuti” alle coproduzioni “L’idraulico non verrà”, “A che punto è la notte”. “La cosa in sé”, “L’amante senza fissa dimora”, “Enigma in luogo di mare” – e va aggiunto “Il significato dell’esistenza”. Basandosi soprattutto sui versi di “L’idraulico non verrà”, la parte di Lucentini, le tredici stanze di un Libro I di un poema intitolato “Epigrafica e metafisica”. Un poema di cui non si hanno i libri successivi, ma d’impostazione chiara, per Scarpa, da “Lucrezio trasognato”, col disordine crescente e la morte termica dell’universo. “Ritroveremo questa desolata visione del mondo”, insiste Scarpa, “nelle teorie gnostiche sulle quali è impalcato il romanzo più ambizioso di F&L, ‘A che punto è la notte’” - e qui bisognerebbe citare, con la gnosi, Evola più che Lucrezio, una sorta di esoterismo ragionato. Ma questo “Notizie dagli scavi“ non sembra collimare, se non per il titolo. Bisogna dirlo un racconto-romanzo sfuggito di mano, di vita propria, indipendente e contro l’autore, contro il progetto? Ma Lucentini è forse più di Fruttero lieve, anche nella filosofia - e malgrado il suicidio finale.
È il racconto - “romanzo” lo vuole l’edizione Scarpa-Avagliano – più fortunato di Lucentini. Nel 1964, in prima edizione, titolava una ripresa Feltrinelli di tre racconti, con “I compagni sconosciuti”, già uscito nei “Gettoni” Einaudi, e “La porta”, già pubblicato su “Nuovi Argomenti”. La stessa raccolta è stata ripubblicata nel 1973 da Mondadori, dove F&L erano passati intanto a lavorare, con una lunga prefazione di Fruttero, intitolata “Ritratto dell’artista come anima bella” – una “vita di Plutarco” secondo Citati, di cui lo stesso Fruttero racconterà le peripezie su “La Stampa”, 2 ottobre 1973 (“La prefazione”, occhiello “F. senz L.”).
Nella breve premessa alla prima edizione, 1964, Lucentini parlava di “un filo di autobiografia ideale”. Di una malinconia che c’è, anche molto evidente, negli altri due racconti, ma non in questo, dove si ride: difficile immettervi il racconto del titolo, questo, se non per il gusto mistilinguistico. Qui primario, ridotto alla balbuzie essenziale, ma per questo tanto più pregnante. Scarpa ci vede un progetto filosofico, “una metafisica”, del “professore che intuisce la vanità delle nozioni di tempo e di realtà, e ne approfitta per cominciare a vivere”. Ma è difficile leggere il racconto in questa chiave. E poi, che gusto ci sarebbe?
È comunque un hapax della letteratura, e della letteratura come linguaggio: la testimonianza-scoperta della lingua vera dei poveri veri, di spirito. In anni di sperimentazione linguistica d’invenzione, una sorta di contro-sperimentazione, del sensibile o significativo inarticolato. Di uno scrittore che di linguaggi viveva, scout letterario a Parigi delle letterature di tutta Europa, ferrato traduttore da sette lingue. Ma ai margini del mainstream letterario, mancando di impegno politico, o della piccola socialità romana. Una situazione e un personaggio tanto ovvi quanto eccezionali, per questa lingua “smozzicata”, parlata senza futuro. Con una ironica pubblicità occulta a “Urania” e al “Giallo Mondadori” che F&L in quegli anni curavano.
Franco Lucentini, Notizie dagli scavi, Avagliano, pp. 109 € 7,20
Oscar, pp. 96 € 11
Il cosiddetto Occidente, cioè gli
Stati Uniti, vuole “la pace in Ucraina”, cioè una qualche forma di armistizio,
perché voleva e vuole la Russia indebolita, ma non molto. La vuole isolata
politicamente ed economicamente, quindi nel bisogno, ma non indebolita
militarmente. Il “nemico” dell’Occidente-Usa in questa fase e per i prossimi
decenni è la Cina. Già dalla fine della presidenza Trump, con le iniziative
fatte assumere alla speaker parlamentare
Pelosi. Il nuovo “gioco” kiplinghiano è chiaro alla Farnesina e in Europa,
anche se non si dice.
L’obiettivo della offensiva di
pace è di non rendere la Russia vassalla della Cina. E in qualche modo anzi
ravvivarne le storiche rivalità, in Centro-Asia, nelle vaste repubbliche
post-sovietiche, e nel Pacifico.
Gli Stati Uniti hanno molte
concessioni da fare per portare la Russia a una trattativa, data l’ampiezza
delle sanzioni comminate, e a cui hanno convinto o costretto gli alleati. Non
esclusa una revisione della condanna di Putin da parte della Corte penale
internazionale dell’Aja – che gli Stati Uniti hanno voluto e praticamente
imposto, anche se non riconoscono la Corte (si dà per scontata la permanenza di
Putin al potere a Mosca). Il governo americano può scongelare gli immensi fondi
russi investiti in titoli americani o in deposito presso le banche della
Federal Reserve, bloccati dall’inizio della guerra. E può consentire l’esportazione
immediata di granaglie, in attesa di liberare le esportazioni di gas e petrolio,
e di minerali pregiati.
L’obiettivo che ora si presenta
come “opzione di pace” era manifesto da tempo, perfino dichiarato. Da circa
trent’anni. Al Pentagono, al Dipartimento di Stato e nella pubblicistica.
Dimostrare la debolezza militare della Russia, già manifesta in Afghanistan e in
Cecenia, al netto dell’arsenale nucleare. Scartata l’opportunità di “armare” i
nemici storici della Russia, Polonia e Romania, paesi forti e poco
controllabili, si è puntato sulla
Georgia e sull’Ucraina. La Georgia per la vecchia ostilità, di secoli, l’Ucraina
perché malleabile, data la corruzione diffusa . Due colpi di Stato anti-russi,
sotto apparenze civili, di piazza, sono stati organizzati e finanziati in
Ucraina, dagli Stati Uniti e dalla Germania (a vantaggio di élites che poi sono finite in carcere o
a processo per corruzione).
La prima reazione russa, con l’invasione
e l’annessione della Crimea, è stata risolta con accordi, patrocinati dall’“Occidente”,
mai attuati. Mentre un’altra area di frizione si apriva, contro i russi del Donbass.
L’armistizio che si cerca d’imporre
in Ucraina - di fatto all’Ucraina, con una parte del paese occupata dalla
Russia - non può essere l’avvio di un negoziato di pace: nessun governo ucraino
può, dopo un anno e mezzo di guerra di resistenza, accettare lo status quo. Ma
serve ad avviare il “disgelo” con la Russia, anche con Putin al governo.
L’ex ministro del Tesoro Gualtieri,
quello dei bonus edilizi a gogò, si giustifica oggi su “la Repubblica”: il
Superbonus era a tempo, doveva essere bloccato a fine 2021, etc. Il sindaco ora di Roma si vorrebbe Nessuno, eroe omerico furbo a fronte di un ciclope di scarsa vista. Ma inteviene
tardi, e forse giusto perché il danno è di giorno in giorno più grave: ha compromesso
la finanza pubblica, rendendo vani gli sforzi italiani di contenimento della
spesa. Le stime del Fondo Monetario Internazionale, anteriori al bubbone, sui
saldi strutturali del bilancio pubblico 2023 fra i paesi del G 7 davano
l’Italia, con un – 3,8 per cento, in posizione migliore di Francia, Regno
Unito, Giappone e Stati Uniti – e addirittura, unico paese fra i sette, con un
attivo nel saldo primario.
Questi bonus sono stati opera di
governi di sinistra e di destra, con i 5 Stelle e col Pd governando la Lega e Forza Italia. Ma
Gualtieri, tardivo e leguleio, non fuga l’idea di un “partito nascosto” del
debito. Dello spendiamo, e arrangiatevi. A cuor leggero: da una parte impegnando
i condominii (in teoria tutti i condominii d’Italia) in costose ristrutturazioni,
mentre dall’altra le banche, non avendo nessun obbligo di scontare il
superbonus lo hanno scontato finché ci hanno guadagnato facile, poi hanno
chiuso (hanno potuto chiudere) lo sportello. Senza scandalo.
Tutto ciò fa parte della dialettica
politica. Dell’incapacità politica, se si vuole, che il pubblico può sanzionare,
ne ha lo strumento, nel voto ogni pochi mesi. Ma il problema è anche di chi non
ha saputo o voluto opporsi alla spesa pubblica in debito, nella Funzione
Pubblica e nelle istituzioni: da quando si fa spesa senza copertura e senza
controlli?
Su tutti, è un problema anche il
silenzio dei media: non un’indagine, un commento, una spiegazione in mancanza di
altro, di cosa è successo e sta succedendo. Succede nei media come nelle mafie,
dove non si sente, non si vede, non si parla: titoli a iosa su Giorgetti, il Tesoro,
la Ragioneria, i costruttori, e mai una spiegazione, un’analisi, una censura.
Solo perché la slavina è stata avviata dal governo Draghi.
“L’indebitamento
netto effettivo, compresi i fondi speciali (Sondervermögen),
è molto superiore all’indebitamento netto indicato nel bilancio”: la Corte dei
Conti tedesca scopre infine, dopo un decennio, come la Germania fa debito senza
parere. Il governo tedesco chiama fondi speciali, fuori bilancio, le spese per
investimenti di scopo, come il clima, la trasformazione energetica, il riarmo.
E si tratta di ben 869 miliardi, di cui 522 di “debito potenziale” alla fine
dell’anno scorso.
L’indebitamento
“speciale” è di fatto quello che l’Italia chiede da qualche anno a Bruxelles.
Invano. Ma non per un deficit di formulazione giuridica. Perché la Ue va effettivamente
a due velocità: quella della Germania e dei paesi satelliti, e quella degli
altri, aggiustabile, al livello basso.
Fino
a una dozzina d’anni fa, alla crisi del debito e al rischio implosione
dell’euro, la Germania faceva liberamente debito non contabilizzato attraverso
il Kreditanstalt für Wierderaufbau, una banca per la ricostruzione, che essendo
di diritto privato benché di proprietà pubblica si poteva assumere molti debiti
extra bilancio statale - benché ultimamente ridimensionata, aveva un attivo
l’anno scorso di ben 555 miliardi (la Cdp è stata tardivamente rimodellata,
vent’anni fa, sull’esempio tedesco).
Un viaggio sfibrante, di una
ventina d’ore, con un jet lag pesante,
di sei-sette ore, per una visita di tre giorni, a una comunità di fedeli che non
riempie una chiesa, e poi si è capito perché: per esprimere “rispetto e
ammirazione per la Cina”. Perché non dirlo da Roma? Perché Ulan Bator è una
finestra sulla Cina? Non lo è, ci sono alcune migliaia di km., e molta storia
avversa, tra la capitale mongola e Pechino.
Certo, non si può escludere un
fenomeno di “fata morgana”, di Pechino trasportata dalle nubi ai piedi di Ulan
Bator, capitale di montagna. Un miracolo, il papa deve credere ai miracoli. Ma
i trascorsi non sono buoni tra i due paesi, e anzi da un secolo la Mongolia
vive all’ombra della Russia, per difendersi dalla Cina – oltre che dal
Giappone. Cosa che naturalmente il papa sa.
E allora? Forse fa più effetto
pregiare la Cina, la Cina di Xi, dall’Asia, da un gentiluomo quasi novantenne
che si fa mezza giornata d’aereo fresco come un giovincello? Forse, ma senza
forse, il papa sottovaluta il comunismo in Cina. Siccome fa affari, penserà che
la Cina di Xi sia uno dei tanti Paesi capitalisti. A cui il comunismo dà
un’anima.
Il candore con cui Francesco ha
spiegato che nomina i suoi vescovi e gestisce le sue parrocchie d’accordo col
governo, come un tempo si faceva con le monarchie europee, pratica deprecabile
e abbandonata da tempo, dice che è così. Anzi peggio, se è vero, come il papa
dice, che ministri del culto e organizzatori cattolici si formano in Italia
scelti e inviati dal governo comunista.
Molti maschietti eccellenti sono
stati contattati per allenare la nazionale di calcio femminile. Tutti hanno
detto di no. È curioso. Non deve essere un bell’ambientino.
Curioso anche alla nazionale
femminile di pallavolo, dove Paola Egonu si nega, per la seconda volta in due
anni. Questa volta perché in concorrenza con Ekaterina Antropova. Egonu e
Antropova si direbbero le Rivera e Mazzola del volley, ma anche qui è in
discussione la panchina dell’allenatore.
Almeno nello sport si direbbe che
maschio e femmina ancora fanno la differenza. Anche per il concomitante
scandalo in Spagna, dove la vittoria della nazionale femminile di calcio al
Mondiale è stata offuscata da dimissioni, sanzioni e polemiche dopo il bacio
di un dirigente federale a una calciatrice: tutti schierati con l’atleta, ma a
disagio.
Si direbbe aria di revanscismo.
Il festival del cinema di Venezia s’illustra ospitando con molto glamour tre vecchietti, Roman Polanski,
Woody Allen e Luc Besson. Besson per la verità è solo sessantacinquenne, ma
tutt’e tre hanno trascorsi o sono sotto accusa per molestie e\o violenze
sessuali, a danno di donne.
Quattro
racconti lunghi, la misura più congeniale ad Alvaro, pubblicati nel 1934. “L’uomo
nel labirinto” (titolo poi rubato da Carrisi), successivamente edito spesso a parte,
è un quasi romanzo: è la storia di un giovane meridionale smobilitato dopo la Grande
Guerra a disagio nella Grande Città. Deluso. timoroso di non farcela. Una storia
poi comune, di migrazione interna, di disadattamento, tra speranze sempre rinnovate
e delusioni: la difficoltà per il provinciale di inserirsi.
Gli
altri tre racconti formano o svolgono una sorta di “educazione sentimentale”
alla Flaubert, vaga e solipsistica, anche poco drammatica. “Tra di noi, su quella
spiaggia, accadeva qualche cosa, ma esisteva senza parole e senza possibilità
di spiegazioni”: “Il mare”, il racconto del titolo, è di un mondo misto,
italiano e straniero, ricco e oovero, intelletuale e manuale, che era di Capri
e sarà di Positano. Con la bella Hélène che s’imbarca alla fine col fedele
pescatore che è il suo amore, lasciando i poeti con la febbre.
“Solitudine”
e “L’ultima delle mille e una notte” ambientano le relazioni, sempre vaghe,
incerte, onnivore ma limitate, a Berlino e a Parigi, dove Alvaro fu nel
dopoguerra corrispondente. Una storia di amore intellettuale a Berlino, di
sesso senza parole malgrado i tanti discorsi, e forse senz’anima. E della
voglia di vivere, tra Parigi e Istanbul, che meglio viene in affari – l’amore,
il matrimonio, il protagonista avventuriero e truffatore vive di facciata.
Le tracce di questi racconti sono lievi: accennate, ipotizzate. Come sarà di tutta la narrativa di
Alvaro, dopo la rudezza di “Gente in Aspromonte”. E cosmopolite, senza
esotismi o idiotismi. A Istanbul, altra esperienza di lavoro giornalistico di
Alvaro (ne aveva tratto un libro, “Viaggio in Turchia”, Treves, 1932), il racconto
assume un ritmo comico. Un ritmo e una fantasia che non riemergono altrove nei
tantissimi scritti di Alvaro e invece funzionano: si diventa ricchi perché
Kemal Atatürk ha decretato la fine del fez, con conseguente tassonomia e
filosofia del cappello.
Corrado
Alvaro, Il mare, Rubbettino, pp.
194, ril. € 6
Giuseppe Leuzzi
È originato al Sud il deficit
demografico dell’Italia, sancito dall’Istat da un paio d’anni (i morti sono più
dei nuovi residenti) – di fatto già previsto a metà degli anni 1995 in base ai
tassi di fertilità. Lo certifica la scomposizione dei dati Istat da parte della
Cgia di Mestre, che ha ricostruito regione per regione il calo delle nascite, e
quindi della popolazione attiva.
Il numero dei giovani “nuovi
attivi”, tra i 15 e i 34 anni, è diminuito di poco meno di un milione negli
ultimi dieci anni. In termini nazionali il calo è stato del 7 per cento. Ma è
determianto dal Mezzogiono. In Sardegna il calo è stato del 19,9 per cento. In
Caabria del 19. In Molise del 17,5. In Basiicata del 16,8. In Sicilia del 15,3.
Il “pizzo nasce al Sud con i
briganti. Si paga e si tace”, nota il medico svizzero Horace Rilliet, in
Calabria nel 1851 con una spedizione militare (un giro delle province) del re
Ferdinando II: “Tutti vi trovano il propio utile; appena paga il cittadino non
è più molestato; il brigante ha il suo denaro; le guardie non devono più
sostenere combattimenti pericolosi; ecco un felice accordo”.
A Reggio Calabria un
imprenditore si arrampica sulle gru per protestare contro la confisca del suo patrimonio,
20 milioni. È stato processato per mafia due volte (ma con lo stesso
Procuratore Capo, poi da Reggio passato alla Direzione Nazionale Antimafie ora deputato
grilino, il nobile partenopeo Cafiero de Raho), e due volte assolto, ma intanto
i beni gli sono stati confiscati. È stato riecvuto dal nuovo Procuratore Capo
Bombardieri, ma pare che non ci sia rimedio. Sembra assurdo, e lo è.
Se c’è qualcosa di preciso
nell’inafferrabile “onnimafia”, peraltro, questo è la gestione dei beni
confiscati. Da ogni piunto di vista – eccetto quello legale, naturalmente, “manzoniano”. In questo senso la mafia è potere.
Vincenzo Linarello dice una
cosa giusta e una sbagliata al “Corriere della Sera”, dove può celebrare il
successo di Goël, il consorzio cooperativo che presiede, nato vent’anni fa su
iniziativa del vescovo di Locri Bregantini, attivo in molti settori, con un
giro d’affari di 10 milioni. Dice che intimidazioni, attentati e minacce, “anche
molto pesanti”, si ebbero nei primi tempi, poi “si sono stancati”. Ma aggiunge
che “il nemico è strutturato”. No, la
mafia non è un’entità, non imprendibile: sono mafia i mafiosi. Prepotenti,
balordi per lo più, che ci provano. Di più ci hanno provato quando mons.
Bregantini fu allontanato da Locri. Ma questo fu dovuto alla massoneria di
Locri-Reggio, e ai Carabinieri.
Sudismi\sadismi
Cemento illegale,
inquinamento delle acque e dell’aria, depurazione assente o malgestita, pesca
di frodo: Legambiente mette il Sud nel mirino. Dei 19.530 reati ambientali
acccrtati dalle Capitanerie di porto nel 2022 lungo le coste, la metà (il 48,7
per cento) è imputata a quattro regioni del Sud: Campania, con 3.345 reati, il
17,1 per cento del totale nazionale, la Puglia con 2.492 reati, la Sicilia con
2.184, e la Calabria con 1.490.
Poi però uno va al mare in
Toscana o in Romagna e trova che le discoteche sì, funzionano, e forse sono
anche a norma con i regolamenti comunali, ma il mare è sporco, i torrenti sporchissimi,
la cirolazione da ora di punta.
Legambiente dice che i reati
ambientali sono tipici delle regioni a “tradizionale presenza mafiosa”, e cosa
dobiamo pensarne? Che le mafie in Toscana e Romagna ci sono ma sono più
furbe?
O il problema sono le
Capitanerie di Porto, che anche loro danno la caccia ai mafiosi con i reati
ambientali.
La questione pastorale
Nel viaggio alla scoperta
della Calabria nel 1933, per lo più a piedi, col compagno Norman Douglas, che quella
scoperta aveva fatto famosamente (“OId Calabria”) vent’anni prima, e con due
amici inglesi, l’editore e libraio antiquario fiorentino Giuseppe “Pino” Orioli
fa la conoscenza di due pastorelli, “due
fratelli, uno di dodici e l’altro di quindici anni”. E li ricorda con dolcezza,
commiserandoli per l’isolamento e le ristrettezze: “Vivevano lì sopra”, al
freddo di mezza montagna, “trascorrendo le notti in una piccola baracca
costruita con rami… La loro paga era di cento lire l’anno più il vitto, che
consisteva in pane e formaggio nei giorni feriali e un piatto di maccheroni la
domenica. Durante l’inverno scendono nei bassipiani con il loro gregge”. E ha
già concluso, al solo vederli: “Questi pastori sono gli aborigeni della
Calabria”.
Una “apparizione” omoerotica
perfino imbarazzante, ma indicativa di una economia, del territorio e delle persone
, che è stata sempre troncata e repressa. Ed è all’origine di molti dei lutti in
Calabria, rapimenti (di animali e persone), faide, vendette. E incendi, dei
nemici e d’estate, di boschi e foreste, con mente lieve, tanto l’erba crescerà
più verde.
Troppi incendi, più che nel
resto d’Italia, in Sicilia e in Calabria. Colpa del caldo, si diceva una volta.
Quest’anno però non può essere vero, perché ha fatto molto più caldo a Roma, Firenze,
Bologna, insomma sull’Appenino centrale. Mentre si sono scoperti piromani insospettabili.
Pochi, un paio, ma di un solo genere, pastori.
Un mondo da sempre socialmente
ostracizzato. Dai Cabinieri naturalmente senza eccezione, che un pastore
beneducato (non entra nelle proprietà altrui) hanno voluto mafioso solo perché
bracconava ghiri – specie protetta e quindi da proteggere, ma sempre ghiri. Detti
“zangrei”, cafoni, villani, per dire gente rustica. E estranei, solitari. Ai
margini o fuori dai paesi.
Aborigeni come primi
abitanti? No, come lasciati da parte. I pastori dell’Aspromonte non solo ma della
Calabria tutta, si può dire, sono sempre quelli di Corrado Alvaro, un secolo e
mezzo fa, o quasi. Lasciati da parte anche dalla politica agricola europea, che
paga tutto a tutti. O dall’Italia repubblicana, che si vuole provvida. Nessuna
facilitazione di mercato, per le carni, per il latte (ovino, caprino), per i
formaggi, che un tempo non remoto, prima della guerra, erano numerosi e pregiati,
caciocavallo, pecorino, provolone, il burrino o butirro. (continua)
Il dialetto è particolare
Una rubrica giornalistica
tenuta in dialetto, sul “Quotidiano del Sud” da Bruno Tassone, non persuade.
Non è brillante - non è informativa, non è curiosa, non è pettegola. Non
significa. Perché è il dialetto di Crotone (lo è?), che già a Catanzaro non dice niente.
Il dialetto è una forma di
comunicazione etnica. Clanica, quasi familiare, di parentela. È un patrimonio
“nascosto”, non dichiarato – classificato, regolato. Vocale e non scritto, non
grammaticale, benché di sintassi obbligata – al punto da darsi connaturata alla
fraseologia, non adattabile, non astrabile. O meglio di semantica spontanea,
formata per ascolto come il linguaggio dei bambini, ottenuta o consolidata con
la pratica, e cirscritta al proprio paese. Già al paese vicino suona diverso:
la stessa fraseologia, la stessa cinconlocuazione, gli stessi suoni, delle
vocali, delle consonanti, delle sibilanti, delle sorde.
Costruire per il futuro in un mondo senza futuro
Una mostra di qualche anno fa
a Reggio Calabria, sotto il titolo “Metamorfosi”, sul “non finito calabrese” si
giovava delle fotografie di Angelo Maggio. Per “non finito calabrese”
s’intendono le abitazioni di cemento armato a nudo, senza tetto, con pareti di
mattoni forati senza intonaco, aperture senza infissi, solai di cemento nudi,
pilastri di fasci di tondini di ferro protessi in solitario verso l’alto.
Maggio, un dipendente delle Ferrovie con l’hobby
delle foto di scheletri di cemento, un hobby
che pratica da quasi trent’anni, ne parla come di “cemento amato”. Si pensa
ironicamente, per deridere, e invece al fondo, con sua stessa sorpresa, quasi
approvando, cercandovi ragioni positive.
Tutto è iniziato a San Luca,
racconta: “Nel 2004, durante la Settimana Santa, ho fotografato una statua del
Cristo Risorto davanti a un fabbricato non finito. Con mia brande sorpresa
quella foto piacque moltissimo”, arrivarono apprezzamenti e richieste di copie.
Maggio parte da una premessa
che anch’essa dà da pensare, del non finito siciliano, che è quello degli
appalti a catena, sullo stesso progetto: “A differenza del non finito
siciliano, quello calabrese è relativo ai fabbricati privati, favorito da
regolamenti comunali elastici”. Ottimo, anche questo è da pensarci, i
regolamenti comunali inapplicati: nei paesi è sempre una sorta di abusivismo di
necessità, anche quando l'edificio è faraonico - tutti siamo poveri, al Sud. Ma
continua col già noto: “Quante famiglie, quanti genitori, hanno costruito case
o piani nuovi su quella esistente. Nella speranza di vedere i figli vicino a
loro?” Una considerazione rituale, che cozza contro l’evidenza: i figli “non ci
sono più”, ormai da più generazioni. Per il calo demografico. Quindi figli che
più spesso non ci sono, non sono (ancora) nati. In una regione che comunque si
spopola secondo tutti i punti di vista, dei bisogni e delle aspirazioni oltre
che demografico – dati e studi convergono sullo spopolamento.
Questi edifici, per lo più
enormi, non finiti sono, erano, monumenti alla speranza? Sono segni di continuità,
pervicace, questo sì. Sono desideri, bisogni, di crescita, di sviluppo. Sono
monumenti all’emigrazione, non obbligata ma forzata. Non manca chi sostiene che
“il non finito esprime un atto rivolto al cielo, un’estensione dello spazio privato
e una sospensione del tempo”. Quello che si vede, frequentando i paesi, è un mondo
in fuga. Un mondo che si scopre, o si vuole, antico greco, della Grecia cioè che non coniugava il futuro.
Si spiega l’incompiuto come
una rivoluzione a metà? Sisifo sempre a
metà della salita? Ma no, è la banca gorgone che si risucchia una vita produttiva,
col mutuo innocente, e quanto benevolo. Ma è anche un difetto di calcolo, o previdenza.
Non ci vuole molto a capire, basta farsi i conti, che il mutuo della banca, se
non copre tutta la costruzione subito, la lascerà incompiuta a vita – a più
vite o generazioni, considerando l’inevitabile disinteresse dei figli o eredi.
Si parte felici col mutuo, che è sempre tanti soldi, chi li immaginava?, si finiscono
i soldi col primo piano, quando il mutuo bisogna cominciare a ripagarlo, e per venti o
trent’anni la vita si ferma, c’è solo da sgobbare per ripagare la banca.
Si direbbe il non finito
calabrese un monumento alla banca, generosa (le banche lo proponevano a gara,
fino al covid, con i tassi a zero, per lucrare sulle “spese”) ma improduttiva. Ma anche all’imprevidenza –
all’incapacità di fare una semplice addizione.
Il non-finito è il monumento di una incultura
economica elementare. Che fa il paio con l’altra, dei tanti che preferiscono
fare le pulizie, o fare l’insegnante, a Bergamo, dove la retribuzione non
basta, invece che a casa, e la periferia
di Milano a quella di Bari, o Molfetta, o Reggio Calabria, che però hanno la
vista mare. E dove, per quanto poveri, sarebbero invece ricchi.
In questo caso si potrebbe pensare che
sono casi di un orizzonte di vita che al Nord appare aperto, seppure povero, e
al Sud chiuso, seppure (relativamente) ricco. Lo è. Ma all’insaputa dei
beneficiari o vittime, che non sanno che vita migliore potrebbero fare a casa.
Ma, poi, non è tutto. Le case senza tetto, i muri senza
intonaco, le aperture senza infissi, i balconi senza ringhiera, su tre piani perlomeno,
non sono per i figli. La casa deve essere un palazzo. Si vuole riprodurre, col
nuovo censo, il notabilato di un secolo fa, il più povero, il più snob.
Cronache della differenza: Aspromonte
“Piante Macrì”, il maggiore
vivaio di Gioia Tauro e forse del reggino, complementato da un salone enorme di
oggettistica per la casa legata alle piante, ai fiori, alle stagioni (a
settembre comincia già il pre-Natale, come in tutte le città austriache e
tedesche), espone all’ingresso statue di Padre Pio e della Madonna, di varia
dimensione, da interno o da tavolo, e da giardino, fino a un metro a
sessanta-settanta a occhio. Ai piedi della Montagna. La Montagna è molto
religiosa.
Si può sentire il picchio,
tanto si è soli. Si fa un’escursione sull’Aspromonte sicuri di essere soli sui
sentieri, non c’è ingombro. S’incontrano ragazzi dove ci sono cascatelle, per
il rito di tuffarsi e rituffarsi.
C’è campo. Ovunque, anche nei
forri. Non c’è in Sabina spesso, nell’Alto Lazio. O nelle Apuane.
Anche in Versilia, non c’è campo in molte spiagge.
Anche i sentieri sono ben tracciati
nel Parco. Ma non si fa sapere, poiché nessuno li usa.
Il sig. Giovanni, che alle
falde della Montagna tiene un caffè rinomato, dividendo un cornetto per due è esilarato
dal “piattino di condivisione “: “Lo fanno pagare due euro”. Non sa che si paga
anche il cucchiaiono di condivisione, per esempio quello di plastica da gelato:
un euro e mezzo.
Ma
a Polsi no, anche lì si paga, i santolucoti gestisono l’area del santuario
senza sconti. Non lo chiamano condivisione ma “sconzu”, il disturbo. Se vi
sedete su una panca per bere la loro aranciata.
Certo, San Luca non si può dire
Milano. Ma è vero che il commercio vuole grettezza.
A memoria d’uomo si aveva nozione
di toponimi per ogni piega del terreno, ogni curva del sentiero o della strada, ogni
ansa dei torrenti. Oggi, al più, soccorre l’Igm, con le vecchie carte al 25.000: solo quelli sono
sopravvissuti.
È il fenomeno più generale della perdita
della memora. Ma in Montagna, in ambiente aperto, senza “falsi scopi” o manufatti di
riferimento, è una perdita, anche grave.
C’erano d’inverno i pastori in
campagna con le greggi, per la transumanza, per svernare. Non noti, se non per mugolii, di un
linguaggio non nostro, non del nostro
versante. Forse anche loro di San Luca o Natile – svernavano in una
campagna che era appartenuta fino a poco prima a un barone Stranges di San Luca. I versanti
sono stati a lungo ignoti, e avversi, per secoli, tra Tirreno e Jonio.
Ma, se si può dire, la storia
l’hanno vinta loro, i pastori hanno più determinazione. Nella mentalità (asocialità), nei modi (muti,
bruschi), nel fare (senza remissione, discussione, chiacchiere).
Non ha letteralmente più un
frassino o un salice, che il viaggiatore svizzero Rilliet ci trovava nel 1852. E non ha abeti, che alimentavano
tantissima falegnameria, ora scomparsa. Il frassino, di cui “queste valli sono ricoperte”,
notava Rilliet, dava la manna. Attraverso una serie di incisioni orizzontali nei tronchi. Una
manna “molto pura e molto apprezzata”.
La manna era demaniale,
“concessa in locazione dallo Stato”. Ai contadini era “severamente proibito
tagliare o danneggiare questi alberi, anche se di loro proprietà”.
leuzzi@antiit.eu
Franco
ha deciso di suicidarsi, a Vienna, dove ha una babele di amici e frequenta personaggi di diverso linguaggio, tedesco, russo, polacco, ceco. Il
protagonista si chiama come l’autore. Che però, in questo racconto d’esordio,
non prefigura, come si sarebbe indotti a pensare, il male di vivere che poi lo
attanaglierà: non scrive un thriller
- è il protagonista stesso che ci racconta la storia. E poi il Franco del
racconto presto si scioglie in “Uno”, uno qualsiasi, uno dei tanti, un numero.
E la prima edizione Lucentini aveva fatto precedere dalla seconda e ultima strofa
di una poesia di Hofmannstahl, “Erlebnis”, esperienza, dove “piangeva un
rimpianto senza nome\ Muto in me della vita”. Epigrafe poi levata alla
ristampa, nel 1964, quando si avviava al successo in coppia con Fruttero.
Una
racconto lungo, una sessantina di pagine. Inconclusivo: il plot è la babele delle lingue, che la scrittura dialogata, quasi
teatrale, impone al lettore. “Un intarsio di lingue”, dice il racconto il
curatore Domenico Scarpa. Lucentini fu da sempre linguista curioso, al punto da
proporsi traduttore da ben sette lingue. Benché, o per questo, sempre sperduto.
A metà racconto Franco-Uno non si ritrova più sul Ring, nel percorso ordinario:
“Ma dove stavo andando, adesso? C’era un’altra strada da prendere? Una strada
da non camminarci solo?”.
Un
racconto generazionale, del mondo, dell’Europa, dopo la guerra suicida. Nella
capitale, allora, del disordine europeo perdurante: di spie e cortine nella ex
capitale della gioia di vivere.
Un
racconto scritto nel 1948 che ha aperto nel 1951 la collana poi gloriosa di
Vittorini in Einaudi, I Gettoni. Ripubblicato in una raccolta di tre racconti, sotto
il titolo più spesso di “Notizie degli scavi”. Ripescato nel 2006 da Domenico
Scarpa, che lo correda di un prefazione e di un corposo apparato critico. Siamo
nei tardi anni 1940, Lucentini vive a Parigi, dove fa il lettore per Einaudi,
“sembra che tutto debba ricominciare o incominciare”, nota Scarpa.
Lucentini
è della generazione di Parise, Fenoglio, Rea, Calvino, Zanzotto. Non ebbe
fiducia nei suoi mezzi, o non gli furono riconosciuti, ed è finito come aveva
cominciato. A Scarpa che gli proponeva di rieditare il racconto nel 1990
Lucentini rispondeva, sempre da Parigi: “La ragione per cui non mi sento, non
mi sento proprio”, di rimetterlo in piazza, è “una deficienza non tanto
stilistica quanto, diciamo pure, morale”, e cioè che il problema che agita è
solo “giovanilistico” – “Il Nostro era semplicemente in preda a quella che
Valéry ha smascherato, una volta per tutte come «disperazione post-giovanile»:
la disperazione, cioè, di ritrovarsi sui trent’anni «senza essere né ricco né
celebre». Altro che storie di fratellanza umana!”.
Però,
si legge. La chiave è forse in Walter Pedullà, nel saggio “Lucentini, staffetta
italiana di Beckett. Colpo basso contro il neorealismo” (in id., “La
letteratura del benessere”), alla prima riedizione del racconto, 1964. in
trilogia e sotto il titolo “Notizie dagli scavi”: una fiaba dell’assurdo
quotidiano, come con altro linguaggio poteva pensare e scrivere Zavattini, alla
“Unberto D.”, alla “Miracolo a Milano”, di programma anti-realista . In questo
senso era stato recepito e valorizzato da Vittorini.
Franco
Lucentini, I compagni sconosciuti,
Einaudi, p. XII + 104, € 8,50
Fondi comuni in perdita netta da un paio d’anni e non sappiamo
perché, mentre le Borse macinano record. E mentre si continuano a pagare costi
per non si sa che cosa, al gestore, al distributore (la banca), di performance.
E torna a mente quanto denunciava Mediobanca qualche anno fa, nella sua “Indagine
sui Fondi e Sicav italiani” nel periodo dal 1984 al 2018: “L’industria dei
fondi continua a rappresentare un elemento distruttivo di ricchezza”. E ancora:
“Si è verificata una diminuzione di ricchezza pari a circa 86 miliardi di euro nell’ultimo
quindicennio” (1984-2013). Per i sottoscrittori, non per le banche.
L’indagine di Mediobanca è andata avanti per una quindicina d’anni.
Poi è stata sospesa. Perché Mediobanca è entrata in forze nel retail, a pescare anch’essa nel “parco
buoi”?
Un sedia a rotelle per
handicap fisici costa 31 mila euro – per metà o poco meno a carico dello Stato.
Più di un’automobile di media cilindrata, benché di meccanica molto più
semplice. E ha una vita di soli due anni o poco più.
La sedia fa il paio con i
medicinali salvavita che costano centinaia e migliaia di euro. Si può speculare
liberamente sulla salute.
Sono tornate in bolletta le
odiose tasse di scopo per la rete elettrica e per le fonti di energia rinnovabili,
per lo più le pale eoliche, fiorente business tutto guadagno. L’una e l’altra
sempre più costose della “materia energia”, del consumo effettivo di
elettricità o di gas. Ma a che “scopo”, dove vanno veramente tutti questi enormi
introiti fiscali?
Che fine hanno fatto le
associazioni di utenti e consumatori? Proprio mentre impazza il “mercato”, per
il cui controllo quelle associazioni erano state inventate, in Gran Bretagna e in America.
Nessuna associazione di consumatori che chieda conto di queste “tasse
di scopo” - Terna e i “palisti” pagano?
L’Esomeprazolo Teva
Italia, medicinale da banco, ha dodici pagine, fitte, di “bugiardino”. Impossibili da leggere,
e poi da capire. La funzione del “bugiardino” è di informare o di lavarsene le mani? Se è così,
perché imporlo? Come le dozzine di firme che bisogna mettere in banca o all’assicurazione,
senza nemmeno sapere il perché, volendolo. Volendolo, è impossibile
leggere dieci o venti pagine fittissime . Che d’altronde usano un giuridichese incomprensibile.
E poi, non bisogna evitare gli sprechi, di carta, d’inchiostri?
Una randonnée di un giorno in giardinetta, di una gentildonna che s’immagina giovane, lasciando lo yacht a Porto Ercole all’Argentario, tra rovine etrusche, conventi disabitati, chiese trecentesche, piazze rinascimentali, a un oscuro appuntamento, sotto una minaccia imprecisata ma incombente. Un racconto classificato da Google come horror, in realtà una sorta di ghost story, ma estiva, molto, disimpegnata. Come una “vacanza intelligente” quali “L’Espresso” proponeva allora, tra i borghi della Toscana – anzi della Maremma, che Fruttero recente “castellano” nel complesso intellettuale-residenziale di Roccamare, con Calvino e Citati, scopriva con meraviglia.
Un Tascabile del Bibliofilo in prima edizione, Longanesi, memorabile, nel giugno del 1981, assortito di trenta “fantasmi femmina”, trenta fotogrammi, di Federico Fellini - oggi irriproducibili benché castigati. Nel nome della “ditta”, Fruttero&Lucentini. Dopo essere stato pubblicato, senza foto, su “L’Espresso”. Poi ripreso a proprio nome dal solo Fruttero, il contributo di Lucentini essendosi limitato a una telefonata.
Un racconto un po’ tirato via, come dirà lo stesso Fruttero diventato personaggio tv. Dopo il successo de “La donna della domenica”, le richieste a F&L affluivano copiose, talvolta con proposte di intrecci: “La richiesta stavolta era per un racconto di genere poliziesco, avendo «La donna della domenica» diffuso tra i periodici la seguente equazione: vacanze-brama d spensieratezza-letture d’evasione-polizieschi brillanti-F&L. Cedemmo un paio di volte a tali offerte, con risultati ai nostri occhi non entusiasmanti”. O forse il contributo di Lucentini era essenziale alla “ditta”.
Carlo Fruttero, Ti trovo un po’ pallida, Oscar, pp. 85 € 9
Il
Superbonus costa ora 100 miliardi. Di giorno in giorno si allarga il buco
aperto nei conti pubblici dalla finanza allegra di due governi molto rispettati,
Conte e Draghi. Tra Superbonus e Reddito di cittadinanza avremo due-tre anni di
ristrettezze gravi nella spesa per la sanità, la scuola, le infrastrutture. Ma
niente scalfisce il. mito. Perché è un (ultimo?) residuo della sinistra, intesa
come sbadataggine?
Si è tenuta a Scilla e Villa San Giovanni in Calabria una
convention dei Conservatori e
Riformisti Europei, il raggruppamento che Giorgia Meloni presiede. Il “Quotidiano di Calabria”, senza dire di che si
tratta, la fa criticare oggi, con
un’intervista, dal segretario del Pd a Villa. La convention aveva per tema “Se cresce il Sud cresce l’Europa”.
Capita
di seguire Napoli-Lazio al ristorante, quindi senza audio. E di vedere due reti
bellissime, non contestate dai napoletani, annullate ai laziali per
“millimetri”: sembra una comica, i gesti del’arbitro, le espressioni dei
giocatori, muti. Il fuorigioco di millimetri è una scemenza, bisogna non avere
mai giocato a calcio o semplicemente corso in vita propria. Ma questo calcio avvocatesco
è ributtante: la professione giudiziaria è la più abietta in questo momento in
Italia, ma tutto è “giudiziario”. Si direbbe una società bacata.
Sergio
Rizzo spiega profusamente su “L’Espresso” (“Così i giudici amministrativi hanno
trovato il modo di garantirsi ricchi incarichi extra”) come i magistrati
contabili (Corte dei Conti) e amministrativi (Consiglio di Stato) si sono
reintrodotti surrettiziamente la giustizia privata dei lucrosissimi arbitrati,
da qualche anno proibita per legge – la “giustizia ordinaria” è lenta, nei
processi con molti soldi è meglio ricorrere a un accordo privato, mediato da un
Gran Giudice. Il Consiglio di Stato, la Corte dei Conti, che si penserebbero –
e loro stessi s’impancano a – supremi organi di diritto, come bande in realtà
di affaristi.
Amato
non dice nulla, sulla strage Itavia nel
1980, che già non si sapesse, come Parigi può obiettare, quindi è solo la
scelta di “la Repubblica” di spararla grossa. La novità è in un particolare,
sgradevole: dare a Craxi la colpa se il missile contro Gheddafi finì per
abbattere l’aereo di linea. Chi era Craxi nel 1980 per sapere che la Nato
preparava un agguato a Gheddafi? E come fece ad avvertirlo, all’insaputa del
governo italiano e dei servizi Nato? Amato è sempre stato guardato con sospetto
nel Psi, probabilmente lo conoscevano. Dal testo della intervista sembra pure che nel 1980 fosse intimo di Craxi, una sorta di segretario, mentre era anti-craxiano.
Amato
si mostra anche singolarmente – avendo studiato anche negli Stati Uniti – digiuno
di politica internazionale. Craxi certamente non confondeva l’Olp con Gheddafi.
Come Amato fa, nel 2023, ex presidente della Corte Costituzionale - ci sono
arabi e arabi.
“Superbonus
edilizio. Calo di gettito complessivo per lo Stato pari a 74 miliardi”. Elly
Schlein: “Non hanno soldi per mantenere le promesse”. Ma Schlein ci è o ci fa?
500
manifestanti a Napoli per il Reddito di cittadinanza e contro il governo sono
molti o sono pochi? Abbastanza per farci due pagine di giornale. Ma allora anche
i giornalisti beneficiano del Reddito di cittadinanza, una grillata delle più
bestiali?
Nel
fondo pagina sperduto cui è confinata la
sua rubrica di politica internazionale, il lunedì, giorno dello sport, Sergio Romano
scrive: “L’America, la democrazia militare che guida il mondo libero”. Detto
quasi al confessionale, è una cosa di cui vergognarsi?
Si
ride di Mancini cattolico professo, devoto di Medjugorie, dove va spesso, delle
apparizioni della Madonna, che va in Arabia Saudita, uno dei paesi più arretrati
in materia di leggi, per dare una mano a imporsi fra i paesi “liberi”
(occidentali), ad avere una patente di “normalità”, anche se è tutto il
contrario. In effetti, la cosa è ridicola come sembra: un Paese non diventa
calcistico solo perché il padrone lo vuole, il padrone non può allevare undici campioni
e qualificarsi per il Mondiale - può comprarli ma non allevarli. Ma forse, più
che altro, bisognerebbe non invecchiare. Perché: che se ne fa Mancini di tutti
i soldi che l’Arabia Saudita gli pagherà?
Un
film – volutamente? – antierotico. Sotto forma di proposta erotica: sei coppie
si intrecciano mentre sono impegnate tutte a trovare nuovi stimoli, o comunque
a scandagliarsi sessualmente: quanto sono “attive”, quanti margini potrebbero o
dovrebbero ampliare, eccetera. Cose così, la filosofia o del sesso, quando è
freddo. Tra esibizionismo e astinenza, non esclusa la finzione.
Un
progetto che forse voleva essere birichino. Ma le bellezze, peraltro attempate,
di Monica Bellucci e Carole Bouquet, che fanno coppia, non riescono nemmeno
loro a dare slancio al film.
Il
tema è quello di “Bella di giorno”, cinquanta o sessant’anni fa, di “Eyes wild
shut”, trent’anni fa. Rispettabile. Ma moltiplicato per sei sembra un’indagine
sociologica, all’opposto del titolo.
David
e Stéphane Foenkinos, Fantasie, Sky
Cinema Uno