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sabato 30 settembre 2023

Problemi di base social - 767

spock

Facebook è palestra soprattutto maschile?

 

E Tiktok femminile?

 

Anche femminista?

 

Twitter, ora X, è genere macho?

 

Il social si autonomizza con l’intelligenza artificiale – converseremo con le macchine?

 

Ci saranno guerre anche con i social artificiali?

 

“Per i porci tutto è porco”, A. Palazzeschi?

 

spock@antiit.eu

La mancanza di senso della realtà in Italia

Un pamphlet, del 1944, “l’anno più tragico della nostra storia”, pubblicato a puntate sul ”Popolo di Roma”, e poi in volume l’anno dopo. Ripreso da Sellerio nel 1986, e da  Donzelli venticinque anni dopo, nel 2011, perché il suo tema è sempre di attualità: “La mancanza di senso della realtà del popolo italiano è un fatto che stupisce qualsiasi osservatore. Questo popolo ritenuto o che si stima pratico, realistico, machiavellico…” è solo ingenuo – non superficiale?
Più problematiche, ma sempre irrisolte, altre due analisi. L’addebito alle classi dirigenti postunitarie di un vacuo politicantismo, radicando l’idea di uno Stato alieno, e anzi nemico. Senza effettivamente impegnarsi a “che l’Italia avesse un popolo più o meno civile, più o meno costituito in nazione”. E in particolare in quel momento, della gerra civile al Nord, e del’Italia staccata tra Sud e Centro-Nord. Con l’evocazione di un’identità meridionale già precipitata nell’ignavia, la sua domanda politica delegando a politici remoti, e al parassitismo.
Alvaro era, è il punto di Isnenghi che introduce la riedizione, “per le autonomie, per il. fare da sé, il saper fare da sé”. Che altro poteva essere – che altro può essere chiunque stia al Sud, o vi guardi? Quanto al primo punto, a ottant’anni di distanza stranamente si conferma che l’Italia non ha mai chiuso in realtà i conti col fascismo. Nemmeno per le leggi speciali, con Matteotti, Gobetti, i Rosselli, con gli ebrei. Nemmeno per la guerra, insensata come atto e poi condotta male e malissimo (in Grecia, in Jugoslavia, in Albania, in Libia. Non ha mai fatto, come oggi si dice, autocoscienza, e ha perso l’occasione, nel giudizio, già all’epoca di Alvaro.
Meloni oggi al governo è l’esito, l’impersonificazione, di questa ambiguità: nella modernità –nel realismo - una persistenza acuta del non detto, non pensato forse ma non risolto. O, per stare su temi più anodini, più semplici anche da gestire: il debito, che ogni pochi anni strangola il paese, da centosettant’anni ormai, si può dire, dall’unità. O le mafie, una gabbia, un’autentica prigione – prigione in senso letterale, giudiziaria, carceraria – con cui si avvolge il Sud. L’atlantismo cieco (“non abbiamo scelta”), a nessun fine se non l’obbedienza a Washington, al costo da alcuni decenni di uno-due miliardi l’anno, nelle “missioni umanitarie”, con le armi in pugno, come è ora d’uso chiamare le guerre.
Corrado Alvaro, L’Italia rinunzia?, Donzelli, pp. X-86 € 13

venerdì 29 settembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (539)

Giuseppe Leuzzi


“Ho dichiarato guerra ai piromani e loro hanno tentato di bruciarmi la casa”. Il presidente della Regione Calabria Occhiuto si limita a dire la verità, e a spiegarla minutamente, dove come l’incendio è stato appiccato. Un fatto sinistro, che come tale va indagato e punito, senza cupole né sistemi. “Quest’anno grazie ai droni abbiamo scoperto e identificato 160 tra piromani e incendiari. Molti sono stati arrestati, altri hanno avuto ammende di migliia di euro”. Non è difficile, basta reprimere i delitti, meglio se quando sono compiuti.
 
“La ‘nduja dello Yorkshire”. Gian Antonio Stella può prendere in giro il governo sovranista, con un ministero del “Made in Italy”, un ministero in inglese, che non protegge i prodotti tradizionali, neanche se certidicati, che hanno aperto un mercato con impegno e spese. Come la pizza è americana, così ora la ‘nduja è inglese - una delle “meraviglise esperienze culinarie della Lishman’s butchers and charcutiers”.
 
Le morti per droga censite nel 2022 in Europa sono 248 per ogni milione di abitanti in Scozia, 79 in Finlandia, 73 in Irlanda, 64 in Svezia, 8 in Italia. La Finlandia – in buona posizione anche quanto a suicidi, dopo la Lettonia - è da vari anni il paese più felice al mondo.
 
“Meliambro è un cognome che in Italia è presente in tre comuni della Calabria, mentre è portato da una cinquantina di persone in Nord America”. La rivista “7” del “Corriere della sera” lo annota illustrando Rocco Meliambro, “canadese di origini italiane”, come il “re” del mercato della cannabis legale in Canada, e dell’“impero pornhub”, il 12mo sito più visitato al mondo. L’emigrazione è una reincarnazione. Anche più prolifica – come un innesto risucito.
 
Bisogna essere stati poveri per diventare ricchi
La “castagna” uno ce l’ha oppure non ce l’ha, il calciatore, l’attore, il tennista, chiunque agisca in singolo. Poi ci sono le castagne, che anche queste non tutti hanno, ma sono meno personalizzate e ingovernabili. Appese ai castagni, che sono alberi solidi, di lunga lena.
L’albero non è difficile, cresce un po’ ovunque. Ma non tutti I castagni fanno castagne buone, saporite. E c’è che ce le ha, anche buone e saporite, ma non sa che farsene.
L’editore fiorentino Giunti e “La Nazione” di Firenze regalano oggi un libro “Castagna”, redatto e pagato dalla Unicop Firenze, che invece ne fa un tesoro. La castagna era “il pane d’inverno”, duro e povero, la farina non lievitando. Ma facendo di necessità virtù, or ache siamo in epoca di abbin danza, è diventata materia per una dozzina di cucinati saporitissimi. Oltre che per i dolci noti, il castagnaccio, i marrons glacés, le stesse caldarroste. E, che non quasta, ornamento di alberi boscosi e  frondosi, “monumentali” – e anche robusti e semplici, non bisognosi di molta cura. Ma in Toscana. Che ne faceva, e ne fa, una economia sostanziosa e di lunga durata, tutto l’autunno e fino a Natale, dalla Apuane all’Appennino, da Pistoia a Marradi e all’Amiata.
Non ci sono invece quasi più castagni, o sono abbandonati e inselvaggiti, in Calabria. Là dove erano il paesaggio dominante fino a cinqnanta-sessant’anni fa, prima dello “svuluppo” o “modernizzazione”, nelle Serre, alle balze tirreniche dell’Aspromonte. Tanti e anche buoni, provvidi di marroni – con quelle di calibro piccolo venivano nutriti i porci, che anche loro c’erano, utili nell’economia imvernale. Bisogna esere stati poveri, anche molto poveri, come nella Toscana ancora all’epoca degli Asburgo-Lorena, cioè fino all’unità, per diventare ricchi – saggi, intelligenti, accorti, attivi. Il Sud si può anche dire un’occasione mancata, tuttora, tanti i vantaggi con i quali partiva nella corsa alal modernizzazione, e alla ricchezza.
 
Mafia über alles
Si “celebra”, letteralmente, Messina Denaro in morte, il “Corriere della sera”, “la Repubblica” hanno cinque-sei pagine. Come per la regina Elisabetta. Per un malvivente di cui peraltro tutto si sa, e il cui funerale non interessa a nessuno. Per qualche motive? Per intronizzare la mafia. Con obbrobrio per il Sud.
Lo stesso avviene per “Gomorra”, la serie Sky celebra ora il sesto anno di grande successo. Dei suoi personaggi e dei loro misfatti più truculenti con più seguito e più entusiasta, di Roberto Saviano compreso. È spettacolo, chen c’è da eccepire? La cosa è stata acclarata agli inizi della saga, con “La piovra”, della Rai, emittente pubblica, otto stagioni di ascolti record, mondiali, la consacrazione di Placido e Girone, con Florinda Bolkan e Patricia Millardet – che faceva infuriare Craxi e il partito socialista (che la Rai governavano….).
Il mercato è mercato, senza offesa per nessuno? Ilproblema è del Sud, che non c’è sotto un tessuto    connettivo che si faccia scivolare addosso la mafiomania -  magari anzi ci guadagni sopra. Che la giustizia in Italia, specie a Milano, Torino, Bologna, e il Ponente ligure tratti ogni impresa del Sud e anzi ogni famiglia, di anche lontane origini meridionali, come nella “Piovra” o in “Gomorra”, come una postazione mafiosa – la Dda di Ilde Boccassini a Milano ha un record spaventoso in materia. 
E poi, c’è pure una “Gomora” spettacolare che dà da pensare, quella iniziale, di Matteo Garrone. Castelvetrano, ora percorsa in lungo e in largo per trovare chi piange Messina Denaro, non era famosa per le olive. E non inventò anche l’Uva Italia – un prodotto e un trademark miliardario, per il resto d’Italia?

Cronache della differenza: Calabria
Gioia Tauro è un emporio ricchissimo, tutto vi trasuda ricchezza – e coscienza della ricchezza: vi si trova tutto il nuovo e anche il vecchio, in qualche modo recuperato, restaurato. Ma non se è in qualche misura pubblico: il Comune (i maciapiedi, le strade, la pulizia), la sanità, anche la scuola – si va ai licei a Palmi, a Taurianova, anche a Rosarno, che è molto più piccolo, ma non a Gioia Tauro.
 
Il personaggio Alvaro del racconto dello stesso Alvaro “Solitudine” (nella accolta “Il mare”), in viaggio verso la Germania, dopo il Brennero decide di confrontare la neve bevendosi un goccio e, dice, “porsi il primo bicchiere alla  mia vicina, come si usa fra di noi gente antica su certe linee di provincia…”. Con sorpresa della donna: “Per me?”
Ma l’approccio, purtroppo, non ha un seguito. La donna deve scendere a Monaco e il personaggio Alvaro decide di proseguire per Berlino.
 
“Arrivano i potamesi”, e tutti si rinchiudono, rinchudono panni e bestie, per non essere derubati. Col sorriso, Corrado Alvaro non è tenero con I compaesani di San Luca, che chiama potamesi in ricordo dell’antico nome e sito del paese. “Non sono gente cattiva”, insiste: “I potamesi sono religiosi e fedeli, ma soltanto non distinguono tra la roba loro e quella degli altri”. E rincara: “Perché chiamarli ladri?”
 
Detiene il record, probabilmente, della denatalità in Italia. Nella fascia d’eta giovanile, tra i 15 e i 34 anni, registra nel 2022 oltre 92 mila abitanti in meno rispetto al 2913 – non tutti emigrati. Le sue province sono ai primi post della denatalità: Cosenza è la quarta, con un calo demografico nella classe 15-34 del 19,5 per cento, Catanzaro sesta, col 19,3, e Reggio Calabria decima, col 18,8.
 
Sono morti a Reggio due giovani per problemi di cuore. Subito le morti sono diventate “numerose”, quasi generazionali. E perché? Perché si erano vaccinati contro il covid.
Una città che crede a tutto. Meno che a se stessa. Un posto come Reggio, con la stessa geografia, lo stesso museo archeologico, e lo stesso patrimonilo di specialità agricole, in mano agli olandesi sarebbe indubbiamente la città più ricca al mondo.
 
“Anche la pelliccia «calabrese»”, nota Norman Douglas al suol amico Orioli, “In viaggio per la Caabria”, “era un articolo commerciale ben conosciuto”. Prima della Grande Guerra, quando Douglas fece il suo tour “Old Calabria”. Già nel 1933 non lo era più.
 
Paul-Louis Courier, ufficiale napoleonico in Calabria negli anni 1806-1807, fortemente combattuto dai Massisti calabresi e dagli inglesi, scriveva il 12 settembre 1806 allo storico de Sainte-Croix: “I raccolti costano poca cura; a queste terre solforose basta poco concime, noi non riusciamo nemmeno a vendere il letame dei cavalli. Tutto questo dà l’idea di una grande ricchezza”.
 
Nella stessa lettera Courier continua: “Non riesco ad abituarmi a vedere i limoni nei giardini. E  quest’aria profumata attorno a Reggio! Si sente a due leghe al largo quando il vento soffia da terra”. Si sentiva ancora prima dell’autostrada per Salerno. E anche dopo, viaggiando con i finestrini aperti. Poi hanno “urbanizzato”. Hanno sostituito i giardini con case non finite su strade polverose.
Non è una questione di destino – né di Nord.
 
In viaggio nel 1933, Orioli, l’editore-libraio fiorentino che ne tenne memoria in “In Viaggio”, si meravigla delle tante stazioni ferroviarie a Reggio: “C’è Reggio Centrale, Reggio Marittimo, Reggio Succursale, Reggio Cannitello, Reggio Pellaro, Reggio San Gregorio, Reggio Santa Caterina, Reggio Bocale e magari anche delle altre”. Perché Reggio non è una città ma un conglomerato di paesi: alcune di queste stazioni-paese le ha inglobate, Pellaro, San Gtegorio, Santa Caterina, Bocale.
 
È stata afflitta per molti secoli dalla mancanza di comuncazioni, di strade, uno dei pochi posti al momndo. Ancora oggi la “distanza” tra paesi,anche finitimi, può esere grande. L’unico posto al mondo dove l’antica strada roana, la via Popilia, si è perduta, non se ne trova traccia.
 
Rilliet, svizzero, medico al seguito di Ferdinando II in una sua randonnée militare per la Calabria, fa un’efficace sintesi storica dei ritardi della Calabria, per  quanto amante, anche lui, del “colore”: “In ogni tempo ci sono stati banditi”, briganti, concussori. E “mentre questi briganti saccheggiavano l’interno del paese, i corsari turchi e i barbareschi depredavano le coste… È difficile farsi un’idea della desolazione e dello stato miserevole di questo infelice paese”. Siamo alla vigilia dell’unità d’Italia.


leuzzi@antiit.eu

Auden, la poesia della leggerezza

“Eccentrico”, “serio ma insieme moderatamente comico”, “totalmente incapace di auto-compassione”, dai modi giovanili “non del tutto non-chic”, dal viso infine “come una mappa di geografia fisica, attraversato da corsi d’acqua e creste rugose”.
È il ricordo del poeta morto, letto da Spender in una cerimonia pubblica a Oxford, che la rivista pubblicò nel numero datato 29 novembre 1973, e ora ripropone per i cinquant’anni della morte  oggi.
Un ritratto curiosamente esteriore, del modo d’essere e di vita, di Auden personaggio, senza entrare nelle poetiche, dell’amico. Che pure non possono mancare, in una produzione così vasta e continua. Ma è il modo come Auden ancora oggi si rilegge, come il diario di una vita, arguto e aneddotico – niente “profondismo” in lui, Savinio avrebbe apprezzato, anche lui, che voleva leggerezza.
Stephen Spender, W.H.Auden (1907-1973), “The New York Review of Books”, 19 ottobre 2023, free online

giovedì 28 settembre 2023

La “coltellata alla schiena” di Biden a Macron in Niger

L’unico punto fermo nelle vaganti intenzioni politiche del generale Tchiani, l’autore del colpo di Stato in Niger (“ho la Russia nel cuore”, e insieme una rilevante presenza americana, militare e commerciale), è la chiusura delle basi militari francesi. Il gope di Tchiani, che pure si è formato in Francia, è stato avversato dal presidente francese Macron, che ha anche provato a far intervenire i Paesi africani confinanti, e specialmente la Nigeria – una assurdità, presto accantonata.
Tchiani non ha chiesto il ritiro delle altre forze europee, arrivate in Niger nell’ambito della Coalizione per il Sahel, organizzata da Macron tra fine 2019 e primi 2020, con i partner europei e con gli Stati Uniti. L’Italia ha in Niger, alla periferia della capitale Niamey, circa 350 uomini. La Germania mille. Gli Stati Uniti 2.500, tanti quanti la Francia - ad Agadez, la “capitale” economica, ora della tratta dei migranti, dove i migranti sono presi in carico dai tuareg arabizzati.
Macron sarenne rimasto deluso e irritato alla posizione neutrale degli Stati Uniti (e per conseguenza dell’Italia e della Germania), cioè favorevole di fatto alla giunta golpista. Che avrebbe definito “una coltellata alla schiena”. 

La Francia non è più in Africa

Il Niger dopo il Mali e il Burkhina Faso: la Francia di Macron viene espulsa dalle giunte militari. Viene espulsa la sua presenza militare – in Mali peraltro determinante per bloccare l’offensiva jihadista, anche se non è stata un’operazione brillante. È un esito che Macron ritiene necessario, la Francia non potendosi permettere una presenza militare importante in Africa. Ha provato, dal 2019, a compartirla con gli Stati Uniti e con i partner europei (tra essi l’Italia, per quanto concerne il Niger, limitando il Niger col Fezzan, cioè con la Libia), in una serie di conferenze e accordi. Senza riuscire a stabilizzare la regione.
Ma è un ritiro in linea con le insofferenze locali. L’ultimo golpe militare, nel Niger, si è caratterizzato per essere anti-francese. Non è l’unico, ed è un rifiuto di lunga tendenza, storico: la fine della collaborazione militare segue lo stato comatoso della francofonia. Molti paesi, tra cui la Tunisia e l’Algeria, hanno abbandonato o intendono abbandonare il francese come lingua veicolare, anche se ciò si configura come una perdita. In molti Stati dellAfrica occidentale, dove il francese è la lingua ufficiale, specie nei più alfabetizzati, Senegal e Benin, è sempre meno praticato e anche poco conosciuto. Nel Nord Africa si impone l’arabo.
L’Organizzazione Internazionale della Fracofonia, che conta 88 paesi, si è riunita a Djerba, in Tunisia, l’anno scorso, con larga partecipazione di statisti, da Macron a Trudeau, ed è presentato come un sucecesso diplomatico dell’organizzatore, il presidente-dittarore della Tunisia Saied, ma la Tunisia ha abbandonato da decenni la scuola e la pratica del frabese. L’integrazione nell’area araba e nell’anglofonia è la scelta quasi ovunque.

Polanski fa la festa al Millennio

Una celebrazione di Fine Millennio ritardata ma di gran lusso. Al Palace Hotel di Gstaad. Un lusso da pazzi, i convenuti di Polanski fanno a gara negli spropositi: Mickey Rourke gonfiato dalla chirurgia plastica, o Sydne Rome, John Cleese e Barbareschi, una Fanny Ardant spiritosamente in maschera, per una volta nel genere grottesco. Mostra anche la Russia, sempre eccessiva, anche nella violenza, con il cameo documentario di Yeltsin che lascia il potere, al giovane Putin, che promette rigore e libertà.
Un addio tronfio e stupido al Novecento e al Millennio - che invece ci ritroviamo, e nel nostro piccolo pratichiamo, senza soluzione di continuità. Non è piaciuto ai critici (perché prodotto da Barbareschi? oggi in prima visione, veniva presentato stamani con “voto del pubblico” mediocre, due-tre stelle su cinque), ma è un godimento. Perché “non sembra” un film di Polanski? È un film di Polanski, che è sempre stato irriverente, verso tutte le storie e le realtà che filmava, anche le più serie. Per una filosofia che non si saprebbe contraddire: è sempre la stessa storia, di passioni e idiozie, più o meno avvertite, e camuffate. L’arte compresa, Polanski è il regista dell’ironia nell’arte, dell’arte che non presume di se stessa, che qui, forse più che negli altri suoi film, porta alla caricatura.
Uno sberleffo irriverente e simpatico di Polanski novantenne al cinema, che è illusione. Alla ricchezza, che non sa vivere. Sceneggiato con Jerzy Skolimowski, 85 anni, col quale aveva fatto il suo primo film, sessant’anni fa, “Il coltello nell’acqua”.
Roman Polanski, The Palace

mercoledì 27 settembre 2023

Letture - 532

letterautore


Cacche di cane
– La protagonista-narratrice di “Giorno di vacanza”, di Inès Cagnati, la liceale figlia di contadini che passa la notte fredda, scacciata da casa in campagna, parlando e dormendo con l’amica cagna Daisy, la apprezza anche per la discrezione che mette nei suoi bisogni. Non come in città, dove va al liceo, per abitudini che la fanno arrabbiare, aggiunge per una lunga pagina: “Non è affatto come i cani di città. In città, i marciapiedi delle strade che portano al liceo sono coperti di cacche di cane. È disgustoso. Ci sarebbero degli scarichi dove scorre l’acqua. Ma no. Le persone portano i loro cani a fare i bisogni sui marciapiedi o contro i pneumatici delle macchine.  Sono persone pulite e ricche. Ma in strada, che è per tutti, sono disgustosi. Quando vedo queste cose, mi dico che le persone non oserebbero abbassarsi le mutande e fare quello che fanno fare ai loro cani. Allora, mi dico anche che tutte queste persone pulite sono più disgustate da se stesse che dai loro cani, e questo è veramente terribile. Infine, i quartieri più ricchi della città hanno i marciapiedi più sporchi a causa della grande quantità di cani. Si potrebbe anche riconoscere questi quartieri dai loro marciapiedi sporchi, senza stare a valutare le case. Pensarci, mi fa ridere. Ma, in realtà, è piuttosto costernante. Perché anche il cortile di casa, con tutti gli animali e noi, che siamo molto sporchi, non è così ripugnante come questi marciapiedi da ricchi”.
Con un’ultima considerazione: “Veramente, la gente di città è sporca e disgustosa. Nient’altro. Si sa grazie ai loro cani. Per loro è uguale. Si immagina che i loro cani e loro non sono la stessa cosa. Ma è la stessa cosa”.
 
Cefis
- L’ex patron di Eni e Montedison, immaginato da Pasolini in “Petrolio” al cuore di una manomissione economico-politica dell’Italia, è ritratto “dal vivo” da Fruttero&Lucentini in “Il significato dell’esistenza”. Curiosamente in contemporanea con Pasolini: “Il significato dell’esistenza” si pubblicò nell’estate del 1974 sul “Giornale di” Montanelli, a puntate quando Pasolini pare abbozzasse il suo Cefis, poi rimasto incompiuto (“Petrolio”, pubblicato, frammentario, postumo). Nel racconto di F&L. Cefis e il suo immancabile patrocinatore politico Fanfani convocano i due inviati speciali di Montanelli per convincerli ad abbandonare la ricerca sul “significato dell’esistenza”, temendo di essere “scoperti”.
“Dal vivo” Cefis è ritratto nel senso che il duo ipostatizza di lui l’immaginetta che ne veniva diffusa dagli strateghi della “strage di Stato”, la stagione delle bombe, che fecero centinaia di morti, come il finanziatore, istigatore e organizzatore di complotti – come artefici delle “bombe” erano stati fstti passare in un primo momento gli anarchici, in un secondo Cefis, Pesenti e Monti. Anche se Cefis, coni soldi di Montedison-Eni, pagava il “Corriere della sera” terribilista di Piero Ottone, che lanciò  Pasolini in in prima pagina, facendosene la punta di diamante.
 
Croce – “Nel Transatlantico”, il salone oblungo di Montecitorio, “passa ora il feretro”, così Cazzullo a fine cronaca del funerale di Napolitano: “Nessuno azzarda un segno della croce, non l’ha fatto neppure il Papa”. Il papa non era al funerale laico dell’ex presidente, si era recato in visita di condoglianze prima.
 
Dante – Francesca è la prima Emma Bovary – Corrado Alvaro, 1934. Sarebbe di Alvaro sua la prima lettura di . “Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse” come verso chiave del canto. La fine di Francesca per colpa della lettura, e non del destino, sarebbe novità novecentesca, ed è stata attribuita ai commenti di Gioacchino Paparelli, “Interpretazioni di Francesca”, 1954, e di Contini, “Dante come personaggio-poeta della ‘Commedia’”,1958 – sono i primi nel commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi all’edizione Meridiani, 1991, dell’ “Inferno”, pp. 136 e 167-168 (poi nelle edizioni Zanichelli per le scuole, e ora negli Oscar). Ma Corrado Alvaro ne aveva fatto ipotesi precisa nel volume “Cronaca (o fantasia)”, 1934, al § “Storia d’una colpa”: “C’è un libro, ed è il corruttore. Nei racconti degli antichi amanti era la natura, le attitudini, le stagioni; l’uomo era un ladro; nella storia di Francesca entra il primo elemento d’invenzione umana, un libro, come poi entrerà lo spettacolo del lusso, il clima della città, la conquista della ricchezza e della potenza; in Francesca c’è già Emma Bovary, vi sono tutte le eroine romantiche dell’adulterio, la civiltà che batte alle porte del cuore umano”.
 
Kate DiCamillo
– La scrittrice americana per ragazzi – autrice di 25 romanzi - ha venduto 44 milioni di copie. In Italia ne sono stati pubblicati due, ora ai remainders.
 
Elsa De Giorgi
– La ricorda con affetto e rispetto Giulio Scarpati sul “Corriere della sera” Giulio Scarpati, che fu giovanissimo allievo del suo laboratorio teatrale, “cara amica del grande scrittore” Pasolini. Che fu, dice, anche spettatore del suo saggio di fine corso. Elsa De Giorgi ebbe da Pasolini anche due cameo al cinema, in “Ricotta” e in “Le 120 giornate di Sodoma”. Scrittrice da lui rispettata per “I coetanei”, romanzo generazionale sulla Resistenza, pubblicato nel 1955, con una lettera di Salvemini, e il successivo “L’innocenza”. A Pasolini assassinato De Giorgi intitolerà una raccolta poetica, “Dicevo di te, Pierpaolo”, pubblicata da Carte Segrete nel 1977.
Giovanissima, fu la bella ragazza di molti film del genere dei “telefoni bianchi”, i film di evasione degli anni 1930: Si era riciclata nel dopoguerra in teatro e come scrittrice. Fu anche il primo amore di Italo Calvino, col quale ebbe una lunga relazione intima, praticata a metà strada tra Roma, dove lei risiedeva, e Torino, dove Calvino lavorava – s’incontravano a Sanremo, dove avevano reso in affitto una villetta. La relazione le è costata una feroce invettiva di Pietro Citati, contrario alla pubblicazione delle lettere appassionate di Calvino dopo la morte dello scrittore, “Ho visto partire il tuo treno”, che la liquidava come falsa contessa e una sorta di damina del Ventennio. Ma i suoi libri si ristampano.
Contessa lo era di fatto:nobile di nascita, sposa nel 1944 del conte Sandrino Contini Bonacossa, giovane capo partigiano. Poi coinvolto come curatore d’arte e come comproprietario nella dispersione poco legale in America e altrove della collezione di famiglia, Sandrino fu trovato impiccato, forse suicida, a New York, due settimane prima dell’assassinio di Pasolini.
 
Ercole de Roberti
– “Ravasi e Sgarbi discutono se siano più tersi i cieli di Perugino, Piero della Francesca o Ercole de’ Roberti”, Aldo Cazzullo, cronaca del funerale di Napolitano sul “Corriere della sera”. De’ Roberti esiste, dice wikipedia, era di Ferrara, come Sgarbi.
 
Ennio
– Il “padre della letteratura latina”, nativo di Rudiae, oggi Rugge, periferia di Lecce, Gerhard Rohlfs può dire “poeta trilingue” (“Linguaggio gricò nella Grecìa salentina”, in “Calabria e Salento”, p.65. Basandosi su Aulo Gellio (“Notti attiche”): “Quintus Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece et Osce et Latine sciret”, diceva di avere tre corde, poiché sapeva parlare greco, osco e latino.
 
Fratelli d’Italia
– È il titolo probabilmente più diffuso, oltre che trademark mazziniano e ora nome di un partito. L’uso più recente lo ha fatto Arbasino, che un voluminoso “Fratelli d’Italia”, racconto degli odi e amori dell’Italia letteraria, ha pubblicato nel 1963, ha modificato quattro anni dopo, e ha riscritto nel 1991. Più recenti, Ibs-Feltrinelli registra un “Fratelli d’Italia”, “tra le fonti letterarie del canone risorgimentale”, di Alfredo Cottignoli,  un “Fratelli d’Italia. Riformatori italiani del Cinquecento”, di Mario Biagioni, Matteo Duni, Lucia Felici, un “Fratelli d’Italia” di Maurizio Del Maschio, sui rapporti tra massoneria e Risorgimento. E due titoli prossimi, “Fratelli di Giorgia” di Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati, e “Fratelli d’Italia. La vera storia dell’inno di Mameli”, d Tarquinio Maiorjno, Giuseppe Marchetti Tricamo e Piero Giordana. Si registrano poi vari Gofffredo Mameli, “Fratelli d’Italia” (Garzanti, Feltrinelli), un “Fratelli d’Italia” di Nicola Rizzo (“Una storia normale”, del “prestigioso istituto Goffredo Mameli”), una “saga” “Fratelli d’Italia”, di Dylan F. Valentine, e un “Fratelli d’Italia” di Ferruccio Pinotti (“quanto costa la massoneria?”). Il “Fratelli d’Italia” De Agostini è l’inno di Mameli spiegato ai ragazzi. C’è anche un “Fratelli d’Italia” film, del 2017, di Neri Parenti, con Christian De Sica e Sabrina Salerno. E uno di “Alin Delbaci e altri due”. Un cd “Fratelli d’Italia” è di canti popolari italiani, e uno è del Gruppo Giovani Confapi Campania. Con due single, uno di Al Bano e uno di Mario Marzi.  
 
Grikò
- La grecofonia residua nel Salento ha nome illirico, opina lo studioso Gerhard Rohlfs (“Linguaggio greco  nella Grecìa salentina”, in “Calabria e Salento,. Saggi di storia linguistica”), per ragioni precise. Che confermerebbero la sua ipotesi di una persistenza linguistica antica e non bizantina, neogreca. “Graecus non appartiene al genuino  patrimonio latino”, è derivazione ellenistica. Lo steso per γραίκος, “venuto da fuori, entrato in gioco in epoca ellenistica (per influssi latini?). Era originariamente un nome applicato ai Dori epiroti dai loro vicini illirici”. Accolto a Roma “probabilmente per tramite etrusco, per essere poi esteso in latino a tutti gli Elleni”. Fin qui tutto è certo. Rohls poi ipotizza: “Non conoscendosi la precisa pronunzia del nome nell’antico illirico – poteva essere qualche cosa come grk con labile e indeterminato vocalismo – è ammissibile che da antica fonte illirica fosse passato direttamente a certi popoli italici della costa adriatica”, con sfumature vocaliche diverse dal “graecus” latino. Ma fondamento di una certezza: “In ogni caso, essendo il tipo γρηκος (grikos) del tutto sconosciuto tanto nel greco bizantino quanto nei dialetti romanzi dell’Italia meridionale, si dovrà supporre che tale nome sia già in tempi antichi riferito da una fonte imprecisa alle popolazioni dell’antica Magna Graecia”. Per “fonte imprecisa” Rohlfs intende o la classicità o il primissimo cristianesimo.
 
Leggere
– È peccato per Corrado Alvaro – come già per scrittori compulsivi come Platone. Per Alvaro per una sorta di complesso, la lettura (di D’Annunzio e Carducci) essendogli costata l’espulsione dai “giudici neri” di Mondragone, il liceo dei gesuiti, dove studiava al ginnasio – dal “giudice nero” Lorenzo Rocci, il grecista, allora rettore del collegio. La sua tarda curatrice Anne-Christine Faitrop-Porta ipotizza che il sospetto verso la lettura sia stato ingenerato subliminalmente non dal rettore Rocci ma all’infanzia a S .Luca, modesto villaggio montano: ”Cresciuto in un villaggio dove gli avvisi e i regolamenti non sono affissi, ma declamati da un banditore, egli serba una naturale diffidenza verso la lettura”, intr. a “Il viaggio”, 1999. O non gliene ha moltiplicato la curiosità?
 
Viaggio
– “Un tempo si partiva per viaggiare, oggi nella maggioranza dei casi si viaggia per arrivare”, Luigi Malerba,”Il viaggiatore sedentario”. E non considerava il pendolarismo, un “infinito viaggiare” quotidiano, di massa.


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Giallo dei ricchi e poveri

Si comincia con il funerale della sinistra. Della sinistra politica, in questi anni 2020 occorre specificarlo - che naturalmente è il partito Comunista, c’è altra sinistra? Celebrato dai poveri, gli invisibili di ogni città. Organizzato dal vecchio comunista Lambros, l’amico del commissario Charitos, il Montalbano di Markaris (però con famiglia), che si è ridotto a organizzare un centro di accoglienza per senzatetto, una decina di letti. Un funerale in centro ad Atene, con sparute decine di manifestanti, ai quali la polizia prontamente accorsa finisce per fare il servizio d’ordine. Non c’è più religione.
Non c’è più nemmeno negli eventi. Morti misteriose, un arabo, un cinese, ricchi investitori che potevano rinsanguare la Grecia esausta. Investitori nell’immobiliare. Non una grande trama. Ma una lettura eccezionale del capitalismo cinese, sintetica: monopolistico, a suon di dollari.
Ognuno racconta la sua storia.Non i morti. Ma sì il commissario Charitos e l’ex comunista Zisis Lambros. Entrambi scoprono la povertà – senzatetto, immigrati illegali. Accanto alla superricchzza, in contanti.  
Con molto traffico, come nella Palermo di Benigni e Bonacelli (“Johnny stecchino”), e come sempre in Markaris. Con moltissimo Lambros nipotino di pochi mesi del commissario. E molti suvlakis, spiedini. Con le Sardine, il movimento bolognese. E con qualche scorrettezza. Le donne continuano a fare il caffè, cucinare, parlare di cucina, e di nipoti, rassettare, prendere gli appuntamenti. Il comunista Lambros lascia disabitata “la vecchia casa dei genitori”, in una Atene a corto di abitazioni. La casa lasciata disabitata è anche “una delle tante dei profughi dell’Asia Minore”, cioè della Turchia, quindi con un po’ di nazionalismo anti-turco, che è di destra - come in Italia lo è stato a lungo per gli istriani evacuati da Tito. Più altre disattenzioni minori. L’ora in cui un testimone segnala un cadavere è incerta, mentre è segnata ovviamente sul cellulare della chiamata, e alla ricezione del 112. Molte pagine sono anche prese dalla gerarchia: Charitos deve riferire al vice-comandante, il vice al comandante, il comandante al ministro - a volte tutto si ripete in plenaria.

La pubblicazione forse di maggior successo tra le riprese in serie in edicola del quotidiano, esaurita il primo giorno. Il giallo resta in attesa, come i poveri.
Petros Markaris, L’omicidio è denaro, “la Repubblica”, pp. 270 € 8,90

martedì 26 settembre 2023

Le sanzioni colpiscono l'Europa più della Russia

Nel 2022 Mosca ha aumentato di quasi il 100 per cento le entrate da esportazioni petrolifere, di greggio e prodotti raffinati. Nel 2023 ha amentato le esportazioni del 50 per cento. Beneficiando di un prezzo del greggio che, in cooperazione con l’Arabia Saiita, è riuscita a portare sui 100 dollari a barile, un’enormità, semplicemente vendendo meno petrolio – si pensava che per finanziare la guerra avrebbe dovuto svuotare le riserve e ridurre i prezzi, e invece ha ridotto l’offerta.
Le sanzioni non hanno colpito la Russia, che continua a esportare verso altri mercati. Vende a prezzi alti anche i prdotti petroliferi, sottraendosi al “price cap”, il tetto ai prezzi, di 60 dollari a barile deciso ultimamente dal G 7: semlicemente, non assicura più i trasporti con i broker londinesi, queli che (in teoria) avrebbero dovuto imporre il price cap.
La vicenda del price cap mostra quanto c’è di improntitudine da parte europea nelle vicende internazionali: imporre un prezzo nei mercati? a chi? La mancata efficacia delle sanzioni, che anzi hanno colpito l’Europa più che la Russia, dice anche c’è un jeu de dupes, che le sanzioni sono una partita dei furbi.
Le sanzioni come arma economica non sono state mai efficaci, da Napoleone in poi, da quando furono adottate la prima volta, contro l’Inghilterra, che il dittatore corso non riuscì a sottomettere, quindi da oltre due secoli. Le guerre si vincono in altro modo. Ma quelle che l’“Occidente” ha adottato contro la Russia, su impulso americano, sono squilibrate, palesemente. Le sanzioni sull’export energetico russo riguardano solo l’Europa, gli Stati Uniti non dipendono dalle importazioni di petrolio, e di gas sono grandi esportatori. L’inflazione da gas e petrolio sta abbattendo l’Europa, non colpisce gli Stati Uniti: non ne sono ìmportatori, anzi sono esportatori, e hanno rilanciato in questi due anni grazie ai rincari americani gli investimenti nella ricerca e produzione interne, che languivano da due decenni. L’Arabia Saudita che ha provocato il caro-petrolio d’intesa con Putin, è in simbiosi militare, politica ed economica con gli Stati Uniti –le relazioni con India e Cina, che dovrebbero preoccupare gli Stati Uniti sono marginali, e quasi da specchio per le allodole.

La crisi del 2011

Napolitano difese l’Italia nel 2011 o defenestrò Berlusconi? Probabilmente fece l’una e l’altra cosa. Ma l’essenziale ancora manca – senza contare che Napolitano negò la grazia a Berlusconi dopo la condanna burla milanese. .
Dice Cazzullo sul “Corriere della sera”: ho intervistato Berlusconi il giorno dopo le sue dimissioni, il 13 novembre  2011e”tutto in lui indicava sollievo”. Tutto gli consigliava di rinunciare al governo: i rapporti deteriorati con Francia, Germania, Stati Uniti; la corsa dello spread: gli interessi aziendali…”. No, i rapporti non erano deteriorati con gli Stati Uniti.
Sarkozy e Merkel volevano affossare l’Italia, non Berlusconi - incuranti, nella loro saggezza, dell’euro , il cui crollo li avrebbe affossati tutti (nelle prolisse ultime memorie, l’ex presidente francese dice ripetutamente che lui e Merkel salvarono l’Italia e la Grecia, e che fu lui a volere Draghi alla Bce, cioè colui che salvò l’euro – che invece lo salvò contro la Bundesbank, Draghi non deve nulla a Sarkozy). Ma il duo non poté per l’opposizione di Obama.
Il fatto è testimoniato dall’allora ministro del Tesoro di Obama, Timothy Geithner. Ripetutamente, anche con insistenza, nelle memorie “Stress test”. Che solo per caso, malgrado sia di estremo interfesse, a differenza delle tante memorie di statisti americani anche inutili che invece prontamente si traducono, non è stato proposto in Italia?
Può esse utile la rilettura di quanto questo sito spiegava il 6 novembre 2015, a un anno dall’uscita delle memorie di Geithner, sulla crisi europea del debito:
 
Se il debito è colpa, perlomeno in tedesco, credito è credere: “Ogni crisi finanziaria è una crisi di fiducia”. Obama fu deciso ad affrontarla, come il suo predecessore Bush, e questo è il segreto della soluzione Usa. Con Paulson prima e il suo successore Geithner al Tesoro, suggeritori tecnci. Geithner ne dà testimonianza dal di dentro, e insieme fa un assestamento critico delle crisi, da un secolo e mezzo solo finanziarie, finite le carestie e le pesti. Un libro che è un’iniezione di vitalità. Di intelligenza ma soprattutto di energia. Di vis politica. Che l’Europa immiserisce, al confronto inevitabile, dopo sei anni sempre pericolante. Un libro destinato anche a durare, per lo spessore dell’analisi, oltre che ricco di particoari di attualità. Che però non si traduce, benché si traduca di tutto – si è tradotto solo in tedesco.
Il primo problema che Obama si pose appena eletto fu: “Come ristabilire la fiducia”. L’analisi era semplice, l’economia era nel circolo vizioso: la crisi finanziaria – di banche e fondi – aggravava la recessione, e la recessione aggravava la crisi. Inoltre, cinque “bombe” erano pronte a esplodere, in aggiunta al fallimento della banca Lehman Brothers: le banche Citigroup e Bank of America, il gruppo assicurativo Aig, le finanziarie pubbliche di controassicurazione sui mutui “Freddy Mae” e “Freddy Mac”. Più General Motors e Chrysler, “anch’esse sull’orlo del fallimento”.
Un nuovo “massiccio stimolo fiscale”, cioè un intervento pubblico, era necessario, “per colmare il reddito e la ricchezza perduti, rivitalizzare la domanda, creare lavoro”. E per evitare “la lunga collaterale deriva che il Giappone aveva sperimentato nella sua crisi negli anni 1990” – la soluzione adottata poi dall’Europa, benché al Giappone sia costata dieci anni di stagnazione-deflazione. Le cinque “bombe” erano “tutte molto più grandi di Lehman. Tutt’e cinque avevano ricevuto grosse infusioni di denaro pubblico per salvarle dal fallimento; Aig era stata salvata tre volte in quattro mesi. E tutte erano di nuovo in difficoltà”.
Il 27 gennaio, al primo incontro del nuovo segretario al Tesoro con Obama, il presidente disse chiaro: “Strappiamo il cerotto e guariamo la ferita. Voi portatemi la soluzione, della politica m’incarico io”. Il 9 febbraio, come primo atto della sua presidenza, Obama annunciava un piano di stabilizzazione finanziaria. Forzando Geithner che ancora non era pronto. Un intervento, tra spesa e riduzioni fiscali, che avrebbe potuto assommare a 700 miliardi di dollari nello scenario peggiore. Senza contare gli interventi a favore di soggetti non bancari, Aig, General Motors, Chrysler. L’ammontare e i criteri del piano sollevarono molte critiche. Che si provvedesse a salvare “Wall Street e non Main Street”, le banche e i fondi responsabili della crisi e non l’uomo della strada. Non fu facile arguire che Main Street si salvava a Wall Street. Ma dopo appena tre anni la Grande Depressione era stata evitata e anzi l’economia e la finanza erano tornate in bonis. Il Financial Stability Plan di Geithner, con al centro il Public-Private Investmente Fund, un intervento pubblico di salvataggio, condizionato alla partecipazione degli azionisti e investitori, aveva subito ristabilito la fiducia dei risparmiatori e dei grandi investitori, malgrado le critiche politiche.
In un certo senso, come controllore alla Fed di New York, Geithner era responsabile della crisi delle banche, Bear Sterns, Lehman Brothers, Citigroup, Bank of America, se non degli altri soggetti, assicurazioni e case automobilistiche. La saggezza di Obama è stata di usare un “uomo delle banche”, seppure di profilo pubblico, per venire a capo della crisi delle banche, invece di un giustiziere. Uno che conosceva i fili e i nodi della crisi di ognuno dei soggetti – di Bear Sterns, la prima banca in crisi, aveva messo a punto e realizzato il salvataggio e la cessione. Una scelta impopolare, che lo stesso Geithner aveva prospettato a Obama al primo incontro, che però è stata quella giusta.
E l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo anche nella crisi europea. Prende poche pagine della sua voluminosa memoria, ma è preciso e sconcertante.
Europa sbalorditiva e inspiegabile
A metà settembre 2008, a crisi manifesta, “la Banca centrale europea aumentò i tassi, il che mi parve sbalorditivo e inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da inflazione”, per l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan, per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed di New York, che Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche d’affari a ricapitalizzarsi per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve termine e l’esposizione sui titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una delle quattro, la Lehman, ma salvò le altre.
Successivamente due eventi fanno “inorridire” il ministro del Tesoro di Obama, e lo stesso Obama. L’attacco franco-tedesco all’Italia a novembre del 2011 - l’unica parte di questa memoria già nota, riprodotta un anno fa all’uscita del libro - e sei-sette mesi dopo l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva passato la maggior parte del 2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato il debito greco. Nello stesso mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e l’Italia”. Ma “l’Europa non persuadeva gli investitori con una strategia credibile”. A ragione il governo tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i beneficiari del sostegno europeo – la Spagna e l’Italia come la Grecia – non mantenevano gli impegni di riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava sulla sabbia limitava le opzioni” anticrisi. C’era bisogno di un intervento massiccio subito. Di un piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito alla Bce uno sforzo gigantesco a sosteggo del debito e dell’euro, con una “leva” di “piccoli aiuti” pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo proposero, la Bundesbank lo rigettò.
A un certo punto gli europei presero a rivogersi ai paesi asiatici per finanziare il loro fondo di intervento, “uno spettacolo abbastanza sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, il consiglio europeo dei ministri del Tesoro. Tentò di non andarci, l’invito fu reiterato e pressante, e allora parlò “con umiltà”, scusandosi, schermendosi. Ma non poté non dire: “È più rischioso un intervento a piccole dosi graduale che un intervento preventivo massiccio”. Gelo, e invito a tornarsene a casa dei ministri dell’Austria e del Belgio per conto della Gerrmania. “No leadership”, è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin europeo.
Il 26 ottobre fu annunciata una ulteriore revisione della ristrutturazione del debito greco. Fu annunciato anche “un piano modesto per tentare di fare leva sul fondo di salvataggio per movimentare il denaro privato, ma era congegnato male e più che altro sembrò segnalare i limiti di quello che l’Europa voleva fare”.
Via Berlusconi
Quell’aututnno Obama “parlò regolarmente con i leader europei”, e anche Geithner con le sue controparti. Ne ricevettero spesso richieste di intervenire sulla Merkel per una maggiore flessibilità, e su Italia e Spagna per un “impegno responsabile”. Qui viene il complotto: “A un certo punto quell’aututnno alcuni rappresentanti europei ci presentarono un complotto per tentare di costringere Berlusconi fuori dal governo; volevano che rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monteraio finché non se ne fosse andato. Informammo il presidente di questo sorprendete invito, ma per quanto potesse servire ad avere una migliore leadership in Europa non potevamo impegnarci in un complotto come quello”. Geithner ne riferisce come di un approccio e una decisione interna al suo ministero, al plurale, abbandonando la prima persona, afferenti cioè a qualcuno dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto, poiché Obama non parla. Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le mani del suo sangue», dissi”.
Pochi giorni dopo, ai primi di novembre, si tenne a Cannes il G 20. Obama “passò la più parte del tempo in negoziati riservati, per tentare di aiutare l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della conferenza riguardò le pressioni su Berlusconi, ma noi continuammo a premere sulla necessità di un robusto firewall, e ci fu molta pressione anche su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto attacco; non l’ho mai vista così agitata”.
Poi le cose cambiano. Cambiano i governi in Grecia, Italia e Spagna. E alla Bce arriva Draghi. “Ai primi di dicembre Draghi annunciò una massiccia iniezione di liquidità a lungo termine per il sistema bancario europeo”, con “un istantaneo effetto stabilizzatore… L’Europa aveva mostrato un po’ di forza e un po’ di volontà”.  A febbraio, al G 20 dei ministri del Tesoro a Città del Messico, il morale era su: “Gli europei erano sollevati, molti dichiararono che la crisi era finita. Io non lo pensavo. Sembrava più una tregua che una soluzione”.
L’attacco alla Grecia
A luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a fare “qualsiasi cosa” sia necessario per salvare l’euro nella sua integrità. Geithner ci vede un’identità di vedute con l’intervento monetario e finanziario americano. Ma è sorpreso – “terrificante” – da Schaüble, che in un incontro successivo gli prospetta come “una strategia plausibile - e anche desiderabile”, nelle sue parole, di Geithner, l’uscita della Grecia dall’euro. Come una lezione agli altri: l’evento, sempre nelle parole di Geithner, “sarebbe stato abbastanza traumatico da aiutare a spaventare il resto dell’Europa, inducendola a cedere più sovranità a un’unione fiscale e monetaria più forte”. E come incentivo all’opinione tedesca a sostenere l’euro, senza più il pregiudizio antigreco.
Schaüble viene presentato ora come la controfigura di Merkel, quello che si prende il ruolo del cattivo per coprire politicamente la cancelliera con il ceto politico più recalcitrante all’idea di eurozona e di Europa. Geithner lo dice simpatico, “engaging”. Ma ha agitato i mercati, aggravando la situazione, più del necessario, molto di più, in più occasioni, troppe.
“A giugno dl 2012 la crisi eurpea bruciava più che mai”, ricorda Geithner. Ma solo Draghi se ne preoccupava. E la risolverà ripercorrendo – in parte e in ritardo – la ricetta americana: “L’Europa non era risucita a convincere il mondo che non avrebbe consentito una catastrofe”. Geithner ha presente, ricorda, quello che tutti sapevano ma nessuno in Europa denunciava: “difese fragili e politiche confuse”. Scrive allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancorta a te per un’altra dose di abile, creativa manifestazione di forza da banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare ma la Bundesbank non glielo consente. I tedeschi “non avevano un piano per salvare l’Europa ma sapevano quello che non volevano”, così Geithner sintetizza le sue conversazioni con Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo avuto parecchie conversazioni”: “Davano una lettura limitativa dei poteri legali della Bce, e si opponevano a qualsiasi cosa sapesse di questione morale”, di salvataggi con denaro pubblico (quello che la Bundesbank aveva tranquillamente fatto in casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il consiglio di Geithner è di “lasciare la Bundesbank fuori”. Il 26 luglio uno studio Citigrouprp dà la Grecia fuori dall’euro al 90 per cento. Quello stesso giorno, a un convegno a Londra, al termine di una serie d’incontri con bancheiri e gestori di fondi, Draghi proferisce le parole famose: “Nei termini del nostro mandato, la Bce farà qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Fa l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del pessimismo che ha riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano. Geithner va allora a Sylt, dove Scahüble è in vacanza, per tentare di convincerlo. Ne ricava quanto si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato di prima”. Si ferma a Francoforte da Draghi, che  lo rassicura, ma sempre senza un piano.
Di ritorno a Washington, Geithner spiega a Obama che l’Europa può mettere a repentaglio il programma anticrisi americano. Obama chiede più volte che l’Europa affronti la crisi con decisione. A settembre Draghi annuncia il programma di riacquisto di titoli pubblici europei sul mercato. I mercati si rassicurano, ma per poco. Viene Cipro, altra confusone.
La memoria lascia gli europei in crisi. Tra “impegni sempre confusi e incompleti”, nei “loro tardivi e spesso inefficaci tentativi di imitarci”. Sempre divisi su “un robusto programma europeo di ricapitalizzazione diretta del sistema finanziario, come il nostro”. Incapaci di “un piano effettivo di un sistema comune di assicurazione sui depositi” (quello oggi in discussione). Con una disoccupazione a livelli impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una crescita stagnante, … un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era tanta sofferenza innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori degli europei … fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla crisi”.
Nessuno ha contestato, in questo anno dacché il libro è uscito, la minuziosa rappresentazione di come Geithner ha salvato l’America dalla depressione. Che quindi è da ritenere veridica. Obama ha peraltro terminato il mandato a Geithner al termine della sua prima presidenza – è d’uso rinnovare la squadra al secondo mandato. Che ora si accontenta di gestire il fondo di  private equity Warbug Pincus.
Timothy F. Geithner, Stress Test. Reflections on financial crises, Random Huse, pp. 580, ill, £ 9,99

Giorgia senza veli

Un libro interessante non per l’analisi, che gli autori così sintetizzano in quarta di copertina: “Quello costruito da Giorgia Meloni  insieme ai suoi coetanei della generazione Atreju è, a tutti gli effetti, non solo nel simbolo, il terzo partito della Fiamma e, al tempo stesso, l’espressione di una destra a-fascista, nazional-conservatrice che, diventata centrale nella politica italiana, tenterà di cambiare gli equilibri della politica europea” – lo sguardo dei due acuti analisti è già, come è avvenuto per il Partito Popolare Europeo, il primo ad accorrere a Roma, al voto eurpepo dell’anno prossimo. Il punto più interessante è che l’analisi è fatta a siniatra, in ambito Pd: Vassallo, ex parlamentare Pd, dirige l’Istituto Cattaneo,  in-house delle edizioni Il Mulino – una sorta di successore bolognese dell’Istituto Gramsci, liquidato con il Pci, meno arcigno ideologicamente; Vignati è un sociologo politico che collabora col Cattaneo.
Vassallo non manca il bersaglio. Che la stessa Giorgia Meloni propone, i suoi “fratelli d’Italia”volendo “uomini e donne che corrono da un’epoca a un’altra, da una generazione all’altra, portando con sé una fiamma che non si è mai spenta completamente”. Un programma che è un problema: i legami col fascismo storico e con la “destra radicale” di oggi. Un interrogativo a cui non si può dare risposta dall’interno, argomenta Vassallo. Giacchè Fratelli d’Italia non solo è un partito nuovo, nuovissimo, con molti liberali e cattolici, come Crosetto o Mantovano, e molti professionisti, in qualità di esperti o tecnici, specie al governo. È anche un partito “chiuso”, “gerarchico” (la nomina di Meloni sorella da parte di Meloni Giorgia è successiva al libro, ma conferma e accresce il dubbio). Con a capo una donna, che gli autori dicono “una leader pop”, nuova, diversa, e assertiva - come al mercato delle canzonette.
E qui il fenomeno meglio di tutti è descritto dal risvolto. Una leader pop, “capace di usare tanti registri comunicativi  e di rivolgersi con gli stessi termini a pubblici diversi, alternando rivendicazione di coerenza”, cioè rigidezze”, “ e duttilità, teorie del complotto e amore materno, estremismo verbale e realismo”. Una leader politica? E si trascura che parla spedita e appropriata almeno tre lingue, e conosce i dossier internazionali, qualità che in Italia non contano ma aprono molte porte fuori.
Non di lettura grata, come inevitabilmente la sociologia politica. È un’anamnesi che serve in primo luogo per altre ricerche . la ricerca parla alla ricerca. Quindi documenti del partito, fin dalla fondazione, recente per fortuna, i discorsi delle sue vedettes, le proposte di legge di maggiore spicco, e lunghe interviste con alcuni dirigenti. Conclusione: “L’identità nazionalconservatrice continuerà a costituire il solco dentro il quale FdI tenderà a muoversi”. Europeista anche per struttura mentale, oltre che per bisogno (crisi energetica, piano nazionale di ripresa e resilienza, piano Mattei, transizione verde – e la guerra naturalmente, a cui si può aggiungere la nuova frontiera Indo-Pacifico). Nel rispetto dei tradizionali legami di politica estera dell’Italia post-bellica. Con un’accentuazione dell’Italia “ponte tra l’Europa e i Paesi del cosiddetto «Mediterraneo allargato»” – un tentativo di rilancio in verità, l’Italia ci provò negli anni 1970-1980, per una politica euro-mediterranea che poi non si fece.
Salvatore Vassallo-Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia, Il Mulino, pp. 296 €18

lunedì 25 settembre 2023

La Russia nel cuore dell’Africa

La Russia sovietica ha lasciato grate memorie in Africa, e il golpe del Niger né è una prova, se il generale golpista Tchiani, formato in Francia, può dichiarare di avere “la Russia nel cuore”, e cacciale truppe francesi. Non l’unica. La presenza russa in Africa viene limitata ai lanzichenecchi della brigata Wagner, ma la brigata Wagner è – era – presente in molta Africa in ricordo della presenza sovietica. Come contrasto al neocolonialismo, che s’intende europeo, occidentale. Forte cinquanta e quaranta anni fa, all’indomani delle indipendenze, ma non pù debole oggi. Soprattuto nello storytelling, nel sentimento comune, ma non senza pietre d’inciampo solide. Non c’è nessun aiuto europeo, in nessuna forma, e c’è qualche sfruttamento, soprattutto da parte della Francia, per le risorse minerarie e da qualche tempo per le fonti di energia. Nonché sullo scandalo emigrazione, con l’Europa che costringe l’Africa all’illegalità e all’avventura, costosissima e spesso mortale.
Meloni è l’unica leader  europea che si è avventurata in Africa da alcuni decenni, ed è tutto dire – specie sullo sfondo della guerra che mezza Bruxelles, la parte progressista, le muove per questo pur modesto impegno.
Lo stesso sentiment ha favorito l’ingresso (un ritorno, in realtà) nel continente della Cina.
Non c’è una presenza russa in qualche modo paragonabile a quella sovietica di cinquante e quaranta anni fa, in Somalia, Etiopia, Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Tanzania, Uganda, Zanzibar, Zimbabwe, oltre che in Egitto e in Algeria. Ma Putin può contare nelle varie assemblee mondiali su un sostegno vasto. La Russia è anche l’unico paese, in questi due anni di guerra che si è occupato di non far mancare le granaglie, per il poco che valgono.

Amici miei, e una morte annunciata

Tre chirurghi, équipe di punta di chirurgia, si riposano con la beffe a danno dell’anestesista. Finché l’anestesista non risulta in fin di vita, e allora i tre gli organizzano una vacanza di sogno. Ma non tutto è come appare.
Una esumazione di “Amici mieei”, con tre sicuri pilastri, Verdone (che esce dal cliché della sua seconda vita, il preoccupato, farmaco-dipendente), Tortora e Papaleo, e una brillantissima new entry, Foglietta. Che prometteva un nuovo felice filone, ma poi non ha avuto seguito.  
Carlo Verdone, Si vive una volta sola, Sky Cinema

domenica 24 settembre 2023

Ombre - 686

Il primo necrologio per Napolitano sul “Corriere della sera” è di Mario Monti. Un miracolato in effetti, che Napolitano preparò, con nomina a senatore a vita, per succedere a Berlusconi in un governo del presidente (Monti era entrato in politica con Berlusconi, che nel 1994 lo aveva nominato commissario a Bruxelles, alla cruciale direzione Concorrenza, insieme con Emma Bonino). Lo fece in obbedienza a Sarkozy e Merkel, due emeriti statisti europei per ridere – uno anche variamente condannato. Poi negò la grazia a Berlusconi.
 
A Piazza Armerina Mattarella spiega al pubblico quello che ha appena spiegato al presidente tedesco  Steimeier, che gli accordi di Dublino sull’immigrazione sono ferro vecchio. Il giorno dopo da Berlino il governo tedesco ammonisce l’Italia a rispettare gli accordi di Dublino. Niente ipocrisia, niente garbo, è il diritto. Il problema è che la Germania fa e disfa gli accordi di Dublino come le fa garba.

Stephanos Kasselakis, Goldman Sachs, erede di ricco armatore, giovane, bello, gay, residente a Miami, è il nuovo capo di Syriza. Syriza è la sinistra di Tsipras che governò la Grecia dopo la crisi del debito, attraverso il suo ministro del Tesoro Varoufakis, altro enfant gaté, greco-australiano, governò anche l’Itala, ospite riverito di Fazio e Floris, fisso di Santoro e Fazio, e direttamente col fascino del fondatore incantò Barbara Spinelli, Moni Ovadia, Curzio Maltese e altri intellettuali, che ebbero pure un milione di voti e si deputarono a Strasburgo. Lo diventa senza nessuna gavetta, gli è bastato un video di pochi minuti, in cui rivendica l’orgoglio di essere un figlio di papà, uno che “si è fatto” – anche se non da solo. È questa è la Nuova Sinistra.

Intervista del cardinale Montenegro, già vescovo di Agrigento e quindi di Lampedusa, con Scaramuzzi su “la Repubblica”, tipicamente pilatesca: abbiamo il dovere della misericordia, non c’è niente da fare – “il vento lei riesce a fermarlo?”. Niente sul traffico dei migranti: le masse spedite su barchette in mare aperto, l’organizzazione e i problemi dei trasbordi, lo sfruttamento della povertà. E i bambini a frotte, le donne al nono mese di gravidanza, dopo due e tremila km. nei deserti? Si vogliono aggiornati, ma sono sempre il vecchio prete, che tutto si fa scivolare addosso.
 
Niente dice il cardinale, come del resto il papa Francesco, della barbarie politica africana, di dittatori di ogni genere, generalmente ladri e concussori. Né del razzismo arabo, che schiavizza, proprio, gli africani subsahariani. Una realtà che – loro, a differenza degli italiani – conoscono bene, per la rete intelligente dei nunzi e i tanti vescovi che contano sul campo. Anche la chiesa deve ancora scoprire l’Africa? E perché, se la conosce così bene?
 
Dal niente sporco in cui ha affogatola città, e senza più mezzi pubblici, Atac e Fs fanno una corsa su tre, il sindaco Pd Gualtieri tira fuori dai fondi statali per il Giubileo 14 milioni per Villa Ada, quartiere chic di Roma che lo vota, per il “recupero di edifici abbandonati e fatiscenti e una chiesetta in cui celebrare i matrimoni laici”. La “chiesetta in cui celebrare i matrimoni laici” per il Gioubileo è segno di rara sensibilità. Questo Pd, che non era più comunista, e non è più nemmeno democristiano cos’è? Il partito dei buoni borghesi? Con autista?
 
Stefania Craxi dietro Meloni all’assemblea Onu, è presidente della Commissione Esteri del Senato, e quindi in qualche misura è al lavoro, esplica le sue funzioni. Ma è la figlia dell’ultimo, e unico, capo del governo socialista, che assiste la prima presidente del consiglio ex fascista.
 
Il governo di destra vara i Cpr, per ospitare i “profughi” che dall’Africa arrivano a migliaia ogni giorno in attesa dell’identificazione. Per alleggerire i campi siciliani e calabresi. Ma Bonaccini dice no. E anche Giani – non lo dice ma lo fa - i due presidenti di Regione Pd. Cioè? Libera entrata per tutti ma poi non li vogliamo – che stiano al Sud? Il primo giorno. Il secondo, qualcuno deve avergli ricordato che i Pd è per l’immigrazione libera, tacciono – ma non obbediranno. La Romagna allora rossa murava le case sfitte già cinquant’anni fa, quando ad arrivare erano i meridionali.
 
Zelensky licenzia sei vice-ministri della Difesa. Ottimo, dopo il ministro corrotto via anche i suoi vice. Ma c’erano – ci sono – sei vice-ministri della Difesa in Ucraina? Per dividere più equamente?
 
Si lamenta che “le «tax expenditures»”, le agevolazioni e esenzioni fiscali, “sono ormai a quasi ottocento voci, piccoli e talvolta minimi sussidi per platee ristrette”. E i bolli, diritti, accise, addizionali, oneri di sistema, contributi?

La verità sui migranti, speranza e schiavismo

Il “comandante” del titolo è uno dei ragazzi africani che prova a sbarcare in Italia, che si guadagnerà infine a Tripoli il passaggio in mare gratuitamente come pilota del barcone, un vecchio arnese in disuso sulla spiaggia, gratuito per sé e per l’amico inseparabile distrutto fisicamente dalle torture, non essendo perseguibile all’arrivo perché minorenne – “non devi fare nulla, vai sempre  diritto, tieni il il timone fisso sul Nord della bussola, solo le onde alte cerca di prenderle di sbieco e non frontalmente”. Due ragazzi di Dakar che sognano di fare i rapper in Europa raccolgono coi  mestierucci, nelle ore libere dalla scuola, i soldi necessari, e all’insaputa delle famgilie partono. Un film eccezionale perché, oltre che ben raccontato, mostra il terribile schiavismo che si è organizzato su questi “viaggi della speranza”. E questa è una novità assoluta, in tanti anni, decenni, di migrazioni catastrofiche ancora non avevamo nessuna narrazione chiara, esplicita, di come la cosa avviene: non è difficile, Garrone lo fa, ma nessun giornale, nessuna tv, nessun papa, che pure sa tutto mglio di tutti, ce lo aveva raccontato.   
Garrone torna con questo film che farà epoca al suo debutto, il cortometraggio “Silhouette”, 1996, col quale fu premiato da Moretti semiserio col Sacher d’Oro, trasposto l’anno successivo in “Terra di mezzo”, tre storie di immigrati a Roma, il suo primo lungometraggio anche allora a metà, come questo “Io, capitano”, tra invenzione e documentazione. Con un filo di fantasia, derivato dai racconti afrcani, di figure volanti, miraggi, diavoli: Garone usa alternare il realismo semplice, “Gomorra”, della realtà che parla per sé, o “Dogman”, alla fantasia, anche un po’ gotica, del “Racconto dei racconti”, la megaroduzione dal “Cunto di li cunti” secentesco di Giambattista Basile..
Un film di forte attrattiva, molto ben costruito. Soprattutto nella parte documentaria, dell’estrema violenza del viaggio attraverso i deserti, una forma di moderno schiavismo, alla mercé di sfruttatori arabi, compresi i tuareg di Agadez nel Niger, punto di raccolta per l’attraversamento del Sahara fino a “Tripoli”, alla costa libica. E della Libia. La Libia tutta nuova lasciata da Gheddafi, tutta moderna, la Libia selvaggia che Gheddafi teneva in gabbia e l’Occidente ha liberato, di violenza e corruzione come pratiche correnti di vita. Notevoli, da grande reportage, le ricostruzioni. Di Agadez, il primo grande mercato dei migranti –inutilmente presidiato, si può aggiungere, da militari italiani. Dei libici arricchiti da Gheddafi, tondi e stupidi nella villa con muro di cinta e fontana di maioliche in mezzo al deserto. Dell’estremo cinismo di tutti. Dell’esercito-polizia per primo alla frontiera del Fezzan, sulle auto lampeggianti nuove di zecca. Dei piccoli trafficanti. Delle mafie, con prigioni, torture e riduzioni in schiavitù. Notevole anche la ricostruzione delle baraccopoli alla periferia di Tripoli, lungo l’autostrada per l’aeroporto, dei migranti che devono faticare per pochi spiccioli per pagarsi l’imbarco, isolati, disprezzati.
È anche un film che spazza via l’ipocrisia di un certo ecumenismo. Gli basta una sola frase per scolpire la perpetuazione del vecchio regime arabo di schiavismo, detta dal futuro “comandante” all’amico con le ossa rotte: “È inutile che ti porto all’ospedale, non ci fanno entrare, noi per loro non esistiamo  (“noi”, gli africani neri, n.d.r.), arriviamo in italia e lì ti curano”. Dopo una serie di brutte facce che vogliono trecento, quattrocento e seicento dollari, e vendite di migranti come schiavi, ai beoti arricchiti da Gheddafi. Si invoca alla fine, davanti alla morte, il nome di Allah, e tanto più pregnante si fa allora la riduzione in schiavitù - il pensiero non può fare a meno di correre al capo opposto di questo traffico, alla Turchia, anche lì si  spende il nome di Allah.
Matteo Garrone,
Io, comandante