sabato 25 novembre 2023
Problemi di base di verità - 778
spock
“Sull’abuso della memoria dell’Olocausto”
“Siamo
studiosi, in varie istituzioni, dell’Olocausto e dell’antisemitismo. Scriviamo per
esprimere il nostro sgomento e la delusione nei confronti di leader politici e
importanti figure pubbliche che evocano
la memoria dell’0locausto per spiegare la crisi in corso in Gaza e Israele”. Una
decina di storici americani, due di università canadesi, due inglesi, e una
tedesca, cattedratici di Antisemitismo, Olocausto, Storia ebraica ha
sottoscritto e pubblicato sulla rivista newyorchese, molto radicata nella cultura
ebr aica, un “richiamo alla verità storica”. Dopo la premessa: “Reiteriamo che
ognuno ha il diritto a sentirsi sicuro dovunque vive, e che far fronte a razzismo,
antisemitismo e islamofobia è una priorità”.
Il
richiamo all’Olocausto è comprensibile, spiegano i firmatari. Ma “richiamarsi alla
memoria dell’Olocausto oscura la comprensione dell’antisemitismo con cui gli
ebrei si confrontano oggi, e travisa pericolosamente le cause della violenza in
Israele-Palestina”. L’Olocausto è un’altra cosa: è “un genocidio, implicò uno
Stato – e la sua collaborativa società civile – nell’attacco di una piccola
minoranza, che poi diventò un genocidio continentale”.
La
critica è indirizzata al governo israeliano: “I leader israeliani e altri usano
il richiamo dell’Olocausto per presentare la punizione collettiva di Gaza da
parte di Israele come una battaglia di civiltà a fronte della barbarie, promuovendo
così narrative razziste sui palestinesi”.Un travisamento non innocuo: “Questa
retorica spinge a separare la crisi corrente dal contesto dentro il quale essa
è maturata. Settantacinque anni di evizione, cinquantasei di occupazione, e
sedici anni di blocco a Gaza”. Mentre “insistere che «Hamas sono i nuovi nazisti»
- e ritenere i palestinesi responsabili collettivamente per le azioni di Hamas
– attribuisce pregiudizievoli motivazioni antisemite a coloro che difendono i
diritti dei palestinesi”.
E
della situazione cosa pensano gli studiosi? “Non c’è una soluzione militare per
Israele-Palestina, e dispiegare una narrativa dell’Olocausto, nella quale un «male»
deve essere sconfitto con la forza avrà solo l’effetto di perpetuare uno stato
degli affari oppressivo che è già durato molto troppo a lungo”.
An Open Letter on the Misuse of the
Holocaust Memory,
“The New York Review of Books”, free online
venerdì 24 novembre 2023
Governo boia, cioè no - che senso ha
Si fa scandalo in prima pagina perché
al film di Cortellesi, successo stagionale, “il governo negò i fondi, «scarso
valore»”. Poi si deve informare che i fondi glieli ha negati il governo Draghi,
la commissione nominata dal ministro della Cultura Franceschini – con profluvio
di spiegazioni “tecniche” del giudizio di scarso valore. Come se avessimo l’anello
al naso - ma questo si potrà ancora dire? come se non sapessimo come vanno le
cose, i giudizi di valore, tra gli “amici” e gli “amici degli amici” trattandosi
di Franceschini.
Si fa scandalo perché il ministro
cognato Lollobrigida ha fatto fermare un treno in ritardo per poter scendere e proseguire
in macchina – il controllore solerte del treno ha informato subito dell’abuso
gli amici-compagni. E si chiedono le dimissioni di Luigi Corradi, l’ad di
Trenitalia che ha ordinato lo stop imprevisto. Per poi scoprire che Corradi è stato messo lì
da Paola De Micheli, ministro dei Trasporti Pd.
Si fa scandalo perché in
consiglio comunale a Roma non passa la tassa sui Grandi Eventi che i concessionari
di impianti comunali organizzano e gestiscono a grande profitto. Poi si scopre
che l’opposizione è dei consiglieri Pd, ed è intransigent e. La tassa è stata
decisa dall’assessore allo Sport Onorato, che è un ex Udc, nemico acerrimo del
sindaco di sinistra Marino, poi lista Marchini sindaco, appoggiato da Berlusconi,
eletto con una lista civica pro Gualtieri sindaco. Onorato non sapeva che centri
sportivi, club, ex sezioni, che tra l’altro non pagano al Comune nemmeno il canone,
molti milioni, non si toccano.
S i fa scandalo del Pnrr, arriva , non arriva, governo bocciato, Bruxelles dice no, e poi arriva la quarta rata, primo e unico paese europeo a riceverla. Eccetera.
Si fa scandalo perché la sinistra
è l’informazione: si scrive qualsiasi
cosa, non si fa nemmeno una telefonata, l’impegno è a “rilanciare”, il prima
possibile, l’informazione valanga. Dove si distinguono i giornali, perché i
giornali, stampati, durano almeno un paio d’ore. Il che accende una curiosità: se
si facesse giornalismo come bisognerebbe, un minimo, si venderebbero meno o più
giornali?
Il giudice tenace fa la mafia scornata
Tre
racconti, pubblicati da Camilleri in varie sedo, riuniti in volume: “Troppi
equivoci”, uscito nell’antologia Einaudi “Crimini”, 2005 (poi film tv, con
Beppe Fiorello e Claudia Zanella, regia di Andrea Manni);”Il giudice Surra”,
2010, uscito nell’antologia Einaudi “Giudici”. E il mistery di paese “Il medaglione”, 2005, per il Calendario del’Arma
dei Carabinieri – ripreso in volume da Mondadori lo stesso anno: qui il
marsciallo di un picolo paese di montagna sbroglia col buonsenso una serie di
equivoci, attorno a “un monile di onerosi ricordi” (Salvatore Silvano Nigro).
Racconti
sempre garbati, e filati. Col solito tocco di sicilitudine, marcata dall’eloquio,
dai caratteri, dall’orografia e dalla meteorologia, di diversità, curiosità, normalità.
Con
una nota al testo di Giancarlo De Cataldo, e un lungo risvolto-analisi di
Nigro. De Cataldo, che ha curato con Lucarelli le due antologie Einaudi, dà golosi cenni sulla gestazione dei due racconti.
E a proposito del “Giudice Surra” una stupefacente. Camilleri, avvicinato con
rispetto e ritrosia, “avvolto in una nuvola di fumo e vagamente polemico contro
il proibizionismo salutista”, è perplesso. “Poi di colpo, dopo l’ennesima
boccata”, sbotta: “Dalle mie parti c’è un’erba maligna che si chiama surra. È un’erba tenace, che
non riesci a estirpare. Ho sempre considerato la tenacia una qualità
essenziale. Perciò scriverò un racconto che si chiamerà «Il giudice Surra», dal
nome dell’erba. Sarà un racconto storico.
Si comporrà di quarantotto pagine. Te lo consegnerò il…”. Vero o falso? Surra
è un giudice tenace - disarma la mafia col ridicolo. Ma il racconto era scritto o era da scrivere? Fu consegnato
alla data detta, di 48 pagine dattiloscritte – la “pagina “ di Camilleri è
quella della “Memoria” Sellerio, 1.200 battute.
Andrea
Camilleri, Il giudice Surra e altre
indagini in Sicilia, Sellerio, pp. Pp. 183 € 14
giovedì 23 novembre 2023
Secondi pensieri - 529
zeulig
Cancel culture – Si vuole l’anticultura della decadenza, del culto del
passato, di rovine, morti. Il segno dell’Occidente impaziente col passato. Ma dappertutto
altrove invecchia e muore la natura, non la cultura, la memoria della storia.
È
l’effetto del movimento a freccia, che il bersaglio intermedio sia fallito o centrato.
L’Occidente è un arciere che va di corsa: vede e capisce poco. Mentre bisogna
portare pazienza.
Colpa – È una prigione, autoinflitta in qualche misura. Non tutto il male si fa
colpa.
È quello che si potrebbe dire “il paradosso di Norimberga”,
della colpa-non-colpa – quello che Hannah Arendt ha detto “la banalità del male”,
quando non si fa colpa. C’è chi il male commette perché obbligato, o perché è suo
dovere, e chi anzi lo ritiene un bene. È quando il male è risentito come male
che diventa colpa. Talvolta senza nemmeno aver commesso il male, all’inverso di
Norimberga, sotto nessuna forma: i “sensi di colpa” della psicologia possono emergere
anche senza nessuna colpa specifica, per una generale condizione di insoddisfazione
o debolezza – come viceversa, appunto, si incontrano criminali senza alcun
senso di colpa, anche sotto inclinazione insistita.
È il paradosso alla base del breve poema “Voci notturne”,
un dei tanti che Fiedrich Bonhoeffer, il pastore luterano antinazista che fu
carcerato a Berlino-Tegel per tre anni dal 1942, e infine giustiziato, nelle vendetta
finale di Hitler contro chi lo aveva avversato, inviava alla fidanzata: per
quanto “braccati e cacciati dagli uomini,\ privati di ogni difesa e accusati,\
noi portiamo le nostre colpe insopportabili,\ gi accusatori siamo noi”.. Non un’ammissione
di colpa naturalmente, non di colpa specifica, ma in quanto essere umano.
Volendo, tra le pieghe
e gli interstizi, anche il santo si trova in colpa. Volendolo. Altrimenti, la
colpa non c’è nel peggiore malfattore.
Corpo – “Il cristianesimo ha nella carne
il cardine della salvezza che proclama”, Antonio Spadaro, introducendo Sgarbi,
“Divine pitture”, che indaga Michelangelo “santo”, la sua Pietà, la Cappella
Sistina. Spadaro non è un teologo, ma è ben gesuita rodato, per molti decenni
direttore della “Civiltà cattolica”, coautore del papa Francesco. Mentre non è
vero il contrario, che la carne è afflitta dalla chiesa, nella malattia
relegata come giusta punizione di una qualche colpa, in buona salute compressa
nel matrimonio sacrale, e anche lì repressa?
È
bensì vero che non c’è spirito senza il corpo. E che la religione – la fede, il
culto – è della carne e non dello spirito. Nelle religioni monoteiste come nelle
pagane: la religione nasce e vive nel corpo e del corpo. Nel cristianesimo, con
la Nascita del Dio-Uono, la Passione, la Crocefissione – con l’Incarnazione e
la Resurrezione – nonché, per quello che vale, per il culto poi delle reliquie,
ossa, dita, la scheggia della Croce. Nel cristianesimo e nelle altre religioni
comunque con la “storia”, di persone e eventi. La fede è corporea – sentimentale,
dei sensi.
Decadenza – È parola
tedesca, décadence, ha cioè senso in tedesco. Quando Nietzsche la incontrò nel saggio di
Bourget su Baudelaire la disse subito migliore del tedesco Verfall, e d’allora in poi la trovò in ogni piega del poeta – e la utilizzò
in ogni piega del suo discorso.
Desiderio – È l’unica felicità possibile
– la curiosità, la ricerca? Ogni evento è riprova della celebrata pagina di
Schopenhauer: noi sentiamo il dolore ma non l’assenza di dolore, sentiamo la
cura ma non la noncuranza, la paura ma non la sicurezza. Sentiamo il desiderio,
come la fame e la sete, ma appena è soddisfatto è finito. Solo il dolore e la
privazione possiamo percepire. L’esistenza è più felice quando meno ce ne ac-corgiamo.
I poeti sono obbligati a mettere gli eroi in situazioni pericolose per poi
poterli liberare.
Faust - Il Faust di Goethe è il santo farabutto: cerca la perfezione di
delitto in delitto e perciò, per essere vittima, merita la felicità. È
all’infamia che si accompagna il candore, e alla filosofia.
Ci
voleva all’epoca un patto con Mefistofele per fare il male. Ora non più, si fa
la fila – Mefistofele asaerebbe un cravattaro di borgata.
Ignoranza - Si annunzia una voluminosa
fenomenologia dell’ignoranza – di Peter Burke, Cambridge, storico della
cultura. Un titolo, un soggetto, che mette i brividi. Come, per dire, di chi
facesse una storia della stupidità. Di quello che non dovrebbe essere. Un
po’ come la storia controfattuale. Ma qui non per ridere, col dogma della
verità.
Morte – Le anime dei morti sono presenze,
anche ingombranti. C’è molta letteratura in proposito, ma di un fantasy quanto mai reale, riscontrabile,
minuto.
Nichilismo - “Penso che non credere in
nulla sia un modo per riconoscere che esiste qualcosa di più importante che non
vediamo” – James Ellroy, scrittore.
Novecento – Un secolo di macerie: il
secolo storicamente (di cui si sa la storia) più innovativo è anche il più distruttivo.
Le “magnifiche sorti e progressive” non hanno mai avuto probabilmente, non così compresso, una serie di novità
altrettanto incalzanti e massicce, ma in senso calante e non ascendente: è il
secolo della crisi. Dichiarata, per più aspetti, cioè riconosciuta. Ma per
molti aspetti ambita, ricercata. Rileggendolo,
sembra evidente. Rivedendo i suoi autori, Proust, Musil, Thomas Mann , Svevo,
Joyce, Pasolini, Pirandello. Una epopea della disintegrazione. Avendo peraltro
dismesso l’epica, l’immaginazione della realtà. Di un realismo sofferto.
Volendosi “rivoluzionario”, cioè di sovversione radicale, palingenetica. All’insegna
della mobilitazione totale. Tutti programmi
autodistruttivi, di finale delusione quando non è distruzione. Quindi sciocchi?
Mal posti? Ingenui?
Occidente-Oriente – L’Oriente è sempre quello dell’Occidente, ha ragione Said, ancora oggi,
quarantacinque anni dopo la sua esposizione del fatto - l’Oriente è quello dell’orientalismo,
disciplina retorica. Sembra che l’Occidente, che pure ha inventato “i viaggi”,
anche non immaginari, sia stanco di andar e a vedere. Un Oriente che comincia
dalla Russia, che pure è in Europa, a portata di autostrada.
Ma anche l’Occidente è quello dell’Occidente stesso, talmente
autocritico che sta bene anche ai suoi nemici. Questa autofiction sembra pessimista – lagnosa, distruttiva – come nelle
epoche di decadenza che Santo Mazzarino aveva individuato nel lungo tramonto
romano, di Roma antica. Ma, naturalmente, imperiosa.
zeulig@antiit.eu
Novecento rivoluzionario e distruttivo
È
la voce “narrativa” che Magris compilò per la Treccani nel 1979, quarantenne ma
già autorevole. È un’analisi, di fatto, del Novecento, attraverso alcuni suoi
narratori, Thomas Mann, Musil, Woolf,
Joyce,
Svevo. Una anatomia del secolo.
La
dissoluzione dell’epica, e di ogni altro ordine, fino alla crisi del soggetto.
In realtà, in filigrana, l’autoritratto di un secolo di traumatismi. Tecnici,
politici e militari. Tali da annientare il positivismo fideistico dell’
Ottocento. Delle “magnifiche sorti e progressive”. Dell’individuo – del poco o
molto narcisismo concesso all’essere umano. Dissolto nelle “mobilitazioni
totali”, o “rivoluzionarie”, di guerre senza limiti, esterne e interne, per
durata e distruttività. In cui la narrazione si concentra sull’io, anche nelle
storicizzazioni di Musil e Thomas Mann, ma sui toni del compianto.
Con
molte assenze, inevitabili? Di Proust – e di ogni altro francese che pure
sarebbe stato in tono con l’anamnesi, Camus, Sartre. Degli americani, che tanta
parte hanno avuto nella narrativa del secolo, in America e fuori. E di Garcia
Marquez, o Borges, in aggiunta ad Amado, che esaurisce il resto del mondo.
Claudio
Magris, Narrativa, Treccani pp. 168
€ 10
mercoledì 22 novembre 2023
Meloni machista e sinistra sdentata - che senso ha
Lilli
Gruber lunedì sera dice Meloni una machista correa delle nefandezze di cui è
stata vittima Giulia Cecchettin. Martedì, avendo Meloni reagito con un
instagram sorridente, le imbastisce un processo per leso diritto di cronaca. Un
processo in absentia, con quattro
accusatori, lei stessa, Caracciolo, Giannini, e Rosi Braidotti. Col meglio
della peggiore “Repubblica”, e con una che in Olanda si fa chiamare professore,
maschio. Buffo? Sconcio?
Il
richiamo al diritto di cronaca si direbbe sconcio per un programma che non è
giornalismo, ma spettacolino preserale con attori giornalisti. Ma è buffo
perché, per quale pubblico lo spettacolino? Si direbbe per dissuadere,
subliminalmente, la (ex) sinistra dall’andare a votare quando il paese chiama - perché scomodarsi, per Gruber? O è per alimentare una sinistra ormai incoercibilmente autoreferente, e
sdentata?
Problemi di base - 777
spock
Si riducono i ghiacciai, crescono i fiumi – è il miracolo
dell’acqua?
La popolazione diminuisce, le case aumentano?
Si fa una casa per ogni famiglia, posto che non ci sono èiù
figli ma ci sono famiglie multiple?
È la crisi della famiglia o la sagra, si sposano tutti?
Si è cinici per sport, interesse, disperazione, moda?
Perché siamo curiosi invece che non?
spock@antiit.eu
I Palestinesi si volevano un ponte con l’Occidente
Un
saggio dimenticato, anche oggi che più ce ne sarebbe bisogno, di fronte alla guerra
infine scatenata dai Palestinesi contro Israele. Si dice dei Palestinesi che
sono terroristi, ma questa è una guerra. I Palestinesi erano un altro mondo arabo,
spiega Said, che guardava all’Europa, e quindi oggi si direbbe all’Occidente.
Tanto più, si può aggiungere, che sono in parte cristiani. Ma che l’Occidente
non ha considerato e non considera.
In
un certo modo, Said anticipa anche la guerra. Se l’identificazione europeizzante
è fallita, e anzi i Palestinesi sono stati frazionati, espropriati, dispersi, repressi,
hanno però maturato una forte capacità di resistenza, e una identità forte di
popolo, in patria e fuori. Ma il suo studio è più una storia dei Palestinesi,
nel quadro del mondo arabo sotto gli Ottomani, e subito dopo, nel ventennio dei
“mandati” tra le due guerre, che un’analisi del conflitto inevitabile con Israele.
In particolare, la storia dell’ambizione palestinese tra le due guerre, dopo l’implosione
dell’impero ottomano, di collegarsi, e collegare il mondo arabo, all’Europa. Di uscire dai “mandati”, dal semicolonialismo franco-britannico, come parte
referente dell’Europa nel Medio Oriente arabo.
Indirettamente
– Said non lo dice, ma il senso è questo – i Palestinesi erano l’unica
popolazione araba, e comunità patriottica se non nazionale, in un mondo arabo
tribalizzato, stabilizzata da secoli e moderna, acculturata. Siria, Iraq, Giordania, i principati della penisola arabica, e la
Libia erano (e sono tuttora) creazione statali coloniali, o post-coloniali
(mandati), paesi costituiti dal raggruppamento forzato di tribù più spesso
ostili. L’Egitto, che col nasserismo, tra il 1955 e il 1970, ha cercato un
ruolo di leadership del mondo arabo, se
ne è sempre tenuto al riparo, prima e dopo Nasser. Il Maghreb, specie Algeria e
Marocco, è arabo a metà, la vecchia identità berbera si va riaffermando.
Volendo
teorizzare, è stato, è, come se l’Occidente non volesse ponti – Said non ne fa
uno scontro con Israele, con le politiche israeliane, ma con l’Occidente. Non
volesse un rapporto piano, pacifico, con l’area araba. La “questione” che lo
studioso palestinese-americano documenta e spiega è la difficoltà, l’impossibilità,
che i Palestinesi post-ottomani hanno avuto di spiegare all’Europa che l’anticolonialismo
era una causa europea.
Edward
W. Said, La questione palestinese,
Il Saggiatore, pp. 318 € 22
martedì 21 novembre 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (544)
Giuseppe Leuzzi
Come finale del suo ultimo film, “The old Oak”, Ken Loach
si concede una processione. Spettacolare e assemblante, la processione che
tutti mescola, giovani e vecchi, ricchi e poveri, intonati e stonati, con la
banda, i gagliardetti, le luminarie, i fuochi, è l’invidia dei registi del Nord. Loach se la fa civile, ma con la banda, i gagliardetti, la folla gioiosa. Anzi la fa precedere, nell’immaginario
dello spettatore, dalla cattedrale normanna, che ha appena rappresentato ricca e imponente, sulla spenta città post-thatcheriana di Durham.
Una lezione di
compartecipazione per i vescovi del papa Francesco, che odiano le processioni,
rito superstizioso – c’è un rito non superstizioso?
Commentando con Staglianò
sul “Venerdì di Repubblica” il suo nuovo libro, “Una voce dal profondo”,
sull’Italia dei terremoti, Rumiz rileva “del Sud Italia che ha bassissima
coscienza di sé mentre è profondamente cosciente dei suoi difetti, a differenza
di noi del Nord”.
L’arcivescovo di Potenza
Ligorio, messo sotto accusa dalla famiglia Claps per un risarcimento rifiutato
sulla fine di Elisa trent’anni fa, spiega, a proposito del sito della chiesa dove
i resti della ragazza sono stati ritrovati: “Per cinque mesi, nrl 2007, parte
della Trinità (la chiesa in questione, n.d.r.)
è stata sotto sequestro. La polizia poteva entrare e fare ogni tipo di attività
investigativa”. Non vedere il delitto non è inconsueto – le mafie nascono da
qeuesta indifferenza.
Sud in testa per la Tari, la
tassa sui rifiuti urbani: 409 euro in Puglia per il nucleo familiare medio,
contro i 320 della media nazionale. Seconda la Sicilia, con 396 euro. La città
più cara è Catania, 594 euro (con un aumento di 90 euro in un solo anno). Seguita
da Napoli, 491 euro, e Brindisi, 464. A
Brescia, una città grande due volte Brindisi, si pagano 195 euro, meno
della metà. Il Sud è sempre più vittima di se stesso.
I pensionati sono più delle persone
attive al Sud: i pensionati sono quest’anno esattamente sette milioni 209 mila,
i lavoratori sei milioni 115 mila. È l’inzio della fine della questione
meridionale? L’emigrazione non è bastata.
S’invera anche il Grande
Sogno del Sud parco giochi. L’aria è buona, direbbe Profazio.
Se Napoli fosse rimasta industriale – 2
Le “truffe agli anziani”, informano le cronache, sollecitate dalla
Polizia di fronte alla recrudescenza delle aggressionei, “sono in aumento
esponenziale: al 31 agosto scorso, a
livello nazionale, gli anziani
vittime erano 21.924,
più 28,9 per cento rispetto al dato relativo al medesimo periodo del 2022,
quando erano stati 17.000”.
E sono gestite da Napoli. Nell’allarme della Polizia, specifica
Frignani sul “Corriere della sera-Roma”, “si spiega chiaramente che a Napoli esiste un «centralino» dal quale partono le telefonate-trappole alle
vittime in tutta Italia - migliaia quelle nella Capitale: chi cade nel tranello
viene subito schedato e affidato ai truffatori sul campo che partono dal
capoluogo campano su auto a noleggio. Sono le «pattuglie». Con telefonini intestati a extracomunitari sempre in
contatto con il «centralino» per avere indicazioni su dove colpire”.
Le truffe sono di vario tipo, la casistica è sconfinata.
Ultimamente sono entrate in azione giovani, gentili, false dìttoresse. Che in coppia
s’introducono benevole nelle case prese di mira e mentre una accudisce la\lo
sprovveduta\o con auscultazioni e prelievi di rito, la complice svaligia lo
svaligiabile. Ma tutto coordinato, su informazioni, pare, e a effetto sicuro: l’organizzazione
non va a canso, sa dove e come entrare e cosa cercare.
Solo a Roma le cronache registrano
una serie fantasiosa di colpi. “Truffa milionaria ai Parioli: finto postino deruba la moglie 83nne dell'ex ambasciatore a Washington S alleo. Il bottino in gioielli e monete”. “ Propongono contratti per luce e gas, poi rubano i dati dei clienti per acquisti". C’è chi si
presenta come avvocato. Chi come
maresciallo dei carabinieri, in divisa.
Sembra fantacronaca,
ma Napoli non cessa di stupire. Non punta sulla droga, un mercato già “fatto”,
diffuso, esibito, del malessere , personale, familiare, generazionale, sociale.
È l’invenzione di un mercato,
imprenditoria pura. L’organizzazione delle truffe gli anziani nell’Italia
ricca rimanda all’ipotesi: e se Napoli fosse rimasta – evoluta come – città
industriale?
L’industria della copia, prima che emigrasse in Turchia,
e poi nel Sud-Est asatico? O il lavoro à
façon dei
maestri sarti tagliatori, che creano di fatto, materialmente, tagliando e cucendo,
i modelli haute couture, in gara al ribasso, a chi si fa pagare meno? O
perché no l’avionica. E il digitale. O lo stesso abbigliamento, con marchi propri,
Kiton, Yamamay, Fracomina, le scuole di Alta
Sartoria. O la grande a varia agroindustria.
Cosa manca? I capitali, si suole dire. Che però a Napoli
non sono mancati e non mancano, né privati né pubblici. L’ideazione, la produzione,
la commercializzazione, il marketing? Sono pratiche prettamente napoletane,
saper fare e saper vendere – già a Roma la diferenza tra i (pochissimi) negozi napoletani
e tutti gli altri è nettissima: si comprerebbe di tutto. O allora? Forse manca
il bisogno, o il senso del bisogno. Allargato all’accumulazione, alla mentalità
e all’ideologia dela crescita. Si esclude naturalmente, inopportuno,
“scorretto”, il gusto della trasgressione. Della furbizia, per quanto possa
essere controproducente, afflittiva..
Un’altra origine della mafia
Patrick Brydone, il letterato
e naturalista scozzese cui si deve uno dei primi resoconti di viaggio in
Sicilia, se non il primo, dà un quadro preciso di quella che sarà la mafia, la
letteratura della mafia: il passaggio dei briganti al servizio della legge.
Ospite a Messina del principe di Villafranca, governatore della città, gli viene
spiegato che “la parte orientale dell’isola, chiamata Val Demoni”, il principe
ha liberato dai briganti che la infestavano proponendosi “il loro dichiarato patrono
e protettore”. Alcuni indossano anche la
livrea del principe, tutti sono comunque protetti.
A Brydone viene speigato che
“in certi casi questi banditi si comportano come le persone più rispettabili
dell’isola, ed hanno il concetto più alto e romantico di ciò che chiamano il
loro punto d’onore”. E “per quanto criminali possano essere nei riguardi della
società in generale, hanno sempre serbato la più incrollabile lealtà, tra di loro
come anche verso qualsiasi persona a cui abbiano dato la loro parola”.
Non è tutto. “I magistrati
sono stati psesso costretti a proteggerli e perfino a blandirli, data la fama
di cui godono di gente disperata e pronta a tutto, e così vendicativa che ucciderebbero
senza esitare chiunque li abbia in qualche modo provocati”. I magistrati, cioè “i
provveditori dell’ordine pubblico”. E “d’altra parte non si è mai sentito dire
che chi si sia messo sotto la loro protezione e abbia dimostrato di avere
fiducia in loro abbia avut a pentirsi o abbia avuto torto un capello; al
contrario, essi lo proteggerebbero contro qualsiasi soperchieria”.
Seguono vari aneddoti edificanti,
sui banditi-servitori cui il principe e altri signori, massoni di condizione
elevata come Brydone, con le commendizie, confidano i viaggiatori (lo scrittore
naturalista aveva due compagni d’avventura) per il prosieguo, sulle Madonie e
oltre. La guardie arnate, per i lunghi e accidentati percorsi a dorso di mulo,
erano per lo più briganti convinti a passare a servizio, minacciosi d’aspetto e
dai modi brutali, specie coi contadini e con ogni altro provveditore del necessario
ai viaggiatori – dei grassatori.
Questo nel 1770.
La compravendita dei paesi
Horace Rilliet, il medico svizzero
che attraversò la Calabria nel 1852 accompagnando re Ferdinando II in visita, e
la descrisse e disegnò in “Colonna mobile in Calabria” nel 1853, racconta in
dettaglio la non rara condizione di Taverna, un paese che ha scoperto con le
tele di Mattia Preti disseminate per la tante chiese: “Il viceré Alcalà, avendo
bisogno di soldi, vendette Taverna nel 1629 al principe di Satriano. Contato il
denaro, spediti i titoli, costui va a prendere possesso della città”. Che però
non ne vuole sapere, di passare dal re, dal demanio, dallo Stato, in proprietà al
principe. E Satriano “fu costretto a ritornarsene là da dove era venuto,
imprecando, ma com sempre avviene, un po’ tardi”.
Non è feudalesimo, è peggio,
Il feudatario aveva anche degli obblighi, il padrone assenteista non ne ha,
solo diritti e sanzioni. È il delitto dei Borboni del Regno, specie in
Calabria, che si vendevano e rivendevano come regione remota, rendendola sempre
più poveri e quindi più remota, a sconto delle cambiali – le più numerose e
cospicue “vendite” furono effettuate nel Cinque-Seicento, accompagnate da
titoli nobiliari altisonanti, principati, ducati, a banchieri genovesi, Spinelli,
Grimaldi, Perrone, Serra, Ravaschieri, Paravagna, e
ad arricchiti locali. Lo stesso rigetto
di Taverna aveva avuto, tra i tanti, Tropea nel 1615, quando il viceré l’aveva
venduta al principe di Scilla (poi tutti nobili a Tropea, ma questo è un altro discorso).
Lo svizzero Rilliet, naturalmente
democratico benché al servizio del re Borbone, e benché fino ad allora, a metà
narrazione-spedizione, allegro e distaccato, commenta l’aneddoto con improvvisa
severità: “Questo modo di vendere le città ai signori feudali era d’uso corrente
da parte dei viceré, che ne traevano vantaggi notevoli”. Era un mercato-ricatto
continuo: “Essi concedevano ai comuni il diritto di riscattarsi dal potere dei
loro signori per rientrare nel demanio reale. Questo riscatto si poteva fare
solo a un prezzo esorbitante”. Il prezzo non scoraggiò molti comuni. E allora
il mercato di fece ricchissimo: “La slealtà e l’avidità dei viceré si spines fino
al punto che questi stessi comuni (quelli che si erano riscattati, n.d.r.)
furono rivenduti di nuovo, all’antico signore o ad altri. Dopo due o tre
riscatti simili i comuni si trovarono terribilmente rovinati, sfruttati fino all’ultima
goccia di sangue”.
È finita? No. In dieci righe
il buon medico deve denunciare tre inganni. “Questi esempi spaventarono gli
altri comuni”, che preferirono lo status quo piuttosto che “servire da preda,
nel contempo, al vicerè e ai baroni”. Finiva così il lauto mercato? Fu
rilanciato da una, diremmo oggi, cauta liberalizzazione: “Diventando i riscatti
sempre più rari, i viceré, per non perdere i vantaggi che il sistema aveva portato
loro, rassicurarono i comuni con una legge in base alla quale, qualora un comune
che si era riscattato fosse stato di nuovo venduto, esso sarebbe stato libero
da ogni obbedienza si al viceré che al nuovo barone”. A fidarsi.
leuzzi@antiit.eu