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sabato 9 dicembre 2023

Problemi di base divini - 780

spock


“Dio è una virgola, non un punto ermo”, card. José Tolentino Mendonça, amico del papa?
 
“La Chiesa cattolica è per i santi e i peccatori, per le persone rispettabili è sufficiente la Chiesa Anglicana”, Oscar Wilde?
 
“O si pensa o si crede”, Schopenhauer?
 
“Le processioni sono un rito superstizioso”, mons. Francesco Milito, vescovo di Oppido-Palmi?
 
C’è un rito non superstizioso?
 
“L’ateismo è una categoria storica propria della destra”, Franco Cardini?
 
“La nazione nasce come concetto di sinistra, come opposta a Dio”, id?


spock@antiit.eu


Il processo è la pena

Un potente scopre la giustizia nella conformazione italiana, della giustizia come tortura, la giustizia politica. Fatta di Procure e cronisti giudiziari. Una berlina, un ludibrio, nella forma della tortura “medievale” della carne staccata a brandelli con pinze e coltelli. Una pena in qualche modo sempre capitale per l’accusasto, e i suoi congiunti e conoscenti, prima del giudizio e durante, prima della condanna – specie se l’assoluzione non si può evitare.
Avvocato di formazione, e di professione prima di diventare il Grande Banchiere che poi è stato (avvocato della diocesi di Brescia, avviato alla finanza per essere l’avvocato del vescovo),  Bazoli è stato esposto sul rostro degli accusati per nove anni, nella sua stessa Brescia, prima di essere assolto, in Tribunale e in Appello.  Quei nove anni ha vissuto, come tutti gli indagati e rinviati a  giudizio, come fosse già condannato: esposto al pubblico ludibrio. Per l’insolenza dell’accusa - le indiscrezioni, gli innuendo, le indignazioni, più o meno finte – e per le cronache che-c’inzuppano-il-pane. Se ne è lamentato dopo l’assoluzione definitiva, e quelle considerazioni propone ora a stampa.
Bazoli non è un mammoletta. È uno anzi famoso per il pelo sullo stomaco. Come banchiere, negli acquisti, cessioni, accorpamenti, liquidazioni, senza riguardi per nessuno, con cui ha creato Banca Intesa, il maggiore gruppo bancario. Come editore surrettizio della Rcs-Corriere della sera, dietro il nome di Rotelli, al tempo del ludibrio di “Mani Pulite”. Come leader occulto della sinistra cattolica o popolare, ex democristiana. Nei confronti di Prodi, per esempio. Ma più nei confronti di Fazio, il governatore della Banca d’Italia che aveva saputo traghettare le sbrindellate banche pubbliche (Iri e di Rispamio) verso il mercato: Bazoli ne decretò la perdita del posto e dell’onore per avere intralciato alcuni suoi disegni di espansione, soprattutto la conquista di Generali - Fazio fu condannato, ma a Milano, dai giudici di Bazoli.
Morale della favola e dell’indignazione? I giudici “di sinistra” (bazoliani) hanno segato Fazio, i giudici di destra ci hanno provato con Bazoli, con perdite. Bazoli comunque vince, si direbbe, alla slot della giustizia, 1-0. La “giustizia di sinistra” è più giusta di quella di destra? O chi semina vento raccoglie tempesta?
Ma essere processati a novant’anni, per non avere commesso il fatto, certo è dura.  
Giovanni Bazoli,
Il processo e la pena, La Quadra, pp. 65 € 10

venerdì 8 dicembre 2023

Il problema di Kiev con le minoranze

Non si dice ma il vero problema per l’ingresso dell’Ucraina nella Ue non é la corruzione (le leggi anti-corruzione) ma la mancata protezione delle minoranze. Contenziosi sono aperti con la Polonia, l’Ungheria, la Romania, la Bulgaria.
Creata nel 1922 come membro fondatore dell’Urss, l’Ucraina è stata privilegiata da Mosca nella delimitazione dei confini, sia alla creazione che nel dopoguerra, quando il dominio sovietico si estese all’Europa orientale. Dopo l’indipendenza, al crollo dell’impero sovietico nel 1991, si è trovata molte questioni aperte sulle minoranze da parte dei paesi vicini, soprattutto Polonia e Ungheria. Problemi che ha cominciato ad affrontare recentemente, con la presidenza Zelensky.
Zelensky si è trovato ad applicare una legge già promulgata sull’ucraino quale lingua dello Stato. Ma ha promosso nel 2020-21 una serie di adempimenti degli obblighi internazionali a protezione delle minoranze, “Sulle comunità nazionali dell’Ucraina” e “Sui popoli indigeni dell’Ucraina”. Essenzialmente sull’uso della lingua delle varie minoranze, e sulla formazione scolastica in lingua. Leggi poi non applicate per l’intervenuta guerra con la Russia.
Al censimento del 2001, non più ripetuto, un quarto abbondante della popolazione si dichiarava allogeno. Per lo più russi, il 22 per cento. Bielorussi ed ebrei erano censiti allo 0,9 per cento, le altre comunità nazionali attorno alla metà di punto: moldavi, bulgari e polacchi allo 0,5 per cento, ungheresi e rumeni allo 0,3. Il censimento non è stato ripetuto perché, molti ucraini essendo emigrati in Europa orientale (in Italia prima della guerra se ne stimavano 225 mila), la popolazione nazionale residente risultava ridotta, e le minoranze per conseguenza proporzionalmente gonfiate.
Per i russi era previsto prima dela guerra un “Regime speciale di autogoverno  locale in determinate aree di Donetsk e Lugansk”, una legge del 14 settembre 2014, approvata sulla base degli Accordi di Minsk, che avevano chiuso la crisi aperta dall’occupazione e l’annessione russa della Crimea. Una legge aggiornata sei mesi dopo, col recepimento degli accordi di Minsk II. Ma le due leggi non sono state applicate. In parallelo, l’Ucraina aveva varato leggi per “garantire la sovranità statale” sulla Crimea (nello stesso 2014) e sulla “Politica statale per garantire la sovranità dell’Ucraina sui territori temporaneamente occupati nelle regioni di Donetsk e Lugansk”
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Verdi fa Shakespeare romantico

Una sorta di manifesto di Verdi nella maturità, che, grazie al dramma creato da Schiller, può mettere assieme l’amato Shakespeare, dei caratteri forti, la violenza del potere, e il romanticismo d’obbligo – l’amore, l’amicizia, la sofferenza, la morte. Per una messinscena che lo rende tutto, questo doppio binario: lo mostra, lo amplifica, cattura lo spettatore. Il dramma fa commovente. Nelle arie, “Ella giammai m’amò”, i duetti armonici, e di più nei numerosi passaggi concitati, irruenti, travolgenti, anche in duo, o a tre, quattro e cinque voci, senza soverchiarsi l’un l’altro e senza cancellarsi, nella giusta misura, ognuno per sé irato, perplesso, commosso. Musica appassionante, di cui il maestro Chailly sembra non aver disperso un accento.
Luis Pasqual non ha imposto, ha servito una regia, monumentale e intimistica. Come, osserva giustamente, è nel cliché di Verdi, che alterna il kolossal  all’intimistico – la personalizzazione romantica ambienta nel grand opéra storico: masse statiche, solo mosse dalle luci, su fondali cupi, come solo potevano essere. Di cui propone una chiave tanto semplice quanto accattivante: l’Escurial, il palazzo-prigione di Filippo II, a metà tra il conventuale e il carcerario. In armonia con i costumi in nero – quante variazioni offre il nero - di Franca Squarciapino. Il “cast colossale” della promozione ha dato il meglio di sé – anche se Netrebko, forse perché un po' matura per fare la donzella (ma sono i librettisti che non distinguono, la fanno “madre” per don Carlo, mentre è una giovine francese promessa sposa dal padre monarca al monarca di Spagna), si spara all’ultimo atto tutto il colossale, amplissimo registro di voce – per quanto soprano a volte delicata.
Giuseppe Verdi, Don Carlo, Teatro alla Scala

giovedì 7 dicembre 2023

Siamo già stranieri

Siamo già stranieri, e non lo sappiamo. L’ultimo Dossier Statistico dell’Idos (Immigrazione Dossier Statistico, il centro studi e ricerche di Caritas, Migrantes, Unar e Chiesa valdese) spiega che nella Ue vivono (vivevano a fine 2022) 37,5 milioni di cittadini stranieri, l’8,4 per cento della popolazione complessiva. E che 24 milioni di questi erano extracomunitari. Sommandoci anche i naturalizzati, il totale dei migranti era di 55,3 milioni – su una popolazione complessiva di 450 milioni.
Su quote analoghe naviga l’Italia (di cui l’annuario 2023 celebra il cinquantesimo del primo saldo attivo dell’immigrazione sull’emigrazione: avvenne nel 1973 - e poi ci vollero 25 anni per la prima legge che regolamentasse il fenomeno). Nel 2022 i lavoratori stranieri sono stati conteggiati in 8,4 milioni. Il 10,3 per cento degli occupati, con quote più alte in alcuni settori: 15,6 nell’edilizia, 17,3 negli alberghi e ristoranti, 17,7 in agricoltura, il 62,2 nei servizi domestici.
La quota immigrata del mercato del lavoro è l’unica che cresce, mentre ristagna o diminuisce la quota nazionale. In Italia più che in altri paesi. L’Italia va, nelle proiezioni Idos, verso un deficit di lavoratori di 7,8 milioni da qui a venticinque anni, pur calcolando un incremento annuo ridotto della produzione, e gli effetti prospettabili dell’intelligenza artificiale.  

Giallo killer

Nel primo terzo non succede niente - si procede per vedere come andrà a finire. Una coppia di medici in vacanza a San Sebastian, lei ebrea tedesca anglicizzata, psichiatra, lui irlandese anatomopatologo, incontrano una coppia di medici locali, lei giovane irlandese, lui brizzolato, di Cadice. In parallelo, in breve, un giovane scalzacani mezzo barbone, che si idealizza killer di professione, avviato da un vecchio gay incontenibile, che lo ospita per i suo piaceri.  
Il secondo terzo è di violenze familiari, stupri, incesti, suicidi. Nell’Irlanda “cattolica” – ma anche i protestanti non sono meglio. Con Dublino, città esanime,  al centro di un paese diviso e corrotto. Nella terza parte, la conclusiva, la storia non si conclude. Ci sono morti, sappiamo tutto degli assassini, ma non c’è finale.
Tra Londra, Dublino e Donostia, il nome basco di San Sebastian – il titolo originale è “April in Spain”. Come Cossiga, i signori Quirke amano il paese basco come l’Irlanda – “la Spagna del Nord è come l’Irlanda del Sud. Piove sempre, è tutto verde, e sono tutti cattolici”.
Non una buona prova, se non di abilità a “fare rigaggio”. Con l’aria di un vecchio tentativo di romanzo esumato per stare sull’onda, per stare sul mercato. Dovremmo essere in anni recenti, poiché successivi ai Troubles, la guerra civile nell’Irlanda del Nord, quindi anni 1990. Ma pistole viaggiano tranquillamente in aereo sotto l’ascella o nella stiva. E San Sebastian non ha un aeroporto: ci si arriva, dopo l’aereo da Dublino o da Londra, con un lungo viaggio in treno - i viaggi (in aereo) prendono molte pagine.
John Banville, Il dubbio del killer, la Repubblica, pp.pp. 331 € 8,90

mercoledì 6 dicembre 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (545)

Giuseppe Leuzzi


Guardando la “Carta struttural-cinematica” del Cnr, delle derive tettoniche, Paolo Rumiz nota (“Una voce dal Profondo”, p. 18): “Ricordava ai fanatici dell’etno-nazionalismo che la Padania è geologicamente Africa, e che Europa è semmai l’Italia meridionale”. Che s’è sempre saputo e non vuole dire niente, se non che nei suoi milioni di anni la terra si è sempre mossa e si muove. Ma ha un senso spregiativo dopo il leghismo – una malattia infettiva del linguaggio.
 
Le città dove si vive peggio sono, secondo “Il Sole 24 Ore”, Foggia, Caltanissetta, Napoli, Siracusa e Crotone. Mah! Foggia e Caltanissetta non si sa, ma Siracusa? Anche a Napoli e Crotone si vive bene, egregiamente. Saranno classifiche come le bandiere blu, dove poi uno si ritrova il mare infetto, a vista d’occhio: ci sono cento (mille?) “criteri”, e i Comuni si adeguano – quelli furbi. 


Come Avati divenne regista
“È vero che suo padre era di origine calabrese?”, chiede Cazzullo a Pupi Avati. “Ci raccontava di discendere ad un aristocratico, Pio Avati”, la risposta: “Non era vero. Ho speso due milioni di lire per ricostituire l’albero genealogico, e in effetti ho trovato un Pio Avati: accattone e omicida”.
Ma il ricordo di un calabrese a Bologna Avati ce l’ha, a proposito del suo primo film, “un disastro, dilapidammo oltre duecento milioni del nostro mecenate, che si faceva chiamare Mister X”.  “Chi era?” “Carmine Domenico Rizzo, costruttore edile, primo contribuente dell’Emilia Romagna. Anche se era calabrese, per davvero”.
Erano gli ani 1960. Oggi Rizzo sarebbe in carcere (e Avati, coi suoi 200 milioni?), per concorso esterno in associazione mafiosa come minimo: non ci possono essere costruttori affidabili  del Sud al Nord. Dai Cavalieri di Catania a Ligresti la guerra è stata continua, indisiosa, dura. Quando si sono arresi, li hanno liberati.
 
La privacy è dei mafiosi
Una delle quotidiane polemiche politiche rivela un criterio e una condotta agghiaccianti della Pubblica Amministrazione. Cioè, non li rivela, li conferma, ci mette il timbro.
Da una di queste polemiche l’altra settimana si scopre che il capo del Dap, Dipartimento Amministrazione Peniteziaria, il giudice Giovanni Russo, ha semisegretato (“limitata divulgazione”) i contatti intercorsi in carcere al 41 bis tra i detenuti per mafia e l’anarchico Cospito. Per alleviare l’applicazione del 41 bis, o trasformarlo a termine. Contatti che un sottosegretario, che ne aveva avuto conferma a “limitata circolazione”,  avrebbe divulgato colpevolmente. E che al capo del Dap hanno dato ragione ben due giudici, in attività giurisdizionale: il sottosegretario non poteva divulgarli. Cioè, non si doveva sapere che i mafiosi al 41 bis speculavano su Cospito (i “contatti” venivano presi per alleggerire il carcere duro)?
I due giudici in cattedra, da gip e da gup, sarebbero stati mossi dall’ostilità politica verso il sottosegretario che ha divulgato i contatti. Ma la “limitata divulgazione” lo stesso è inquietante. Tanto più che il giudice Russo è della stessa area politica del sottosegretario.
Il motivo dell’inquietudine è questo: non ci sono altrettanti riguardi “regolamentari” (giuridici) a vantaggio dei cittadini non mafiosi da parte dei “tutori dell’ordine”, siano essi vigili, prefetti o giudici - si riceva una semplice multa, tutti possono vernirlo a sapere. Mentre si garantisce, per legge, la privacy dei mafiosi. E degli anarchici, naturalmente. Per una legge di cui si impone l’applicazione, contrariamente a tante altre.
 
Foglie morte in Calabria - Eranova muore con Moro
Una studentessa di Eranova all’università di Bari? Comincia male Abate la favola di un paese felice e poi infelice. Il racconto “Un paese felice”, di una Macondo del Sud, il miniborgo di Eranova tra San Ferdinando e Gioia Tauro cancellato per fare posto a un fantomatico centro siderurgio – poi sostituito dall’attuale porto di Gioia Tauro, un interporto-canale per container a grande profondità. Nessun calabrese è mai andato a Bari (eccetto lo stesso Abate, ma la sua è un’altra storia), troppo “lontano”, per strada o in ferrovia. Ma poi passa al “camillerese”, l’uso ancillare del dialetto, italianizzato, in misura saggia, che rende più della migliore descrizione : “Ci scialiamo”, “tu sei paccio”, “zappoliàto”, “manìcula”... E funziona: l’ambiente sa di raccolto, vecchio anche se recente, robusto di memoria.
In vacanza a Tropea nell’estate del 2016, spiega Abate in nota, si è imbattuto nel racconto di questa vicenda e s’è incuriosito. Da Bari, ove ha studiato all’università e si è laureato in Lettere, s’immagina ventiduenne innamorato di una collega di studi di Eranova, in riva al basso Tirreno, là dove ora c’è il porto. Ha indagato, in conversazioni a Gioia Tauro e, più, a San Ferdinando (ex) di Rosarno.  Specie con Franco Barbieri, l’ex sindaco, l’autorità in fatto di storia locale.
Da San Ferdinando, ex feudo dei marchesi Nunziante, venivano le famiglie che avevano dato vita a Eranova a fine Ottocento, prendendosi gli spazi demaniali inoccupati del contiguo comune libero di Gioia Tauro. Il racconto è dell’opposizione di questa famiglie, prima gioiosa poi disperata, alla desertificazione industriale cui li condannava il “pacchetto Colombo” del 1972 – piano di interventi industriali in Calabria (e in Basilicata), dopo la rivolta di Reggio Calabria nel 1980.
Il racconto Abate arricchisce con un medaglione simpatetico di Andreotti, ministro per il Mezzogiorno, a Gioia Tauro, alla sua maniera, precisa e gelida. E con un paio di ricordi commossi di Pasolini, uno dei destinatari delle richieste di aiuto degli eranovesi contro l’espianto - l’unico che rispose (gli altri destinatari erano il presidente Leone e il papa Paolo VI) e avrebbe presenziato alla protesta, ma prima fu ucciso. Un ricordo è di Pasolini alla libreria Laterza a Bari, incontro emozionante per il giovane Abate. L’altro è di una sparatoria in una trattoria povera di Lecce, a un cena cui Pasolini presiedeva  – una storia che gli è stata raccontata dal papas Giuseppe Faraco, “che ne è stato testimone oculare”. Il destino di Eranova si decide nel 1978, praticamente lo stesso giorno dell’assassinio di Aldo Moro.
Già il nome latineggiante introduce a un’aura classica, esistenziale. E la data di nascita, 1896 – Fine Secolo. Molto l’autore fa giustamente caso ai nomi delle famiglie fondatrici, Rombolà, Pellicanò, nomi grecizzanti, che rimandano alle colonizzazioni della Magna Grecia. E alla modalità: la decisione di affrancarsi dal marchese Nunziante di San Ferdinando, mettendosi in proprio su terreni appropriabili del comune di Gioia Tauro, un comune libero sotto i vecchi statuti, sotto i Borboni.
Alla storia del marchese invece Abate rinuncia. Forse per venire dal Marchesato di Crotone, l’area in Calabria per antonomasia a proprietà remota e abbandonata, salvo per le corvèes  e i censi, a carico di contadini sempre più immiseriti. Mentre è una storia altrettanto istruttiva. Il geneale Vito Nunziante, che Ferdinando IV, Primo delle Due Sicilie, aveva fatto marchese di Cirello (poco distante da Eranova), per i tanti servizi contro i francesi, e soprattuto con la cattura di Murat sbarcato a Pizzo, era, si direbbe oggi, un reazionario: dopo Murat diede la caccia ai “carbonari” in Calabria – oltre che ai briganti. Ma fu anche un imprenditore acuto e di successo. Mise a reddito le isole Eolie, di fronte a Eranova, con lo zolfo i bagni termali a Vulcano e l’industria della pomice a Lipari. Mise in valore le miniere di ferro in Calabria. E s’inventò l’agrumicultura nel vasto comprensorio di Rosarno.
A questo Abate accenna. Ma la storia vera è più attraente. Il neo marchese Nunziante si occupò anche delle aree malariche (non “sassose”, come è nel racconto) in agro di Gioia Tauro. Che chiese al re di bonificare. Il re riconobbe la richiesta legittima, ma rispose che il governo non aveva i fondi necessari. Nunziante insistette, e si arrivò nel… al compromesso cui la narazione accenna, ma con più particolari corposi. Il re Borbone dava in perpetuità a Nunziante la proprietà di tre quarti dei terreni bonificati, a condizione che la bonifica fosse realizzata in cinque anni. Nunziante s’impegnò, e per realizzare l’impegno attirando lavoratori volontari (vanghieri e coltivatori, “massari”), così come aveva già fatto a Vulcano,  costruì l’abitato di San Ferdinando – così chiamato in omaggio al re (la Calabria pullula di Ferdinandea e Ferrandina). Nel mentre che incaricava il botanico Gugliemo Gasparrini di scegliere le colture da impiantare – nacque così la coltura degli agrumi, che prosperano in zona umida, e degli ulivi.
Gasparrini, giovane liberale, attivo nei moti e del 1821 e del 1848, farà carriera accademica sotto la protezione del conte d’Aquila, il fratello di Ferdinando II: sarà rettore di Pavia negli anni a cavaliere dell’unità, tra il 1869 e il 1861, proposto e promosso dal conte, prima di dirigere l’Orto Botanico di Napoli a unità conclusa. Vito Nunziante prese la malaria a San Ferdinando nel 1832, e dopo un’agonia di quattro anni morì – dopo aver fatto testamento a Napoli, nominando esecutore il generale Florestano Pepe, difensore della Repubblica Partenopea del 1799, fratello di Gugliemo. Morì a Torre Annunziata, ma si volle sepolto a San Ferdinando. Suo figlio Ferdinando s’illustrerà nella repressione dei moti in Calabria Ulteriore, 1847-1848. Il figlio secondogenito Alessandro, anche lui avviato alle armi, ebbe la fducia dei successori di Ferndianndo I, ma in Sicilia nel 1860 proporrà di passare con l’esercito sabaudo. Nei mesi precedenti Teano sarà a Teano l’uomo di Cavour, incaricato di prevenire tentativi di autonomia di Garibaldi. Si definirà sempre cavouriano, ma sarà parlamentare dal 1870 con la Sinistra storica – dal 1880 sarà senatore del re.
 
La favola Abate racconta in chiave di transizione, ecologica, verde. E anzi edenica: Eranova è un giardino fatato, ricco di frutti, profumato di odori. In piccolo lo era, per i bagnanti del mese di agosto, nei suoi due luoghi prospicienti il mare, due bagni – gli eranovesi erano terragni, non marinari: un fondo granulare dava all’acqua trasparenza, dava frescura già solo allo sguardo, con lo Stromboli all’orizzonte. Ma a petto di una realtà per nulla edenica.
Non c’è nella storia, nemmeno una volta, nemmeno per caso, Rosarno - San Ferdinando sì, molto, ma era allora, fino al 1977, “di Rosarno”. Nome che evoca la cronaca. E una realtà impoverita. Rosarno era il centro dell’agrumicoltura in Calabria, gareggiava con la Sicilia, e di una società articolata (si governava a sinistra), prima di diventare un paese senz’anima.
San Ferdinando si è rifatto, con gli indennizzi degli espropri. È una cittadina pulita, di case armonizzate (finite), con un fronte  mare dignitoso e anzi attraente. Ma l’economia è a redditività prossima allo zero: la tengono in vita gli africani della baraccopoli , e non con grande profitto, per nessuno. Era problematica già cinquant’anni fa: l’agrumicoltura, che ne era stata a lungo la ricchezza, non rendeva più, il trapasso a nuove specie (spesso a una nuova coltura, quella del kiwi), ha richiesto investimenti onerosi, con poco e ritardato profitto, e molti terreni si incontrano spiantati – abbandonati. È vero invece che le case costruite a risarcimento, il rione Mazzagatti a Gioia Tauro e Praia, sono state “costruite con ferro scadente, poco cemento, e molta sabbia di mare”. Lo Stato è provvido e improvvido. 
Il progetto di fare di una zona agricola fertile una zona industriale, costruendovi un grande impianto siderurgico, oppure una megacentrale a carbone (chissà perché a carbone), oppure infine un megaporto a pescaggio profondo è narrativamente produttivo. Un’assurdità. Tanto più se si va a guardare, anche senza l’occhio pasoliniano irridente vero il “moderno”, alla funzione del porto. Che non ce l’aveva al momento della progettazione e dello scavo. Gli fu trovata trent’anni fa dall’armatore ligure Ravano, il primo che si era specializzato nel trasporto container. Un grande interporto per container, un centro di scarico e carico di container di provenienza o destinazione Asia, il grande mercato allora emergente, presto diventata la grande fabbrica del mondo  – un traffico da grandi portacontainer a portacontainer più ridotti, per le destinazioni finali. Dietro il porto, dove un tempo c’era il paradiso di Abate, un deserto di alcuni kmq., la “zona industriale”. Per la quale si fanno periodicamente progetti di collegamento con l’autostrada, lì accanto, e con la  ferrovia, ogni paio d’anni, da acuni decenni.
Ma qual era l’alternativa? Quella che c’è oggi, a Rosarno e in agro di San Ferdianndo. Di agrumeti intristiti, spogli, secchi. Il porto qualche migliaio di stipendi li genera, dentro e fuori. Non una gioia – ma ha già un certo carattere, anche guardato dalle balze dell’Aspromonte.

leuzzi@antiit.eu


L’Intelligenza Artificiale migliora il bene comune

Un numero speciale della rivista dedicato alle applicazioni dell’intelligenza artificiale ai processi produttivi e al mondo della finanza.  “Uno strumento di non difficile gestione per il bene comune” è il filo conduttore. Con analisi della macroeconomia conseguente, delle possibili regolamentazioni, delle applicazioni politiche, specie nel miglioramento dei meccanismi democratici, e di quelle pratiche, nella finanza, la medicina, l’agricoltura, la sicurezza nazionale, la tecnologia.
Imf, Artifical Intelligence: What AI means for economics, 
“Imf Finance&Development”, dicembre, free online

martedì 5 dicembre 2023

Il mondo com'è (468)

astolfo


Caterina Gabrieli
- La soprano per eccellenza del Settecento, e quella che più ha contribuito alla figura della primadonna bisbetica. Già celebrata da Metastasio, veniva incoronata regina della scena dal concertista inglese Charles Burney, “Viaggio musicale in Italia 1770”, pubblicato nel 1771, e dal viaggiatore scozzese Patrick Brydone. “Viaggio in Sicilia e a Malta – 1770”, pubblicato nel 1773. Brydone la celebra entusiasta: “Senza dubbio la migliore del mondo”, avendola specialmente ammirata in una scena in cui il tenore, Pacherotti, per la vergogna di avere sfigurato al confronto di lei, scappa in lacrime dietro le quite. “Il talento della Gabrieli è universalmente conosciuto e ammirato…”, continua: “Le sue meravigliose esecuzioni e la sua agile voce suscitano l’ammirazione di tutta Italia, costringendo gli italiani perfino a inventarsi parole nuove per esprimerla”. Se non che è capricciosa. “Comunque, con tutti i suoi difetti,è certo l sirena più pericolosa dei tempi moderni, e ha fatto più conquiste (almeno credo) di qualsiasi altra donna vivente. È anche molto generosa. E molto ricca, grazie alla munificenza (pare) dell’ultimo imperatore, il quale si compiaceva di averla a Vienna”. Anche se è stata bandita pure da Vienna, “per gli imbrogli e i litigi” da lei provocati. Ma più dai suoi intrighi che dalla bellezza. Anche se si presenta con molte doti. “Sebbene abbia  da tempo varcato la trentina (nel 1770 aveva quarant’anni, n.d.r.), sulla scena dimostra a malapena diciott’anni”. E “ha una padronanza di mezzi che non ha limiti”. Inoltre, “la sua bravura come attrice è quasi pari a quella di cantante: non ho trovato ancora nessuna che sapesse commuovermi come lei, a volte con poche parole di un recitativo e un accompagnamento in la. Quasi quasi comincio a credere a quanto dice Rousseau di questo genere di musica, da noi disprezzato. La Gabrieli deve molto della sua arte alla guida di Metastasio, specialmente per la recitazione; da autore egli ammette egli ammette che la Gabrieli interpreta i suoi melodrammi meglio di ogni altra attrice”. Ma ha un caratteraccio: “I capricci di questa donna sono così tenaci e caparbi che niente può imbrigliarli, né lusinghe, né minacce, né punizioni”. Un lungo racconto è quello di un pranzo e una rappresentazione per ospiti importanti che il vicerè di Palermo  aveva organizzato contando su di lei: fece aspettare gli ospiti a tavola, facendosi trovare a casa “a letto che leggeva”, scusandosi che “si era completamene dimenticata dell’impegno” – e poi a teatro cantando sottovoce, per l’irritazione del viceré e dei suoi ospiti. Il vicerè la fece per questo imprigionare, e lei, in carcere per dodici giorni, “dette dei magnifici concerti ogni giorno, pagò i debiti di tutti i prigionieri poveri e distribuì larghe somme in beneficenza” - “il vicerè fu costretto ad abbandonare la lotta, e la rimise in libertà tra le acclamazioni dei poverelli”.
 
Martha Marcovaldi
– Fu la moglie di Robert Musil. Di cui si vuole oggi, nell’ambito degli studi di genere, che sia stata anche la collaboratrice, in qualche misura la coautrice.
Musil fu il suo terzo marito, col quale convisse fino alla morte di lui, nel 1942, con lui spostandosi su e giù per la Germania, l’Austria e infine la Svizzera. Da ultimo a protezione sua, di lei, che essendo ebrea, benché da documenti procuratile dal marito risultasse cristiana luterana, dovette evitare l’Austria di Musil e la sua Germania, ed ebbe residenza difficile, molto controllata, in Svizzera, a Zurigo prima e poi a Ginevra. Morirà nel 1949, a Roma, a 75 anni, in casa del figlio Gaetano Marcovaldi, un professore liceale (al Visconti) di italiano, specialista di Dante, in via Settembrini , n. 13 – figlio avuto col secondo marito, di cui da divorziata aveva conservato il cognome (a via Settembrini il secondo marito era morto nel 1944). Da Ginevra, finita la guerra, si era dapprima spostata negli Stati Uniti, in casa dell’altra figlia avuta con Marcovaldi, Annina Marcovaldi Rosenthal.
Nata Heiman o Heimann a Berlino, da genitori ebrei, a gennaio del 1874, Martha aveva perso il padre a soli due mesi, un banchiere, già spedizioniere a Amburgo, suicida per difficoltà economiche. A diciannove anni aveva perduto anche la madre. Aveva vissuto con la madre in Italia, per prendere lezioni di pittura – a Torino sarebbe stata ritratta da Giacomo Balla, che anche lui viveva con la madre. Aveva sposato un cugino, che però era morto di tifo a Firenze nel viaggio di nozze. E in seconde nozze, a Berlino, il commerciante romano Enrico Marcovaldi, col quale ebbe due figli. Sposò Musil una volta completate le procedure di divorzio da Marcovaldi, il 14 aprile 1911, a 37 anni, a Berlino, e vissero insieme per tutta la vita di lui, trentun’anni. Una vita inquieta, più raminga che stabilizzata, tra Berlino, Vienna, Zurigo, Ginevra. Senza figli. Con qualche gelosia. Di lui per il precedente marito di lei, di lei per Ida Roland, l’attrice viennese, anch’essa ebrea, sposa di Coudenhove-Kalergi, l’europeista che fonderà l’Unione Paneuropea. E con qualche tentativo – o solo minaccia - di suicidio. Al matrimonio si erano iscritti, come punto d’incontro tra la condizione ebraica di lei e quella cattolica di lui, nei registri del protestantesimo luterano.
Aveva incontrato Musil quattro anni prima, nel 1907 – alcune fonti dicono nel 1905. La storia vuole che Musil l’abbia vista al prima volta alla stazione di Rövershagen, presso Rostock, mentre lei stava cambiando treno, diretta a Graal-Mürizt, sul Baltico, con i due figli Marcovaldi per la villeggiatura, e ne sia stato colpito come dal fulmine. Tanto da saltare sullo stesso treno per seguirla (uno schema però ricorrente nella narrativa tedesca, anche nel lungo racconto di Corrado Alvaro intitolato “Solitudine”), e prendere alloggio nello steso albergo di lei, il Waldhotel – che di quel soggiorno tiene la memoria. Nel 1907 moriva Hermine Dietz, con la quale Musil aveva avuto una relazione lunga cinque anni, e che l’anno prima aveva abortito a causa della sifilide – di cui soffriva lo scrittore, che l’aveva contratta poco prima della loro relazione (di Herma Dietz Musil farà il ritratto nella novella “Tonka”).
Non bella, reduce da due matrimoni, di sette anni (meno due mesi) maggiore di Musil, ma evidentemente di grande fascino, Martha si presume il modello di personaggi femminili importanti di Musil: Agathe de “L’uomo senza qualità”, e\o Clarisse, la “nietzscheana” (che però potrebbe avere avuto a modello Alice Charlemont, moglie dell’amico di gioventù di Musil, il musicista Gustav Donath), e Claudine di “Il compimento dell’amore” .
Una biografia letteraria di Martha, pubblicata nel 2006 da una studiosa dell’università della Sarre, presidente da una vita della Société Internationale Robert Musil, Marie-Luise Erben, “Un destin de femme - Martha Musil: l’amante, l’épouse, la soeur”, ne fa l’ispiratrice o il modello dei personaggi più rilevanti dell’“Uomo senza qualità”. Basandosi sulla corrispondenza di Martha col saggista svizzero Armin Kesser giunge alla conclusione che “la simbiosi tra Martha e il. suo sposo è evidente”. E  che “lei nutrisce i personaggi femminili più ricchi e più complessi”, soprattutto Agathe, la sorella. È lei che “gli permette di raccontare nell’«Uomo senza qualità» esperienze di vita su temi molto concreti: la gelosia, il desiderio e le numerose forme d’amore, dal più carnale al più «mistico»”.  
Recentemente Regina Schaunig, specialista di Musil al Robert Musil Institut dell’università di Klagenfurt, ne fa una sorta di co-autrice, più che di intermediaria, dell’opus magnum, cui Musil lavorò per tutti gli anni della vita insieme - “Das Murmeln der Dichterfrau: Martha Musil als Co-Autorin”, il mormorio della moglie del poeta.
Un recupero è in corso anche dell’attività di Martha Marcovaldi come disegnatrice e pittrice. Non se ne conoscono molti lavori. Musil non ne aveva grande opinione. Ma plaquettes di schizzi e piccole esposizioni si succedono. Nello studio “«Lui» e «Lei»” Musil caratterizza la moglie così: “Non so se dovrei dire di mia moglie che è una pittrice, non ha toccato il pennello per anni”. Ricorda che “un disegno che ha fatto di me è diventato molto noto, un nudo di una giovane donna, esposto a Vienna, è stato molto notato. Ha esposto a Berlino, Monaco, Vienna e Roma: nel passato!”. Quindi descrive il suo modo di dipingere. E si dilunga sulla sua grande conoscenza delle letterature, “molto di più di quanto io sappia”. Con un gusto sicuro: “Non solo ha un senso ferreamente strutturato di quanto è buono, ma anche di quanto è inadeguato, che è molto più raro”. È su questo tipo di considerazione che si lavora, ch un po’ Musil era lei.
 
Nabka
– La Nabka che Avi Dichter prospetta come esito finale per i palestinesi di Gaza, l’ex capo dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, ora ministro dell’Agricoltura e lo Sviluppo Rurale, e per quelli della Cisgiordania, allude all’esodo forzato, o espulsione, dei Palestinesi al termine della guerra civile 1947-1848 che vide la creazione dello stato di Israele. Una “catastrofe”, questo il senso letterale del termine, che viene commemorata fra i palestinesi e nel mondo arabo il 15 maggio, in ricordo del 15 maggio 1948, quanto 750 mila palestinesi, secondo il calcolo mediamente più accettato, ora anche dagli storici di Israele (Benny Morris, Elie Barnavi tra gli altri), furono espulsi dalle terre su cui avevano vissuto – la cifra si è precisata negli anni 1990, quando sono stati aperti agli storici gli archivi di trent’anni prima.

L’opinione israeliana è stata a lungo divisa sulla Nabka: i moderati e le sinistre la negavano, le destre la rivendicavano. Il governo, anche di destra, l’ha sempre negata. Ma dopo il 7 ottobre la rivendica e la invoca, l’espulsione, che ha intensificato in Cisgiordania, prospettando come una “necessità storica”, le attività di colonizzazione sostenendo con l’esercito e la polizia. Nel bilancio straordinario di guerra varato il 27 novembre il governo ha allocato l’equivalente di 121 milioni di euro, su un totale di un miliardo, per la colonizzazione della Cisgiordania – in aggiunta ai 60 milioni già previsti d al bilancio ordinario 2023-2024.  
Col tempo, più che con l’espulsione in massa del 15 maggio, la Nabka si è identificata con la diaspora forzata dei palestinesi. Cominciata prima di quella data, a partire da fine 1947, quando le famiglie abbienti di Gerusalemme avevano cominciato a cercare rifugio in Libano e in Giordania, e proseguita, sempre prima del 15 maggio, da professionisti e coltivatori. Analogamente, dopo il 15 maggio molti palestinesi si sono costretti all’esproprio e\o alla migrazione forzata, per effetto delle leggi del nuovo Stato e, dopo la Guerra dei Sei Giorni, 1967, per l’occupazione israeliana della Cisgiordania, della politica israeliana di “colonizzazione” – di colonizzazione nel senso del colonialismo, di acquisizione forzosa di beni e terreni già di proprietà e uso altrui, degli “indigeni”.

A oggi gli “esodati” palestinesi sono conteggiati dall’Onu (Unrwa) in circa 5,5 milioni. In larga parte senza beni di fortuna e senza alloggio (assistiti in campi profughi). Discendenti della Nabka del 948 o vittime della politica israeliana di colonizzazione su base etnica.  
 
Niccoloso da Recco
– Il primo navigatore oceanico, o uno dei primi. Quando Boccaccio tornava da Napoli a Firenze, nel 1340, lasciando le belle donne per la letteratura col Petrarca, e la spensieratezza per il commercio in crisi, Niccoloso si spingeva fino alle Canarie, con equipaggio genovese, fiorentino e spagnolo, per conto del re del Portogallo Alfonso IV. Al ritorno, dopo cinque mesi, Boccaccio avidò lo interrogò, celebrandone la riscoperta con un trattatello (“De Canaria et insulis reliquis ultra Hispaniam in Oceano noviter repertis”) in cui riferisce dei guanche, i berberi delle isole – la scoperta, più che delle isole, già note, era stata di una “nuova popolazione”. Niccoloso aveva viaggiato insieme col fiorentino Angiolino del Tegghia de’ Corbizzi.


astolfo@antiit.eu

Biden per l'espulsione dei palestinesi

“Non corriamo alla catastrofe” è il titolo, un invito. Ma doom è anche destino, e anche condanna.
Il titolo è una presa di posizione. Netta, contro il “colonialismo” israeliano nei confronti dei palestinesi. Anziska, specialista di studi ebraico-israeliani all’University College di Londra (London University), è noto per due ricerche. Una sulla diplomazia israelo-americana intesa a prevenire la costituzione di uno Stato Palestinese, “Preventive Palestine: A Political History from Camp David to Oslo”. E una sull’invasione israeliana del Libano (basata sui documenti desecretati nel 2012, a trent’anni dai fatti), che documenta l’asse Israele-Falange libanese (milizie cristiane) nell’invasione del Libano del 1982, e nel massacro di Sabra e Chatila (pubblicata sul sito della rivista il 17 settembre 2017).
Sotto forma di intervista, lo storico spiega la critica del sionismo, inteso come colonizzazione e creazione di uno Stato etnico, dall’interno della tradizione ebraica, di studi ebraici. L’intervista riprende anche lo studio che ha reso Anziska noto, la sottile distinzione tra “autonomia” palestinese e “sovranità”, che ha portato agli accordi di pace-imbuto di Oslo. E si conclude con la disamina della risposta dell’amministrazione Biden “all’assalto su Gaza” – non sul 7 ottobre.
Di quest’ultimo aspetto Anziska,  ritenuto un’autorità per lo studio delle “ambiguità” delle amministrazioni americane che da Camp David (1974) portarono a “Oslo”, all’accordo firmato a Washington nel 1993, su iniziativa e in buona misura a opera americana, dà una disamina inedita. “Nessun altro presidente americano ha attivamente permesso e materialmente appoggiato la pulizia etnica israeliana in scala così massiccia. Qualcuno ha sostenuto che il calcolo di Biden, dopo i brutali massacri di Hamas il 7 ottobre, era di dare a Israele un forte abbraccio (bear hug), di mostrare ai leader di Israele che non c’è alcuna fissura tra il loro paese e gli Stati Uniti, guadagnandosi quindi lo spazio per governare modi e misure della punizione del governo Netanyahu. Ma gli atti dell’amministrazione Biden, e le sue proprie parole, compreso l’imperdonabile dubbio retorico sul numero delle morti palestinesi a Gaza, rendono quell’assunto difficile da sostenere. Biden ha autorizzato il più alto tasso di vittime nella storia del conflitto, giacché il nord della striscia di Gaza diventa inabitabile e infetto, e non ha fatto nulla per contener e le espulsioni forzate e gli assassinii nella Cisgiordania”.
A giudizio dello storico, Biden ha per questo “minato i valori e l’influenza” americana nel mondo.  Ma ha altri elementi di fatto per basare questa asserzione: “In questi ultimi due mesi ci sono state plurime indiscrezioni sui trasferimenti senza precedenti dell’amministrazione Biden di armi letali a Israele senza un vero controllo – che hanno portato alle dimissioni del dirigente del Dipartimento di Stato  Josh Paul – e anche le prime rivelazioni che la Casa Banca ha sostenuto il trasferimento dei civili fuori di Gaza”.
È forse per interventi come questo che il dipartimento di Stato oggi annuncia il blocco dei visti per i “coloni estremisti” israeliani in Cisgiordania. 
Seth Anziska, Let Us not Hurry to Our Doom, “The New York Review”

lunedì 4 dicembre 2023

Problemi di base di mercato - 779

spock

Il libero mercato libera i tori (i ricchi)?

 

E le pecore?

 

C’è un mercato per tutto ma non per tutti?

 

“Specialisti senza intelligenza, edonisti (consumatori) senza cuore”, Reckwitz-Rosa?

 

O non specialisti senza cuore, consumatori senza intelligenza?


Il mercato ha le sue ragioni che la ragione non conosce.?

spock@antii.eu

Il buon odore dell’Italia, in America

anti.it aveva recensito le corrispondenze di  Simenon dal Nord America in occasione dela riedizione in francese:
L’odore dell’America è italiano. Simenon lo scopre per ultimo, nel 1958, nel commovente breve testo che chiude la raccolta: gli odori dell’orto, gli odori della cucina, le arance, i carciofi e la vite, nell’“enorme Babilonia” parlano ancora italiano.
“L’odore dell’America” è l’ultimo di una serie di articoli sulla scoperta dell’America che Simenon fece a partire dal 1946, quando lasciò sdegnato Parigi per il Nord America, il Canada dapprima e poi gli Stati Uniti – troppe invidie: era stato denunciato in guerra, nel 1942, come ebreo, e nel 1944 come collaborazionista, per questo perfino processato, a nessun effetto.
“Un uomo senza incubi”, tale Simenon scopre l’americano nel 1946. E tale si vorrà egli stesso d’ora in poi, “libero” mentalmente e liberale. Liberato al punto da rompere con Gallimard, il grande editore, al quale imputerà senza riserve né remore di averlo pubblicato e venduto come scrittore di second’ordine. È qui che nasce il secondo Simenon.
La corrispondenze per “France Soir”, che fanno buona parte della raccolta, del 1946, sono gustose “cose viste” in un lungo viaggio in macchina dal Canada alla Florida, col figlio Marco, la moglie Tigy, e la segretaria bilingue Denyse Ouimet – un triangolo che presto si dissolverà, col divorzio da Tigy e il matrimonio con Denyse. Tutte osservazioni peraltro notevoli, è una scoperta dell’America che ancora dura. Per esempio nella comparazione fra l’istruzione negli Usa e in Francia-Europa: “Qui il bambino è re, il giovane è re”.
Georges Simenon, L’America in automobile, Adelphi, pp. 185, ill. €16

domenica 3 dicembre 2023

La guerra del petrolio di Kissinger

Un punto non è stato ricordato nei necrologi diffusi di Kissinger, che però è stato cruciale per l’Europa e nell’area del Mediterraneo – di marginalizzazione dell’Europa e di crescita strabiliante del mondo arabo-islamico: l’esplosione dei prezzi del petrolio, a un mese dalla sua nomina a segretario di Stato. In una con la guerra del Kippur scatenata dall’Egitto di Sadat.
I corsi del petrolio da un anno e mezzo erano lamentati dalle compagnie petrolifere. I costi di produzione erano sempre bassi, ma la redditività e la capitalizzazione delle compagnie erano deboli. E non permettevano di finanziare la ricerca mineraria negli Stati Uniti.
Con gli idrocarburi a basso costo infimi (al petrolio si accompagna il pezzo del gas) si era finanziata l’economia europea. La dipendenza si rivelerà un cappio dopo la crisi dell’ottobre 1973, prosciugando le riserve monetarie di molti paesi europei, tra cui l’Italia (nel 1975, ridotte le riserve in Banca d’Italia a quasi zero, si dovette ricorrere a un prestito dalla Germania). L’effetto fu neutro per l’economia americana, sostanzialmente autosufficiente per le fonti di energia: il gallone di benzina aumentò, ma non di molto, mentre l’industria petrolifera, per tre quinti americana, si ricapitalizzò vistosamente.
Nel 1972 e nel 1973, alle assise periodiche dei paesi produttori di petrolio un diplomatico americano di nome James Akins, “collaboratore del consigliere nazionale per la sicurezza Henry Kissinger”, ne era diventato la vedette, applaudito, tra risate e manate. Interveniva sempre, e spiegava che il petrolio era sottovalutato, e che non c’erano mercati alternativi di fonti di energia al petrolio.
A fine 1973 il neo segretario di Stato Kissinger nominava il 1974 “l’anno dell’Europa”.

Ombre - 696

È quasi commovente, per chi ha avuto esperienza della “bistecca sintetica” Bp-Liquigas a Saline Joniche cinquant’anni fa, con un  danno erariale di alcuni miliardi (70 dipendenti in cassa integrazione per quarant’anni), l’impegno mediatico a seguire amorevolmente la “carne coltivata”, prima da Mattarella e ora a Bruxelles, dopo il non passerà” di Coldiretti e Lollobrigida, il ministro. È una lobby così potente – quella della bistecca sintetica?
 
Richiesta di dimissioni per Crosetto che critica la giustizia politica. Poi di semplice censura parlamentare. Poi di semplice dibattito. Al quale non si presenta nessuno.
 
Crosetto aveva pure detto: “È l’opposizione  giudiziaria l’unico pericolo per il governo”. E due giorni dopo la giudice romana Maddalena Cipriani gli aveva dato ragione, condannando un sottosegretario che nessuno accusava - la Procura che lo aveva indagato non lo incolpava. Cipriani, gup, come già la giudice gip, Emanuela Attura, che l’aveva preceduta a giugno. Se non è politica, che giustizia è: femminista, anti-maschilista (il sottosegretario è maschio)?
 
Il giudice italiano decide sugli atti? No, decide secondo partito. La giustizia politica, vissuta a  Beirut (sotto dominazione siriana) e a Teheran, è da voltastomaco - un tempo si sarebbe detto da Terzo mondo. Ora, non si può dire di due gentildonne, Attura e Cirpiani, che sono da voltastomaco. E poi sono reduci. Ma di Stalin?
 
La sconfitta di Roma per l’Expo 2030 sanziona una candidatura senza senso. Ma è, nel punteggio, e contro una città fino a ieri inesistente (negli anni 1970 non aveva un albergo), umiliante. Le cronache romane, del “Messaggero”, “la Repubblica”, “Corriere della sera” invece fanno finta di nulla. Per signorilità? Certo, molti milioni sono stati spesi, per viaggi, inviti, presentazioni, consulenze, progettazioni, testimonial, video, progettazioni - per raccogliere i voti di San Marino, Andorra e pochi altri. Ma  questo a Roma è normale.
 
La Turchia dunque esporta materiali bellici, che farebbero parte delle sanzioni contro la Russia, a paesi vicini alla Russia. E importa dalla Russia direttamente prodotti sensibili, che sono materia di sanzioni, in aumento quest’anno del 60 per cento rispetto al 2022. La Turchia fa parte della Nato, ma non po' inimicarsi la Russia, da sempre – da quando, più di un secolo fa, sono finite le guerre contro l’impero russo.
 
Unicredit esce  dalla lista delle banche sistemiche, cioè contagiose in caso di crisi, finora 29, stilata dalla Bri, la banca dei regolamenti internazionali, e dal Financial Stability Board, e perde in Borsa. Unicredit esce dal rischio “sistemico” per avere aumentato le riserve e ripulito il portafoglio. Si direbbe un titolo di merito. In ogni caso, uscire dalle banche “sistemiche” non è un vantaggio? Il mercato ha le sue ragioni che la ragione non conosce.
 
Si sorride a sinistra della provocazione democristiana in Germania, di dichiarare decaduto il governo che non sa reagire alla crisi, e andare a elezioni anticipate, in una con le Europee. In Germania vige il “voto di sfiducia costruttiva” (konstruktives Misstrauenvotum), si fa valere. Dagli stessi che in Italia deridono il tentativo di introdurre l’analogo.
 
Si fanno le cronache distinguendo un fronte Gaza Nord e uno Gaza Sud. Di una striscia che è lunga 40 km., quattro tre ore a piedi, e larga al massimo 12 km,, ma per gran parte 9. Troppa fatica leggere almeno la carta geografica - non si pretende che qualche inviato ci sia mai stato?
 
I termini della tregua, “per ogni israeliano saranno liberati tre palestinesi”, sono un’aritmetica bellica (non se ne possono conoscere le ragioni), ma suonano sinistri. C’è una bilancia? Di che tipo?
 
I palestinesi liberati durate la tregua sono stati adolescenti – ragazzi e ragazze – e donne. Anche di questo non si parla, per quanto curioso: ci sono tanti ragazzi prigionieri nelle carceri israeliane, e tante donne?
 
Non c’è tg in cui, per la par condicio scalfariana (di Scalfaro, non di Scalfari), non ci si una dichiarazione dell’ex presidente del consiglio Conte, il capo dei 5 Stelle. Il quale invariabilmente dice, sempre con lo stesso tono, del budget 2024 del governo Meloni: “Una manovra che aumenta le tasse di due miliardi”. Così poco? Detto da uno che ha regalato in bonus centinaia di miliardi. A debito, e che ora tocca pagare.
La storia del grillismo, o il laurismo al potere, sarà esilarante – se ci sarà ancora qualcuno per leggerla.  
 
Incuriosisce in America la campagna pre-elettorale del presidente Biden, che perde consensi, pur facendo valere l’incremento dell’attività e dell’occupazione e il blocco dell’inflazione. La ragione sarebbe che, se l’inflazione è crollata statisticamente, i prezzi sono aumentati, e anche molto. Avviene lo stesso con le statistiche europee – da record quelle  Eurostat vent’anni fa, quando i prezzi in euro raddoppiarono ma per la statistica restarono piatti. È solo la divaricazione come nelle temperature, fra il registrato e il percepito? No, i prezzi non sono sensazioni, sono cifre.

Il mite velenoso

L’ennesima autocelebrazione sorridente dell’uomo forse più divisivo del calcio - insieme col suo amico e patrono Berlusconi (ma non altrettanto vincente). Che evitò di portare in Nazionale di cui era commissario tecnico, al suo unico Mondiale 1994, Vialli, Ravanelli, Del Piero, Peruzzi solo perché erano della Juventus.
Ne portò solo due della Juventus. Conte, cui fece giocare due fece giocare due scampoli di tempo ai quarti e in semifinale, contro la Spagna e contro la Bulagria, fuori ruolo. E Baggio, che tenne in ansia per tutto il torneo, gioca, non gioca?, benché la nazionale fosse asfittica e solo i 5 gol di Baggio la portarono alla finale, contro nientemeno che il Brasile - forse anche contento del rigore che Baggio sbagliò, regalando il titolo agli avversari.
In funzione anti-Juventus Sacchi accettò anche di fare il direttore generale del Real Madrid per pochi mesi. Senza altra funzione che di orientare la squadra contro il club bianconero in un duello decisivo in Champions League. È tutto dire.
Arrigo Sacchi,
Il realista visionario, Cairo, pp. 176 € 16,50