sabato 4 novembre 2023
Letture - 536
Dante – Era “islamico” anche prima di
Asìn Palacios, 1919, e di Maria Corti. Una prima fonte si reputava “Abulola”,
un poeta arabo dell’anno Mille (973-1047), Abul Ala Al Ma’arri, che in una
“Epistola del perdono” narra il viaggio di un amico nell’oltretomba.
Inglesi – Sono stati a
lungo inglesi, si sono detti inglesi, per via della lingua, anche gli scozzesi,
che ora si distinguono, i tanti filosofi e scrittori scozzesi. Patrick Brydone,
scrittore scozzese, parla sempre di “noi inglesi” nelle corrispondenze fittizie
che manda dalla Sicilia nel 1770.
Isolani
–Sono
“per natura” animosi contro i “continentali”? È l’ipotesi di Patrick Brydone
nell’ultima delle lettere che compongono il “Viaggio in Sicilia e a Malta
1770”: “Benché i siciliani siano in generale della gran brava gente e sembrino
dotati di molta filantropia e di cortesia, bisogna pur ammettere che non nutrono
gande simpatia per i loro vicini del continente. È strano”, prosegue Brydone, “e
direi assai poco lusinghiero per la natura umana”, pensando all’Inghilterra nei
riguardi del continente Europa: “Mi sarei augurato con tutto il cuore che noi
inglesi fossimo un’eccezione”. E si consola: “Ora come ora siamo noi i campioni
di questa animosità”, ma non i soli.
Italia - La fisica era
“italiana” nel Settecento. Il barone Lichtenberg, il fisico e scrittore tedesco
del secondo Settecento, che poi inviterà Alessandro Volta, da lui
ammiratissimo, alla sua università, Gottinga, per un’esposizione dei suoi
studi, progettò un viaggio in Italia per avere una conoscenza di prima mano
degli ultimi sviluppi. Ne scriveva in questi termini a un amico il 30 settembre
1784 - prima dell’invito a Volta a Gottinga: “Faccio questo viaggio solo per
allargare le mie conoscenze a vantaggio dell’università, perché oggi l’Italia
è, forse ancora più dell’Inghilterra, la sede della vera fisica”.
Longanesi – “Egli trova
facilmente il ridicolo in tutto. È la forza dei deboli”, C. Alvaro, “Quasi una
vita”, 1943. A proposito di una battuta sui bombardamenti: “Ci stanno rovinando
gli originali delle fotografie Alinari”.
Maggio – Era un mese
infausto ai matrimoni. Patrick Brydone lo nota in Sicilia, dove viaggiava nel
1770, ma come di una credenza comune. “Come la maggior delle nazioni europee
anche i siciliani evitano con cura di sposarsi nel mese di maggio, e
considerano i matrimoni celebrati in quel periodo estremamente infausti”. Colpa
dei romani, dice il viaggiatore e scrittore scozzese: “Questa credenza
superstiziosa risale al tempo dei romani, e forse anche più in là: gli autori
classici ne parlano spesso, anzi sono stati loro a trametterla in quasi tutti i
paesi d’Europa”.
Pirandello
–“Pirandello
non dubita mai che qualunque idea gli venga in mente non sia importante. Fra le
sue carte non ha niente di inedito”, C. Alvaro, “Quasi una vita”,1936. E l’anno
dopo: “Pirandello aveva la spietatezza della castità. E così un forte disgusto
della natura umana, e accentuate ripugnanze fisiche”. La tarda relazione con
Marta Abba, stretta sul piano artistico ma fredda su quello umano, di cui si fa
colpa all’attrice, come di una carrierista sfruttatrice, avrebbe altra radice.
Sesso
–
Era un fenomeno elettrico nel Settecento – “Lichtenberg”, il fisico di Gottinga
che fu anche scrittore, “si diverte spesso a mettere in relazione l’elettricità
e il sesso”, nota il curatore dei suoi aforismi e delle sue lettere, Anacleto
Verrecchia. A proposito di Patrick Brydone, lo scrittore e naturalista scozzese
che nel 1974 pubblicò un “Viaggio in Sicilia e a Malta”, dove a un certo punto,
a Catania, proponeva di applicare il parafulmine, appena scoperto da B.
Franklin, alle acconciature voluminose delle signore, annotava, al frammento
D511: “”Brydone propone il parafulmine per la testa delle dame. Un parafulmine
per la loro… sarebbe meglio”.
La scoperta di Eco “giovane romanziere”
Curiosamente, solo dopo quindici anni si possono leggere in italiano le Richard Ellman Lectures tenute da Eco ad Atlanta, alla Emory University, in inglese, sull’esperienza dello scrivere. Da “giovane” perché “mi considero un romanziere molto giovane”, esordisce , a partire dalla “cogitazione” de “Il nome della rosa”. Ritrosia dell’autore, che non le considerava meritevoli di pubblicazione? Ma il brio non manca. Del resto la serie aveva già pubblicato con la Harvard Press nel 2008, e anche in francese, perfino nei tascabili, Livres de Poche.
Già recensita da questo sito alla ripubblicazione
francese, nel 2016, sotto il titolo "Il falso pentito Eco":
Altre divagazioni sul suo proprio lavoro, dopo la ”Postilla al Nome della Rosa”, e l’enorme paratesto a “Il pendolo di Foucault”, materia a un futuro ecobiblismo. Una rilettura dei suoi romanzi, senza “Il cimitero di Praga” per fortuna, e “Numero zero”. Con riuso di molti materiali già noti e discussi. Con la curiosa dissociazione, molto echiana, della difesa della “semiosi illimitata” di Peirce e insieme della necessità di limitarla, ancorarla. Con ampie esposizioni delle due “tecniche postmoderne” di cui vanta l’uso: l’“ironia intertestuale” e il “metaracconto”, la “riflessione del testo sulla sua propria natura”. Ciò che si definisce “doppia codifica”. Cose che il lettore trova senza spiegazioni fumose in Manzoni – in Dumas, Walter Scott.
Scivoloso. Subito su scrittura creativa e scrittura scientifica: la scrittura è “creativa” tra virgolette, e il termine è “malizioso”. Da logico post-scolastico, che però, invece di iscriversi alla neo-tomistica, si è ingolfato nella semiotica. Illuminandola con l’estro e il garbo, ma smarrito. Facendosi sempre perdonare per l’indefettibile autoironia: “Una volta ho perfino scritto, con tocco d’arroganza platonica, che consideravo i poeti e gli artisti in generale come prigionieri delle loro proprie menzogne, come degli imitatori d’imitazioni, mentre in quanto filosofo io avevo accesso al vero mondo platonico delle Idee”. Ma smarrendo il fedele lettore: a quale Eco appigliarsi?
È un falso pentito, gli uditori cui si indirizzava configurando come un tribunale. Confessa – rivendica - “la passione per la falsificazione”. E non tutto, dice, rivela: “Per scrivere un romanzo di successo, un autore deve conservare il segreto su certe ricette”. Con un ghigno? Insensato. Sofistico: di ogni scelta dà ragioni diverse, probabilistiche, teoriche, tutte vere, cioè tutte false – talvolta le “falsifica” lui stesso: il relativismo è sofistico. Non cinico. Non scettico. Stimolante, ma a nessun esito.
Dei romanzi dà i tempi di lavorazione. Poco credibili – in tutto, per i cinque romanzi di allora, fanno ventisei anni. Si vuole figurativo, e in quache modo lo è: produceva migliaia di abbozzi, schizzi, disegni di ogni personaggio, luogo, situazione – come Fellini, Günter Grass. E ricorda che Marco Ferreri si era proposto di fare “Il nome della rosa” al cinema perché tutto è preciso nel romanzo: “Il suo libro mi sembra concepito espressamente perché se ne faccia una sceneggiatura, i dialoghi hanno esattamente la giusta lunghezza”. Giusta, intende Eco, perché si svolgono dentro e tra ambienti da lui calcolati in minuziose topografie.
“Il nome della rosa”, primo successo planetario istantaneo, prima del “Codice da Vinci” e di “Gomorra”, finisce per non spiegare, “i lettori ingenui e di poca cultura” escludendo “da questo gioco” postmoderno “di scatole cinesi, da questa regressione delle fonti, che conferiscono alla storia un’aura di ambiguità”. Il suo obiettivo essendo “una sorta di complicità silenziosa col lettore colto”. Milioni di lettori colti? In effetti questo libro, una serie di lezioni a un pubblico colto, di un autore sui propri libri, di un semiologo sui propri segni, è eccezionale. È anche buona cosa – a parte l’effetto mercato, di convitare gli studenti americani, futuri mediatori culturali, a un incontro ravvicinato prolungato con l’Autore Celebre e il Celebre Semiologo? Poco ne resta.
Sono poche le confessioni. Forse solo una: che scrisse “Il nome della rosa” per caso. Invitato dalla redattrice sua amica di una piccola casa editrice a scrivere un breve racconto giallo, lui come altri “scienziati”, rifiutò vantando: “Se dovessi scriverne uno, lo farei di cinquecento pagine”, dopodiché la molla scattò. Si può anche credergli. Un quarto del materiale, “Autori, testi e interpreti”, è ripreso da “Interpretazione e sovrainterpretazione”, di vent’anni prima, che a sua volta si rifaceva al voluminoso trattato “I limiti dell’interpretazione”. E un altro quarto abbondante dalle “Mie liste”, di cui approntava un volume a parte – ricco, questo, di un’imponente selezione di immagini. Elenchi spenti, nulla della vertigine delle liste originarie di Rabelais. Il saggio centrale è di semiologia: il Lettore Empirico, il Lettore Modello, l’Autore Empirico. E anche il primo quarto, il più originale, “Scrivere da sinistra a destra”, è farcito di grammatologia indigesta: il condizionale controfattuale, il dispositivo, la decodifica, la doppia codifica.
Sarà questo il motivo per cui di Eco, di cui editano anche i ritagli, queste “Confessioni” non si pubblicano in italiano?
Umberto
Eco, Confessioni di un giovane
romanziere, La Nave di Teseo, pp. 224 € 20
venerdì 3 novembre 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (42)
Giuseppe Leuzzi
Accompagnavano Caroline Flaubert fresca sposa in
viaggio di nozze il fratello Gustave, il padre Cléophas e la madre. Era maggio
del 1849, tra Rouen, capoluogo della
Normandia, regione della Francia settentrionale, e Genova, e poi a
Genova per un paio di settimane. È fatto vero, non è un racconto di Brancati.
“Ricordo di aver guardato i
fondi europei per la ricerca scientifica destinati alle Regioni Obiettivo 1 del
Mezzogiorno e di aver trovato che spesso non hanno generato ricerca avanzata o,
addirittura, si sono rivelati dannosi”, Giorgio Parisi sul “Corriere della
sera-Login”.
Non solo i fondi per la
ricerca, tutti i fondi Obiettivo 1. Se si considera come con quei fondi l’Andalusia
in Spagna o la Grecia o la Polonia sono diventati prosperi, è chiaro che il Sud
è vittima di se stesso.
“Dai Greci i meridionali hanno
preso il carattere di mitomani”, C. Alvaro, “Quasi un vita”,1938.
Il toscano? Un cattivo meridionale.
Non a suo agio con l’intellettualità letteraria anteguerra, toscana, C. Alvaro
le imputa i peggiori vizi del notabilato meridionale – “Quasi una vita”, 1939:
“La retorica della tradizione, della religione, dell’arte, del disinteresse,
serve freddamente ai toscani. È il vezzo dei loro intellettuali. È venuto fuori
un tipo che riassume in sé il formalismo, il fiscalismo, il borbonismo, la
prepotenza, il servilismo, la cavillosità del cattivo meridionale”. Si può
usare il Meridione come una clava, per offendere e non per essere offesi, come capita.
Le proiezioni demografiche,
per natura quasi certe, danno il Meridione fra sessant’anni, al 2080, ridotto
dai venti milioni attuali di abitanti a 12 milioni. La “questione meridionale”
si estinguerà con i morti.
Si riduce anche il resto
d’Italia, ma di poco: il Centro da 12 a 9 milioni, il Nord da 27,5 a 24,5. Si direbbe
che il Sud non ha più voglia di nascere.
Se Napoli fosse rimasta industriale
I tremila lavoratori della
Whirpool che non si sono arresi agli ammortizzatori sociali, una comodità, da
integrare semmai con un po’ di lavoro nero, e hanno cercato una nuova
occupazione, e l’hanno trovata, riporta alla memoria quanto l’economista compianto
Mariano D’Antonio, napoletano autoesiliato, amareggiato, a Roma, diceva del
post-Bagnoli, della “Rinascita napoletana” di Bassolino, dell’ubriacatura della
Napoli del “terzo settore” – in pratica del turismo culturale e dei bagni di
mare: “Pensano di fare sviluppo con le pizze, tutti camerieri, la mancia è
esentasse”.
La chiusura di Bagnoli era
diventata un’ossessione. “La siderurgia a Posillipo” era anatema alla fine
anche degli stessi dirigenti dell’Italsider, che non vedevano l’ora di di avere
la chiusura imposta, dal municipio, dalla regione, dal governo. E la chiusura fu
una celebrazione – “ne faremo una città del sapere”, “una città della scienza”,
questo trent’anni fa. Gli ex Whirpool ricordano dopo trent’anni di città della
scienza a venire, mentre il “terzo settore” combatte con furti, scippi,
pistolettate, che Napoli era una città industriale al tempo dell’unificazione dell’Italia,
la più industriale, tra cantieri a mare e a terra. Ed era il porto dell’Europa
verso Oriente. E che se l’unità d’Italia fosse stata fatta con criteri diversi,
come una federazione, o anche con uno stato unitario non “piemontese”, la storia
sarebbe stata molto diversa. Il Meridione è diventato “questione” subito, nel
1873, subito dopo Porta Pia.
Ora invece, Napoli si può dire la capitale
dell’esportazione dell’imprenditoria. Si poteva dire dieci ani fa, quando la
Camera di Commercio di Milano censì gli “imprenditori” (titolari di aziende,
amministratori, soci – se attivi) per città di origine. Il numero degli
imprenditori nati a Napoli era il più elevato, quasi 400 mila – contro 365 mila
romani, e 345 mila milanesi. Per effetto della proliferazione della micro imprenditoria
nella stessa Napoli, ma non solo: Napoli risultava al secondo posto per il numero
di imprenditori nati nella stessa città (il 90,9 per cento – dietro Bari, 91.4
per cento). Ma era al secondo posto anche per il numero di incarichi in imprese
fuori del territorio: 108 mila imprenditori – seppure solo la metà di Milano,
prima in classifica , con 231 mila imprenditori attivi in altre province.
Perché la Sicilia non è la California
Si
leggono i giornali locali in Sicilia con un’impressione netta: il siciliano è
sicuro di sé (self-assured). Anche
quando conversa, o chiede, perfino se prega. Non manca di iniziativa, al
contrario presume troppo. E la memoria torna di quando, quarant’anni fa, si
celebravano a Palermo convegni sulla Sicilia come la California d’Italia (la
California allora molto celebrata, come ottava potenza economica mondiale,
subito fuori del G 7). Clima e natura. Storia e cultura. E inventiva: farmaceutica
a Catania, e i microprocessori di Pistorio, bioingegneria, sempre a Catania, moda
e turismo, di classe, anche di gran classe. E non è stata a lungo nulla, per il
decennio delle stragi. Poi in ripresa, ma con
juicio. E crede sempre alla mafia.
La
sicurezza di sé, allora? C’è ma è un handicap. Troppe imprese brillanti si sono
conosciute che non sono sopravvissute al fondatore - e anzi si sono fatte
variamente imbrigliare (ma soprattutto sotto la nube mafia): Morgante (Italkali,
un impero del sale che arrivava in America, alle strade americane – con miniere
di salgemma attorno ad Agrigento che erano un tesoro, anche artistico, prima
che gliele chiudessero), i cavalieri di Catania, Rendo, Costanzo, Graci, Finocchiaro,
quelli dei fosfati, i primi ad arrendersi (senza bisogno della mafia, bastò
Leoluca Orlando), Arturo Cassina (i figli Luciano e Duilio hanno tenato di
continuare, ma sono stati stroncati), da ultimo Montante. Il terreno è buono e
fertile ma poco ci cresce – fiori sul letamaio.
Il vino in Calabria
Il vino è il suo vitigno.
Metodi e tecniche possono modificarne il sapore, qualche volta anche migliorarlo,
ma la sostanza del vino è il vitigno che gli da consistenza, colore, sapore,
profumo e ogni altra dote.
Il vino piace anche perché è
vario, se è vario. C’è chi beve sempre un solo vino, ma ne apprezza le
variazioni. È d’uso, anche da prima del “mercato”, quindi moltiplicare l’offerta,
di “vini buoni”, che rispondano cioè a un vitigno locale di cui sono note le
caratteristiche, che prospera per le speciali condizioni dei terreni, le acque,
l’umidità e l’aria locali, moltiplica la varietà alla degustazione, e moltiplica
il mercato, la domanda, la produzione.
La Calabria risulta avere un
record di vitigni autoctoni, 180 vitigni antichi sarebbero registrati. E aveva
fama di terra di vini ottimi. I viaggiatori dell’Ottocento vi trovavano molti
motivi di disagio, comunicazioni,
traspori, alloggi. Ma tutti ne apprezzavano i vini. Il medico svizzero Rilliet,
che lavorava a Napoli e accompagnò l’ultimo re Borbone in una parata militare
attraverso tutta la Calabria, che
descrive grande produttrice di seta, olio d’oliva e “vini famosi”, non lascia una sosta senza elogiare il vino
locale, malgrado le pulci, i gallinacci tra i piedi, anche i porci, e gli altri
noti inconvenienti.
Ottant’anni dopo un altro
viaggiatore, il fiorentino Orioli, fa dei vini locali che via via assaggia una
collezione fantastica, il vino alla viola, alla mandorla, al pesco selvatico –
con la consulenza del suo grande amico Norman Douglas, che già ne aveva fatto
assaggio entusiasta prima della Grande Guerra.
Altrove basterebbe per uan
promozione in grande stile, per di più gratuita. In Calabria no, non interessa.
Coltiva pochi vitigni, i rossi gaglioppo e magliocco, i bianchi greco,
ansonica, mantonico, pecorella, e li lavora poco. Si può dire che non produce quasi vino. Giusto 90 mila ettolitri l’anno, poco più della Basilicata -
ultima regione in Italia per la produzione di vino, se si eccettua la valle
d’Aosta. Il Molise, con una superficie di un quarto, poco meno, e altrettanto
montuoso, ne produce due volte e mezzo. Un sola cantina calabrese, o due, è fra
e 103 italiane nella graduatoria per qualità di “Wine
Spectator”, bibbia del settore. Fra i cento produttori vitivinicoli nazionali classificati
per fatturato da “L’Economia”, da 624 a 10 milioni di fatturato, non c’è un
produttore calabrese.
Ora
che il vitigno “diverso” va a premio sul gusto “internazionale”, la Calabria il
vino lo trascura – renderà bene, ma è faticoso. Spariti gli ottimi
bianchi della costa tra Scilla e Palmo, non un tralcio sopravvive.
Per l’eccezionale zibibbo Bagnara festeggiava con famose Sagre dell’Uva negli
anni 1950. Gustav René Hocke censiva con grandi lodi anche un ottimo Greco di
Gerace, un vino bianco derivato dall’uva greca, molto diffusa tra Metaponto e
Gerace. Anche il nome sembrava ben trovato, un brand nato, e
invece: mentre sul vitigno greco altre aree d’Italia hanno costruito, seppure
con difficoltà, degli imperi, il Greco di Gerace si è perso. Il Greco di
Lamezia, tentato una diecina d’anni fa, è scomparso dopo tre o quattro anni. Il
Critone, che al greco aggiungeva una modesta quantità di sauvignon, per un
esito molto gradevole, pure. Il Cirò bianco, che era al 100 per cento di uva
greca, da qualche anno si mescola al trebbiano, per farne un “vino da tavola”.
Manca più la capacità o l’ambizione?
“In viaggio”, la memoria di Orioli sul suo viaggio a piedi
attraverso la Calabria, ha i vini una costante nelle notazioni di varia natura.
Giuseppe “Pino” Orioli, sodale e compagno di Norman Douglas, il grande scrittore
di “Vecchia Calabria, caprese di adozione, che lo accompagna nella rivisitazione, nella primavera del 1933, è
entusiasta, dell’aria, i profumi, i ragazzi (e le ragazze), e dei vini: “Il
cibo non è certamente raffinato ma il vino è delizioso”, è notazione costante.
Si tratta di vini locali, e anzi personali, degli osti e degli anfitrioni dei
viaggiatori. Ma il colore e il sapore sono già regionali, “jonico,
“reggino”. Le notazioni ritornano encomiastiche quasi a ogni pagina. Non c’è
vino che beva che lo deluda – ed era la sola bevanda all’epoca rinfrescante, o
perlomeno coadiuvante nelle lunghe scarpinate (il viaggio si faceva a piedi). A
Doria, frazione di Cassano, gusta “il vero vino calabrese, quello con il gusto
di viola che rimane così piacevolmente sul palato”. A Pellaro, alla fine, gli “lascia
ancora in bocca quell’inconfondibile gusto di mandorle” – e questo è il gusto
tirrenico, come opposto a quello “jonico”. Un arsenale pubblicitario
formidabile, di cui in altre contrade, per esempio lo smagrito Friuli, si sarebbe
fatto una miniera.
A Crotone si rifornisce di “bottiglie scelte di vino Cirò e Melissa”,
dall’“inconfondibile sapore ionico”. E subito dopo, a Tiriolo, si delizia dei “vini locali”, più
delle donne, che allora si ammiravano per l’abbigliamento tradizionale: “Quelli calabresi non sono stati standardizzati, ringrazio Dio per questo” - anche Soldati
sarà reiteratamente di questa idea sui vini, che sono meglio locali, variati. non standardizzati. A Spezzano
Grande compra “bottiglie di vino eccellente”. A Gioiosa “il vino, questa volta,
ha il gusto ionico delle mandorle e non delle viole, e visto che stavamo lasciando
le coste ioniche per quelle tirreniche, lo bevemmo con estremo gusto”. Il vino di Pellaro, sotto Reggio Calabria, è
“una scoperta”. Ci ritorna più volte - “lascia ancora in bocca
quell’inconfondibile gusto di mandorle, che è una specialità di questi vini”. Anche
a Metaponto, finita la trasvolata della Calabria, trova “una piacevole
sorpresa”, il vino: “Vino calabrese d’alta classe, non come quel veleno nero
pugliese che di solito vendono nelle stazioni”. Allora come ora, i pugliesi
vendono il vino nelle stazioni, i calabresi no.
leuzzi@antiit.eu
I palestinesi come i buchi nel gruviera
"La Cisgiordania, dove milioni di Palestinesi
normalmente vivono, ha visto anch’essa uno scoppio di violenza”,
dopo il 7 ottobre, “con oltre cento palestinesi uccisi in raid delle forze
armate israeliane e in scontri tra israeliani e palestinesi. I coloni israeliani,
spesso col sostegno dell’esercito, hanno anche scacciato schiere di famiglie
palestinesi dalle loro terre”.
L’intervistatore
principe del settimanale riassume un colloquio dettagliato con Hagai El-Had,
attivista israeliano, già direttore generale dell’organizzazione non profit
B’Tselem, che si occupa del rispetto dei diritti umani nei Territori Occupati
da Israele, l’ex Cisgiordania o West Bank. “Cosa è successo dopo il 7ottobre?”.
“La politica israeliana di ripulire l’Area C il più possibile dalle comunità
palestinesi non è un obiettivo nuovo. L’area C è poco più del 60 per cento della
Cisgiordania - in pratica, tutta la
Cisgiordania al di furoi dei maggiori centri abitati e le città palestinesi. I
maggiori centri abitati palestinesi sono come i buchi nel formaggio svizzero,
dove il formaggio è l’Area C, comprendente tutto: la valle del Giordano, le colline
di Hebron Sud, parte della Cisgiordania settentrionale.
“Queste
comunità palestinesi sono state sotto minaccia e pressione della violenza militare
e della violenza dei coloni e ogni genere di pressione per anni. La frase
legale che descrive la cosa è la creazione di un “ambiente coercitivo”, che
spinga i palestinesi ad abbandonare di loro propria volontà….” Specie attraverso
il divieto di concessione edilizia.
“Quello
che è accaduto dopo il 7 ottobre è una escalation
di queste procedure. Lo Stato israeliano, attraverso i suoi coloni, tenta di avvantaggiarsi
del fatto che tutti gli occhi sono su Gaza e sta intensificando drammaticamente la pressione sulle comunità palestinesi… Tredici
comunità palestinesi hanno dovuto fuggire sotto minaccia (“in horror”) nelle tre
settimane dal 7 ottobre”. “Quando dice «comunità palestìnese» ci si riferisce a
gruppi di varia entità. Cosa s’intende per comunità palestinese”? “Talvolta
può essere un gruppo di poche famiglie, una cinquantina di persone che vivono
in un posto, ma anche comunità più grandi. Un piccolo villaggio. Tra cento e
duecento persone, che hanno abitato la stessa terra per decenni. Alcune
comunità sulle coline di Hebron Sud, quello che stanno facendo è di far fiorire
il deserto. …. E Israele sistematicamente li spoglia. Intendo non solo di tutto
quello che hanno costruito, ma, per esempio, privandole dell’acqua corrente, degli
allacci all’elettricità, ai servizi essenziali…..
“E
anche, per essere chiari: tutto ciò che sono venuto descrivendo, tutti questi
vari meccanismi che lo Stato è venuto usando, sono avallati dai tribunali
israeliani, e dal sistema legale israeliano. Non sono fenomeni casuali che
capitano a una singola sfortunata comunità lontana dagli occhi dello Stato. Al
contrario, tutto questo è parte di un progetto di Stato israeliano in corso di
tentare di forzare, di ripulire, il più possibile di palestinesi fuori
dell’area C…”.
L’esercito
interviene in molti modi. “Non vi sia consentito di avere acqua corrente e
elettricità. Magari avete l’elettricità dai pannelli solari, che vi sono stati donati
da un’agenzia umanitaria europea. Ma questi pannelli possono venire confiscati
dall’esercito con la scusa che non sono legali. Oppure l’esercito arriva e fa
esercitazioni suoi vostri campi. Oppure i coloni arrivano e insolentiscono. Picchiano
le persone, le minacciano. Oppure arrivano i soldati e fanno lo stesso. Ci sono
posti di controllo. Ci sono minacce. Da anni….”
Isaac
Chotiner, The Gaza-ification of the West
Bank, “The New Yorker”, novembre,
free online
giovedì 2 novembre 2023
Una intelligence per burla
Meloni burlata, si potrebbe pensare che il capo del governo
italiano non ha voluto essere da meno degli altri capi di governo europei e si
sia prestata - la burla russa come un monumento. E invece no, i suoi servizi, diplomatici
e d’informazione, ritenevano i comici russi un vero presidente
dell’Organizzazione per l’Unità Africana. Ma allora, che ci stanno a fare?
Nemmeno chiedere informazioni all’Oua? I servizi hanno scoperto la burla solo quando è stata pubblicata, quaranta giorni dopo il fatto.
Si arriva al capo del governo senza nessun filtro, né diplomatico
né di intelligence. Per di più dopo
una serie di burle analoghe ad altri personaggi in vista di cui si è parlato
ampiamente. E il capo della diplomazia a Palazzo Chigi, Talo, veniva dalla gestione della sicurezza informatica al ministero degli Esteri.
In questa epoca dell’informazione, si sopravvalutano i “servizi”.
Ma a che servono?
Quelli italiani si pagano ingigantendo le mafie. Non hanno
saputo informare l’Italia che Hillary Clinton e Sarkozy volevano creare un
inferno alle sue porte, in Libia. Si sono rifatti ingigantendo i banditi, di cui
fanno dei supereroi, inafferrabili, invincibili. Prima le camorre di “Gomorra”,
poi sparite per un paio di colpi bene assestati di giudici e funzionari di
polizia. Poi la ‘ndrangheta, di cui come già per le camorre, fanno un impero.
Misterioso, remoto. Per di più assortendolo di Madonne, che trovata!, quella
della Montagna, quelle che fanno gli inchini… Quando gli ‘ndranghetisti, brutti,
sporchi, cattivi, e noti, basterebbe prenderli. O si teme che il business si esaurisca?
Quanto alla mafia propriamente detta, è bastato prendere
Riina: la mattanza è finita. Ma chi ha dato a Riina le coordinate esatte,
luogo completo di n. civico e orario al minuto secondo, degli spostamenti di
Falcone e Borsellino, quello ancora, dopo trent’anni, aspettiamo di saperlo.
Com’eravamo tra le due guerre, e anche dopo
Una
cornucopia di annotazioni, riflessioni, abbozzi, racconti minimi. Ordinata
dallo stesso Alvaro nel 1950 – premio Strega l’anno successivo. In forma di
diario, dal 1927 al 1947. I ricordi anche di una vita, esumati spesso tal
quali, non sempre riscritti. A partire dall’istintivo non-fascismo, anche per
un errore d’intelligenza politica – lasciando il “Corriere” nel 1919, fu
consigliato di cercare Mussolini, e lui
rispose: “Non ci vado, perché non mi piace quello che fa e perché secondo me
non ha avvenire”. Salvo riconoscere, a
metà percorso, nel fascismo “un tentativo di europeizzare l’Italia”.
Molto
è il residuo del lavoro giornalistico. Qualche pettegolezzo. La potenza di Edda
Ciano, nel 1933. O Margherita Sarfatti che dice di Mussolini, nel 1934: “È un
teppista”. E incontri, eventi, personaggi coperti per lavoro. Di Berlino a lungo,
su modi di essere, di pensare, di capire il mondo dei tedeschi, compresi Walter
Benjamin (“critico acuto abbeverato di cultura francese”) e Karl Kraus. Della Turchia. Della Russia sovietica – “atmosfera antierotica”. Di Napoli, dove diresse il giornale di Achille
Lauro, ”Il Risorgimento, nella prima metà del 1947. Appunti datati, ma di interesse
oggi: una sorta di summa degli anni tra le due guerre, e anche dopo. Con una
folla di personaggi: Zavattini, Pirandello, Longanesi…
Molte
le riflessioni sul proprio lavoro, di scrittore. “Nella cultura italiana c’è
una certa inumanità, per eccesso di realtà o per troppa metafisica; ciò spiega
la diffidenza in cui è tenuta dal popolo”. A Charmettes, la residenza di Rousseau,
il guardiano ne spiega così il rapporto con madame de Warens: “Sapete, Rousseau
era come i fiammiferi svedesi”. “Come?” “Si accendeva soltanto sulla sua scatola”.
Molte curiosità. La monaca irlandese bellissima che a Perugia accetta per 300mila
lire di farsi scarrozzare per la città in automobile da un uomo ricco – ci
ricostruirà un’ala di ospedale. E i viaggi – “i viaggi prolungano la vita”. La
Puglia, “il paese delle architetture”. Il Mediterraneo, “un mare che fa
paesaggio”.
Si
riedita con una prefazione di Saviano.
Corrado
Alvaro, Quasi una vita, Bompiani,
pp. 320 € 18
mercoledì 1 novembre 2023
Ovetto scherzetto di Giorgetti
Ci
aveva già provato Giorgetti a Pasqua, uomo di punta del partito che non mette
le mani in tasca agli italiani, a metterle sui vitalizi dei pensionanti. Un uovo avvelenato - che oggi, notte di Halloween, si può ricordare come ovetto scherzetto. Allora
non con l’Inps, che non aveva ancora commissariato, ma con l’ausilio del fido Ruffini,
che dirige le Entrate non per scienza ma perché viene dalle esattorie – più si
paga meglio mi sento. Sul cedolino di aprile ha caricato “debito Irpef anno
precedente”, fino a 500 euro. Poi il mese successivo, a fronte dei ricorsi, l’ha
restituito, come “credito Irpef anno precedente”. Ma non per intero, trattenendosi
un decimo: a chi aveva sottratto 493 euro ne ha restituiti 439. Furbo, vero?
Obiezioni? Col 730 l’anno prossimo – se
ne parla a novembre 2024.
Una
furbata? Si. Assurda? Sì: non doversi fidare delle Entrate e dell’Inps è uno
scenario terrificante. Ma i Fratelli d’Italia e la Lega di popolo e di governo
sono riusciti a crearlo: una voragine si apre.
Halloween per adulti
Si
riprogramma, dopo un anno, un “classico” delle disgrazie accidentali – seguito
di “Halloween Kids”, ultimo di una trilogia avviata prima del covid,
tredicesimo capitolo di una saga di Halloween, delle morti di bambini e ragazzi
per caso, opera di bambini e ragazzi. Ai quali però il film non è indirizzato,
non essendo da loro visibile.
La
trilogia si fa forte di Jamie Lee Curtis, produttrice e interprete della serie, che però si ricicla, dai ruoli brillanti a testimone e broker
delle morti accidentali – scrittrice, madre, personalità locale. Più una
descrizione del male, di disgrazie, seppure accidentali, che un accumulo di suspense.
David
Gordon Green, Halloween Ends, Sky
Cinema, streaming HD su Altadefinizione
martedì 31 ottobre 2023
Governo ladro, di pensioni
Brutta
sorpresa giovedì per i pensionati: chi poco e chi molto pagheranno in anticipo il
“ricalcolo” delle ritenute fiscali per l’anno
2023. Che non si farà sul 730, a opera e con le regole delle Entrate, ma ad arbitrio
dell’Inps.
Di
Micaela Gelera, la contabile sconosciuta appena nominata commissaria dell’Istituto
da Meloni. La beneficata ha tirato fuori per il capo del governo il coniglio salva-conti:
un prelievo fiscale anticipato sulle pensioni. I pensionati, chi poche decine chi centinaia di euro, pagheranno il loro tributo al governo che non mette
le mani in tasca. Specie quelli delle gestioni speciali, ex Indpad, ex Inarcasse, ex Inpgi.
Un
“ricalcolo” non annunciato, non spiegato, imposto. Non sull’avere – ci saranno
pure casi di saldi attivi nei confronti delle Entrate – ma sul dare. Non si applica la stessa regola alle
retribuzioni, che sono protette dai sindacati, né agli altri redditi, protetti
dai fiscalisti. Solo alle pensioni. E se non basta il cedolino di dicembre, l’anticipo
restante verrà recuperato a dicembre – “Qualora il rateo di pensione mensile non
sia sufficientemente capiente per il recupero integrale del conguaglio si
procederà al recupero del residuo debito fino al definitivo saldo”, intima Gelera.
Obiezioni?
Sì, col 730, fra un anno.
La
miracolata commissaria Inps ha esumato un Casellario Centrale dei Pensionati,
che non esiste, solo sulla carta, e se ne è servita per ricalcolare in anticipo
quanta Irpef i pensionati dovranno ipoteticamente pagare per il 2023. Con criteri
suoi, di Gelera: non sono le Entrate che determinano criteri e pesi fiscali, e
scadenze, è la fiduciaria di Meloni.
La donna forte anti-sindacati
Semplice
“attuario”, tecnico delle assicurazioni, Gelera è diventata commissaria Inps
per volere di Meloni - della sorella Arianna, pare. Che le ha anche assegnato una retribuzione di 150 mila
euro.
Gelera
è commissario, non presidente. È cioè una sola al comando, di mediocre
curriculum ma con poteri pieni, anche se l’Inps è l’istituto assicurativo più
grande d’Europa.
Il
commissariamento non è stato disposto per una situazione periclitante dei conti
Inps, ma per estromettere i sindacati dalla dirigenza. Un compito che
richiederà un commissariamento di lungo periodo. Ammesso che Gelera e Meloni
sopravvivano al prelievo forzoso sulle pensioni. Formalmente solo anticipato,
di fatto forzoso: non annunciato, e non disposto dalle Entrate, che hanno
procedure specifiche. Col pretestuoso Casellario Centrale dei Pensionati, che
non esiste – per dirla con l’italiano di Meloni.
Horror gay
Uno
sconosciuto avvicina una bambina e la incarica di dire ai genitori che “loro”
stanno arrivando. Quando arrivano, capitanati dallo sconosciuto, è il
finimondo: il gruppo ha avuto visioni, +stato comandato di raddrizare le cose,
non c’è vilenza che non si conceda.
Il
modulo horror, di una minaccia più grave della precedente, di cui pare che il
regista indiano sia specialista, seppure al modo di Hollywood. Solo che non ci
sono donne, a parte due megere dei “loro”, e la bambina – i genitori sono una
coppia gay.
M.
Night Shalamyan, Bussano alla porta,
Sky Cinema
lunedì 30 ottobre 2023
Il mondo com'è (467)
astolfo
Ignatius Sancho – È stato il primo africano a esercitare il diritto
elettorale in Gran Bretagna, nel 1776. Schiavo affrancato, negoziante di
coloniali, musicista, polemista, per l’abolizionismo, in innumerevoli lettere,
e in due drammi.
Era nato nel 1729 su una nave negriera in rotta
verso l’America. La madre morì subito dopo l’arrivo al mercato di destinazione,
nella Nuova Granata, la colonia spagnola oggi suddivisa fra Colombia, Ecuador, Panama
e Venezuela. Il padre si suicidò subito dopo. Il gentiluomo cui il bambino era
stato venduto se lo portò con sé a Londra – Ignatius, così battezzato da nome
del vescovo spagnolo, aveva due anni – e lo lasciò in affido a tre sorelle di
Greenwich. Che lo soprannominarono Sancho perché così si immaginavano il Sancho
del “Don Chisciotte”. Con loro Ignatius visse per diciotto anni. Alla maggiore
età passò nelle case di Lord Montagu (John Montagu, secondo duca di Montagu),
un gentiluomo che frequentava le tre sorelle di Greenwich, e aveva provveduto a
fargli apprendere lettura e scrittura, consigliato personalmente le letture da
fare, avendo rimarcato nel giovane africano una forte disposizione alla
letteratura.
Ignatius servì in varie case dei Montagu come
maggiordomo. Nel 1768 Thomas Gainsborough ne fece il ritratto, tra una posa e
l’altra di Lady Montagu per il suo proprio, famoso, ritratto. Ebbe anche la possibilità
di sposarsi, con una giovane africana delle Indie Occidentali – con la quale
avrà sette figli. E nello stesso 1768 scrisse una lettera presto famosa a
Lawrence Sterne, per invitarlo a unirsi al movimento abolizionista – Sterne fu
sorpreso dalla coincidenza, poiché stava scrivendo una scena a Lisbona che era
dispiaciuta al suo viaggiatore, di disprezzo verso un africano, rispose eloquentemente
a Ignatius, e rese pubblico lo scambio. Ignatius divenne così un personaggio
pubblico.
Lord Montagu lo aiutò anche ad affrancarsi, come commerciante,
con un suo proprio negozio di coloniali. Ignatius divenne presto parte prominente
del movimento abolizionista della schiavitù, con varie pubblicazioni letterarie
(saggi, drammi), e lettere a giornali – firmate talvolta “Africanus”.
Il negozio gli servi anche come salotto, che personaggi
in vista frequentavano: lo stesso Gainsborough, l’attore shakespeariano David
Garrick, il violinista torinese Felice Giardini, molto famoso a Londra, tra gli
altri. Ignatius si dilettava infatti anche di musica – autore di una “Theory of
Music” di cui però non resta traccia, e di quattro collezioni a stampa di
canzoni e danze.
In quanto “provvisto di mezzi propri”, aveva il
diritto di votare, e lo esercitò, nel 1776 e nel 1780 – l’anno in cui morì.
Divenendo per questo molto popolare, come “lo straordinario Negro”, etichettato
come il primo africano a esercitare il diritto di voto.
Newgate
Calendar – Era il bollettino inglese delle esecuzioni capitali.
Mensile, inizialmente pubblicato dal direttore della prigione londinese di New
Gate. A metà Settecento la testata fu piratata da piccoli editori che vi
pubblicavano chapbooks, brevi storie,
molto colorite, di crimini e criminali per qualche verso famosi, specie per la
crudeltà. Pubblicazioni economiche, che presto divennero le più diffuse.
Red
Letter Scare – Il panico della “lettera rossa”, si diffuse a
Londra nel 1924, alla vigilia delle elezioni parlamentari. Una lettera da Mosca
che sarebbe stata scritta e inviata da Zinov’ev, in qualità di presidente
dell’Internazionale Comunista, al Comitato Centrale del partito Comunista
britannico per incitarlo a un’attività di agitazione a fini di sovversione
politica. Una lettera pubblicata dai giornali con grande clamore quattro giorni
prima del voto, che allarmò molto il pubblico, suscitando un’ondata di
repulsione contro il laburismo, oltre che contro il partito Comunista. Un documento
fabbricato, probabilmente dal Secret Intelligence Service britannico (Sis), per
favorire il partito Conservatore al voto – che poi vinse, contro le previsioni.
Ruggero Vasari – Immaginava un secolo fa una sorta di intelligenza artificiale. Si
ricorda per essere stato, con Vinicio Paladini, l’artefice dei contatti stretti
fra la cultura italiana e quella russa nei primi decenni del Novecento. Autore
di drammi futuristi espressionisti, ebbe uno spicchio di notorietà con “L’angoscia
delle macchine”, un dramma che prefigurava l’universo totalmente meccanizzato
di molte distopie successive.
A Berlino
nel 1923 conobbe e frequentò la poetessa Ol’ga Fëdorovna Revzina, che l’anno dopo
sarà inviata da Mosca a Roma - era una spia – all’ambasciata sovietica, e sarà
da lui introdotta negli ambienti delle avanguardie artistiche , il Teatro degli
Indipendenti dei Bragaglia, i circoli, le riviste – con lo pseudonimo di “Elena Ferrari” il “colonnello”
Revzina divenne anche poetessa di nome.
“Poeta, drammaturgo e gallerista cosmopolita,
Vasari frequenta gli ambienti dell’avanguardia di Berlino e Monaco all’indomani
della Prima guerra mondiale, fungendo da vero e proprio ambasciatore del futurismo
italiano all’estero e ponendosi come ponte culturale con circoli espressionisti”
(Antonella d’Amelia, “La Russia oltreconfine”, 117-118). A Berlino, luogo di transito
dopo la rivoluzione d’Ottobre di scrittori e artisti russi (Šklovskij, la
futura Esa Triolet, Remizov, Belyi, Erenburg, Berdjaev, Bulgakov, molti esiliati
sul “piroscafo dei filosofi”), animato da molte avanguardie artistiche dopo la
sconfitta, Vasari animò nel quartiere di Charlottenburg la galleria d’arte Casa Internazionale degli Artisti, ispirata al
modello berlinese della Casa delle Arti russa, e vi espone Boccioni, Depero,
Prampolini, Pannaggi. Fondò e diresse il periodico “Der Futurismus”, per sostenere
il primato del futurismo italiano nell’innovazione teatrale e dell’architettura
scenica. Mentre per la rivista “L’impero” mandava corrispondenze approfondite sulle
avanguardie russa, tedesca e francese. Nel 1922 aveva organizzato a Berlino, a
marzo, una mostra che fece epoca, “la Grande Mostra Futurista”, al Graphische
Kabinett, una elegante galleria sul Kurfürstendamm, dove ai futuristi italiani
aveva affincato artisti di altri paesi, specialmente russi. Vera Idel’son vi aveva
esposto un quadro astratto, intitolandolo “Compenetrazioe degli io del poeta Vasari”.
Con
Vera Idel’son Vasari avviò un rapporto stretto, coinvolgendola in numerose
iniziative futuriste. Soprattutto a Capri. Dove nel 1924 organizzò al Quisisana
una rappresentazione di “teatro
sintetico” con Marinetti rimasta negli annali per i fischi. E l’anno dopo,
sempre al Quisisana, un “Superbalfuturista”, sempre con Marinetti, che invece
divertì.
È
attorno a “L’angoscia delle macchine” che raggiunse notorietà negli ambienti teatrali,
e più inteso il rapporto con Vera Idel’son. Nel 1924 “L’angoscia delle
macchine” doveva andare in scena al Dramasticher Theater di Berlino, regista
Fred Antoine Angermayer, costumi e scene di Vera Idelson, ma il teatro fece
bancarotta prima. Idel’son allora adattò scene e costumi per la VolksBühne, il
teatro del popolo, ma il progetto poi abortì (bozzetti e costumi saranno pubblicati
l’anno dopo dal periodico d’avanguardia “Der Sturm”, con un numero speciale
dedicato al dramma di Vasari). Idel’son non si diede per vinta: essendosi
spostata a Parigi nel 1926, il 27 aprile 1927 metteva in scena “L’angoscia delle
macchine” al teatro Art et Action. Con due recensioni entusiaste: una su
“L’Impero”, anonima ma molto ampia e in stile Vasari, e una, anch’essa
entusiasta, a firma Giuseppe Mazzesi, su
“La Gazzetta”, il giornale di Messina, di cui Vasari era originario. “Ampliando
il diapason tematico dei drammi di Karel Čapek (“R.U.R”, 921) e Romain Rolland
(“La Révolte des Machies”, 1921) e del film muto italiano “L’uomo meccanico”,
1921, Vasari descrive un mondo del futuro meccanizzato , in cu su una stazione
aerospaziale tre despoti, Bacal, Singhar e Tonchir, dominano un regno delle
macchine e un popolo di robot” (Antonella d’Amelia, cit.).
Oltre
che di Idel’son, si deve a Vasari anche l’avvicinamento all’arte italiana di
Niklaus Strunke, l’artista lettone che, a Berlino con una borsa di studio del
suo paese, è convinto da Vasari a studiare e operare in Italia.
Su
wikipedia Vasari vanta la bio più scarna, una riga – legarlo alla nobile famiglia
Basile-Vasari di Santa Lucia del Mela (Me).
astolfo@antiit.eu