sabato 23 dicembre 2023
Ombre - 699
Oggi
sabato il “Corriere della sera” ha sei pagine preoccupatissime sui “partner
europei spiazzati dal voto” sul Mes. Di cui non potrebbe fregargli di meno, a
leggere i loro giornali o ascoltare le loro tv. E poche righe sul Superbonus
che costerà 56 miliardi nel 2023 invece dei 36 stimati a settembre, facendo saltare
il già ristretto budget per il 2024. Ogni mese di Superbonus costa quanto lo stanziamento annuo per la
Sanità, calcola il ministero del Tesoro. Come non detto.
Il cinema non è una cosa seria
Il
cinema del cinema, in formato grande, gigante. Di un’arte che si vuole
semplice, perfino noiosa a fare - sminuzzata, ripetitiva. Ma richiede molti
soldi, per un investimento a rischio elevato. E consuma chi la fa, dai
produttori agli artisti e alle maestranze, tutti nevrotizzati (alcolizzati,
drogati, sessuomani, ludopatici, violenti). Qui li consuma a maggior ragione, perché
siamo nei secondi anni 1920, del passaggio al sonoro. Quando cioè le stelle del muto all’improvviso
divennero ridicole o incapaci, di voce ineducata
o sgradevole.E malgrado tutto arte popolare per eccellenza, di linguaggio e
costo accessibile a tutti: due ore di luce, di sogno, per pochi spiccioli, anche
per gli animi semplici – indeducati, poveri.
Chazelle,
regista del cinema-spettacolo, di immagini, musica, danza e parole, tenta il
capolavoro assoluto. Tre ore di eccessi. Aperti da un’orgia porno-alcolica-drogata-violenta
nel deserto della California, espressione della ricchezza folle, stravagante,
del cinema muto che si faceva con quattro soldi. A fronte del cinema come sogno
del giovane messicano addetto ai servizi meniali. E su questa antinomia va
avanti.
Alcune
scene sono strepitose. Quelle dei titoli di testa, dell’elefante alla festa, e
poi dell’orgia nel palazzo nel deserto. O della ragazza di provincia, povera e
ambiziosa, che subentra per caso in un set alla star indisposta e diventa per il
solo temperamento una diva - una prova strabiliante, per tutta la durata del film, di Margot Robbie. Magistrale quella dei primi ciak del sonoro. Ma un’occasione
sprecata, probabilmente al montaggio – il giovane regista sembra non aver voluto
rinunciare a niente di quanto aveva girato, anche se ci azzecca poco. Per un racconto
che in definitiva resta sfocato, dispersivo. Se non, involontariamente, come
critica dell’american way of life, soldi
e alcol, di cui Hollywood sarebbe eponima – a fronte, in continuazione, di una
ipotetica Europa virtuosa.
Con
un tributo muto, mostrato, non detto, a Harvey Weinstein – è questo che è
costato al film un qualche premio dei tanti cui è stato candidato?: un
produttore compare sui ciak e alle feste dallo sguardo ragionevole, non ubriaco
né “fatto”, rispettoso di attori r registi, con le fattezze del produttore
condannato per violenza sessuale.
Damien
Chazelle, Babylon, Sky Cinema Due,
Now
venerdì 22 dicembre 2023
Problemi di base bellicosi bis - 782
spock
Ma quant’è grande questa Gaza, la distruzione non finisce
mai?
E quanti sono questi palestinesi, non finiscono mai di
morire?
Si può mettere il veto a una tregua?
Perché l’antisionismo sarebbe antisemitismo?
Cane non morde cane – chi l’ha detto?
Senza la leva obbligatoria, abbiamo dimenticato la guerra?
spock@antiit.eu
Le bizze del capitano Gaddus, con una storia d’amore
Il
primo racconto che Gadda ha scritto è l’unico di una storia d’amore fra giovani.
Ed è perfino un triangolo: tra la giovane nobildonna e il
contrabbandiere.giardiniere, tra il fratello di lei e lo stesso contrabbandiere-giardiniere.
Costruito come un giallo – ma a soluzione aperta, ambigua.
Gadda
lo scrisse da prigioniero di guerra dopo Caporetto – pubblicandolo nel 1963 su
“Letteratura”, lo accompagnò da una nota: “Questo racconto fu pensato e
scritto dal 22 al 30 agosto compresi
dell’anno 1918 in Celle-Lager”. Con una sorta di autoritrato in uno dei
personaggi, il giovane Rinieri, il terzo escluso da ogni rapporto, presente ma
invisibile. Con una fraseologia involuta, per volere essere delicata,
insinuante, non apodittica. Col problema
qui evidente, molto gaddiano, come poi di Tozzi, Landolfi, Alvaro, Bontempelli,
buona parte dei narratori tra le due guerre, di quale lingua usare, il vecchio
problema manzoniano, l’italiano postunitario suonando vacuo, e l’unico appiglio
“reale” suonando quello infantile, originario, regionalizzato, dialettale.
Il
“Capitano in congedo” è Gadda, l’ingegnere. È è il secondo racconto della
raccolta e “la prima bizza” è giù esaustiva: “Contro Semiramide, lo sciacquone,
i cilindri zincati,l’architetto Gutierrez e il fisico Wollaston” – a
complemento: “Trionfo d’una porcellana”. Puro Sterne, “Tristram Shandy
gentiluomo”, quindi probabile prosa di formazione, ma pubblicato tardi, nel
1940.
Il
primo racconto s’intitola “Viaggi di Gulliver – cioè del Gaddus”, e si presenta
come “alcune battute per il progettato libro” - Scritto con le locuzioni del
Duecento. Una lunga imprecazione, non un racconto in realtà. Un canovaccio della
futura “Cognizione del dolore”, specie nel vituperio della Brianza, delle
ville, degi architetti, dei costruttori.
“Il
seccatore” è “un inedito del 1955”, spiega il curatore, “ripescato fra vecchie
carte in un fondo di cassetto, un relitto dell’attività di Gadda redattore di programmi
culturali radiofonici, sopravvissuto ai vari trasbordi di un ufficio”. Sembra
anche un omaggio, sincero?, alla donna, alle donne, che mai scocciano - seccatore
è solo l’uomo, solo un uomo può esserlo.
“Domingo
del señorito en escasez” è Gadda tentato dal mistilinguismo, qui col
castigliano, che meglio gli riusciva. È un racconto mandato a Antonio Baldini
per una antologia di “Nuovi racconti italiani”, 1962-1963. Una spiritosa
rielaborazione di “Cinema”. già pubblicato in volume, in “La Madonna dei Filosofi”,
1931. Il signorino spiantato è Gadda cresciuto, goloso, che vaga con ben due
caramelle in bocca, “due saporini, crema Caracas y ratafià (chissà poi cos’è questo
ratafià)”.
Tra
i vituperi, ricorre di passaggio lo zio senatore, Giuseppe Gadda, irto sul
piedistallo in piazza con un suo busto di marmo. E qualche doppio senso – “«l’uomo
è cacciatore» dice uno modo da noi; e tu, che sei uomo e cacciatore lombardo, sùfola
per l’augello, e così puoi augellare per il sùfolo”.
Prose
minori, per amatori di Gadda. Altrimenti sono scheletri delle sue forme
narrative più riuscite, “La cognizione”, il “Pasticciaccio”. Segrete
(pudibonde, retrattili, autocensorie), e quindi mascherate dall’ironia. Il
primissimo racconto, quello della prigionia, recuperato da 70 pagine di
quaderno, molto pulite, fa eccezione.
La
raccolta è postuma, di testi rimasti fuori dai volumi approntati da Gadda.
Ordinata da Isella. Che l’assortisce di un prezioso “Saggio di una bibliografia
gaddiana”, un primo tentativo di ordinare cronologicamente gli scritti di
Gadda, di ogni tipo, narrativi, letterari, giornalistici, perfino tecnici (poi
superata dai Meridiani, questa raccolta è stata approntata nel 1981).
Carlo
Emilio Gadda, Le bizze del capitano in
congedo e altri racconti, Adelphi, pp. 223 € 15
giovedì 21 dicembre 2023
Seduti su montagne di debito
Il
Fondo Monetario Internazionale calcola un debito mondiale in calo nel 2022 rispetto
al picco del 2020, l’anno della pandemia, ma sempre a livelli record. Nel 2020
il debito totale, pubblico e privato, è stato pari al 258 per cento del pil
mondiale. Nel 2022 è sceso, ma sempre a livello elevato, il 238 per cento del
pil mondiale.
Il
debito pubblico è arrivato al 100,2 per cento del pil nel 2020, per poi scendere
al 92 per cento. Il debito privato ha toccato il record del 158 per cento del
pil, e si è poi ridotto al147 per cento.
Stati
Uniti, Ue e Cina sono le economie più indebitate, in assoluto (in ragione della
loro maggiore performatività) e in rapporto
al pil. Nel quadriennio 2019-1022 il debito complessivo (pubblico e privato)
degli Stati Uniti ha superato stabilmente quello dell’Unione Europea, 274 per cento
del pil nel 2022 contro 254). Fra Stati
Uniti e Europa si è incuneata da ultimo la Cina, col debito al 272 per cento
dei pil. La Cina quindi era la seconda economia più indebitata al mondo in rapporto
al pil nel 2022, ma con un ritmo di crescita considerevole, molto più elevato
che Usa e Ue – e tutto lascia presumere che sia il primo paese più indebitato già
in questo 2023.
Il partito romano della (minuta) corruzione
Il
consiglio comunale a Roma nicchia, Azione è contro, i 5 Stelle tremano, ma il
Pd assolutamente la vuole: una delibera che liberalizza nel centro storico,
dopo le jeanserie, la pizza al taglio, i panini e il kebab. Una delibera che,
tutti lo sanno, ridurebbe a un cesso, più cesso di quello che è oggi, la grande
città che costituisce il centro storico di Roma.
C’è
un motivo di tanto impegno? Sì, favorire il piccolo commercio. Ma dopo averlo
distrutto: Bersani, il Pd allora Ulivo, hanno distrutto il piccolo commercio di
vicinato venticinque anni fa, liberalizzando le licenze, svuotando di valore l’avviamento,
mentre facevano dilagare nel contempo, con licenze a gogò, la grande sì
distribuzione e i centri commerciali. Per controllare i prezzi, dicevano furbi
(sapendo cioè di favorire il consumismo, e quindi il carovita). E dopo aver mercificato,
con analoga delibera, sempre su volontà dell’Ulivo- Pd, il centro di Firenze
vent’anni fa, ridotto allo squallore di bancarelle e mangiatoie.
Prosegue
l’offensiva per lo svuotamento di Roma avviata dalla giunta Rutelli un quarto di
secolo fa ampliando le zone pedonali e riempiendole di jeanserie. O ancora più
in là dal benemerito sindaco Petroselli, liberalizzando le rendite nel centro storico,
cioè condannando alla chiusura le attività artigianali – Petroselli avviò la
costruzione di bellissime periferie, al posto delle borgate pasoliniane, ma vi deportò,
per bontà, gli artigiani.
C’è
a Roma un partito della corruzione modesta ma diffusa. Dei maneggioni, gli
sbrigafaccende e i procuratori di appalti, che un tempo faceva capo a Vittorio
Sbardella, proconsole di Andreotti, e poi è confluito nei Popolari, nell’Ulivo,
nel Pd, senza soluzione di continuità. Non per altro, per essere il Pd l’unico partito
organizzato, in grado cioè di fare ciò che promette - o è l’inverso, il Pd è “organizzato”
dagli ex andreottiani. Ma con ampie entrature nella parte Pd ex Pci. Insieme
hanno liquidato dieci anni fa il sindaco Marino che avevano incautamente eletto,
quando Marino pensò di moralizzare, un poco, il Campidoglio - i vigili assenteisti, gli appalti, gli
affitti. Una unità d’intenti cementata proprio dagli affitti, dal no al
censimento dei quarantamila e passa immobili che Roma Capitale è venuta accumulando
nei secoli, che non rendono niente – gli affitti sono irrisori, quando vengono
pagati, raramente, ma che si può fare, sono di amici e compagni.
Mafia a palazzo di Giustizia
“Nei giorni immediatamente
successivi alla strage di via D’Amelio, un nucleo di polizia giudiziaria si
presentò a casa di Borsellino con il mandato di perquisire lo studio del
magistrato, in cerca di elementi utili alle indagini. La famiglia oppose
resistenza a quella perquisizione. Alla domanda perplessa sul motivo di una
così inaspettata mancanza di collaborazione, i familiari replicarono: «Perché Paolo
si fidava solo dei carabinieri»”.
Un
libro incredibile. Non tanto per quello che dice, i delitti dell’antimafia,
quanto perché li documenta. Riesce a documentarli, malgrado riserve, segretezze
e coperture su documenti che pure dovrebbero essere pubblici. I due autori, già
alti ufficiali dei Carabinieri a capo del Ros di Palermo nel 1990, erano
riusciti a costituire un dossier
documentato sulla catena di appalti pubblici gestiti dalla mafia. Una
documentazione “che vrebbe potuto cambiare l’Italia”, possono affermare nel
sottotitolo. Dopo averne dato nel testo una delucidazione impressionante.
Assassinato
Falcone nella strage di Capaci a fine maggio 1982, il dossier si voleva indirizzato a Borsellino. Ma la Procura di
Palermo glielo tenne nascosto. Affidandolo a due sotituti Procuratori che poi
avrebbero fatto eccelsa carriera, Guido Lo Forte e Roberto Spampinato
(quest’ultimo, famoso per essere teorico
del “Dio mafioso”, è oggi anche senatore 5 Stelle, dopo essere stato
Procuratore capo). Il 13 luglio Lo Forte e Spampinato archiviarono il dossier. Il giorno dopo, al pool antimafia riunito, non ne dissero
nulla a Borsellino, che pure era intervenuto alla riunione allarmato. Il 19
luglio Borsellino saltava anche lui in aria. Una vicenda terrificante. E ai due
autori manca il riferimento al diario di Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio
Istruzione che aveva inventato il pool antimafia
e impiantato il maxi-processo storico, 1982-83, con centinaia di arresti poi
convalidati, e a luglio 1983 era stato il primo a essere eliminato in una
strage con con autobomba. Nel diario Chinnici dice chiaro che non c’era da
fidarsi di Lo Forte e Spampinato.
L’elenco
dele malefatte è sterminato - quello che si dice “un sistema”. L’archiviazione
del dossier appalti decisa da Lo
Forte e Scarpinato due mesi dopo l’assassinio di Falcone, senza dirne nulla a
Borsellino, fu confermata pubblicamente poche ore dopo la strage di via
D’Amelio, contro lo stesso Borsellino e gli uomini della scorta: che gli
interessati ne venissero con certezza a conoscenza, sapessero di non aver e
nulla da temere?
Il generone democristiano
Storie non di pizzo. Storie di
grandi imprese, non siciliane, che lavoravano con la mafia per assicurarsi gli
appalti pubblici, “dall’ideazione dell’opera all’istituzione della gara
d’appalto, dal pilotare la gara stessa,e vincerla, al gravare sull’avanzamento dei
lavori con sovracosti rispetto ai preventivi, con consulenze costosissime, con
forniture a prezzi gonfiati, con ritardi pilotati nelle consegne ecc. Tutto
questo (e con soddisfazione di tutti) ai danni delle casse dello Stato
(attraverso quelle della Regione, delle Province, dei Comuni..”)”. Una rete criminosa di impese, politici,
tecnici e mafia.
Invischiato è il “generone”
democristiano della migliore specie. Il sostituto procuratore Giuseppe
Pignatone, che ebbe per un periodo assegnato il dossier insieme con Lo Forte e Spampinato, ora giudice del papa
Francesco, dopo avere “esportato” la mafia a Roma, quando ne diresse la Procura
della Repubblica, era figlio di Francesco Pignatone, insegnante di latino,
deputato Dc a 25 anni, teorico del “milazzismo”, quindi caro anche al Pci,
all’epoca dei fatti presidente dell’Espi,
Ente Sicilia per la Promozione Industriale, cerniera degli appalti. I maggiori
contratti vedevano protagonista la Rizzani De Eccher, la ditta del geometra De
Eccher subito dominante nelle opere pubbliche nelle province bianche di Udine e
di Trento – in grado di “vincere anche tre gare in un giorno”, secondo la
moglie del titolare, che curava l’amministrazine. Al centro della conventicola
con la mafia la società romana Tor di Valle, di Paolo Catti De Gasperi, figlio
di Maria Romana De Gasperi, coniugata Catti – un ingegnere “vicino ai servizi segreti”, lo
dirà il cassiere della mafia Siino, in uno dei processi in cui testimonierà da
pentito. Ma più di tutti pesa il ruolo nefasto della magistratura.
Il procuratore capo di Palermo
Giammanco aveva mandato in giro il dossier,
che tutti sapessero, senza che la fuga di notizie fosse imputabile alla sua
Procura. Dell’archiviazione, morto Falcone, si è detto. Pignatone, Lo Forte e
Scarpinato si rifiuteranno di ascoltare il rappresenante della Rizzani De
Eccher, il geometra Li Pera, il vero dominus
degli appalti, quando questi, arrestato, comincerà a parlare. Brusca, il
feroce luogotenente del feroce Riina, sentito successivamente dai sostituti Tescaroli
e Di Matteo, dira chiaramente, a verbale, che Pignatone ha fatto “uscire notizie”
del dossier, e niente succede. Tescaroli
è uno che a Firenze, dove ora vice Procuratore Capo, lavora intensamente a
dimostrare che le bombe del 1993 le ha messe Berlusconi, Di Matteo ha montato per
vent’anni il processo Stato-mafia, ora finito nel nulla: sono giudici cioè molto
anti-mafiosi, ma con perimetri.
Il capellone e il corrotto
Del verbale di Brusca, come di
molte sedute del Csm, le trascrizioni sono state ottenute da Mori e De Donno
solo di recente, attraverso strategie procedurali complesse, nel processo
Stato-mafia, nel quale erano imputati, pur senza essere secretati. Erano, cioè,
testimonianze e verbali protetti. Col “ministro dei alvori pubblici di Cosa
nostra” A ngelo Siino, col quale De Donno aveva stabilito un rapporto
confidenziale, in vista di un “pentimento”, a un certo punto il dialogo
s’interrompe: “Non posso collaborare”, sibila Siino, col quale De Donno doveva
limitarsi a incontri segreti di secondi, il tempo per il “ministro” di mingere,
tornando dal Tribunale, dove veniva giudicato, al carcere, “la Procura ti ha venduto.
I due che stanno in aula, il capellone non capisce nente, l’altro è corrotto.
Non ti puoi fidare”. Il “capellone” è Scarpinato,
l’altro è Lo Forte. Vero o falso?
Il libro è in circolazione da
un mese e mezzo, ma solo Caselli ha risposto. E non al libro, alla recensione
che del libro ha fatto Carlo Vulpio. La p.151 è terribile – è sempre De Donno
che parla: : Siino “mi riferì che – già prima del depositodel Dossier presso la
Procura di Palermo - era stato informato dell’esistenza delle indagini. A suo
dire, la fonte della notizia sarebbe stato Giuseppe Pignatone, che ne aveva
informato alcuni ‘canali’ di cui non mi rivelò l’identità. Mi spiegò anche che
Pignatone aveva un interesse personale in relazione a quelle indagini,in virtù
sia della posizione del padre sia di quella del fratello, avvocato dello Stato
e consulente dell’Assessorato ai lavori pubblici del comune di Palermo.
Proseguì raccontandomi che, immediatamente dopo che il Dossier era stato
depositato in Procura – nel febbraio del 1991 – Lo Forte, Pignatone e
Giammanco, tramite fonti di cui non mi rivelò l’identità, ne diedero notizia ad
ambienti mafiosi, comunicando anche il contenuto del Rapporto, tant’è che lui stesso ricevette specifiche indicazioni
sulle ultime pagine nelle quali era sintetizzato l’elenco delle persone e delle
imprese coinvolte”.
Il Procuratore, di mafia, “ci capisce poco”
Qualche anno dopo Siino decide
di collaborare con la Procura di Palermo, di cui è a capo Caselli. Che però affida
il pentito, invece che ai Carabinieri, alla Guardia di Finanza. Caselli sarà poi
all’origine del processo Stato-mafia: convoca
Mori e De Donno a Torino, alla presenza di un folto gruppo di magistrati, li
chiude in due stanze separate, e li interroga “con un atteggiamento molto duro,
quasi accusatorio”. La vicenda prende parechie pagine. È Mori che racconta, che
pure aveva, dice, un rapporto di fiducia con Caselli, dai tempi del terrorismo.
De Donno accusa Caselli di essersi rifiutato di verbalizzare l’alterco intercorso
fra di loro sulla prima testimonianza di Siino, che il dossier era stato diffuso dalla Procura di Palermo. Sull’alterno
non verbalizzato De Donno ha mosso un procedimento di accusa alla Procra di
Caltanissetta. Che si è poi concluso con
l’archiviazione delle sue accuse, a carico di Giammanco, Lo Forte, Pignatone.
Ma con la notazione che Siino certamente aveva accusato la Procura di Palermo
della diffusione del dossier, “in
quanto documentato dal contenuto delle fonoregistrazioni”.
Caselli non ha risposto,
nemmeno lui. Ha solo lamentato, del libro, “schizzi di fango di dubbia natura”.
Forse aveva ragione il suo protetto Lo Forte, che del Procuratore venuto da Torino
diceva , ammiccando, che “ci capisce poco”.
In uno degli ultimi capitoli
Mori spiega lungamente che i rapporti col giudice Caselli, prima di Palermo, erano buoni: “Risalivano agli anni
della nostra collaborazione nella lotta al terrorismo”. E a Caselli Mori passò
la possibile collaborazione di Vito Ciancimno: “In vista del suo nuovo incarico
miaveva contattato per avere da me un quadro della situazione in S icilia e io gli dissi dei nostril contatti con
Cincimino. Lui si disse interessato e si fecec promettere di essere infrmato di
eventuali sviluppi”. Caselli per Mori è colpevole
anche di non aver capito, con Ingroia, l’interesse del “pentimento” che
Ciancimiono gli offriva – il suo progetto di diventare “il Buscetta di Caselli”.
Due anni dopo lo trattava da delinquente – trattava Mori.
E non c’è solo Palermo. A Palermo
Mori non si sente ben visto, dice. Perché veniva dalla collaborazione con Domenico
Sica, romano, Alto Commissario Antimafia - al posto di Falcone. Di Falcone dà
non solo l’elogio di prammatica, ripetutamente, ma di più il quadro di un’intelligenza
rapida. In particolare, subito, a naso, sul dossier
appalti – “ci divertiremo”. Venendo però da una diffidenza generica verso i Carabinieri.
Mori recupera il rapporto grazie a Ilda Boccassini, venuta apposta da Milano,
dove collaborava proficuamente da qualche mese col capitano Sergio De Caprio, trasferito
a Milano per collaborare all’inchiesta Duomo Connection. De Caprio chiede a
Boccassini di mediare il rapporto con Falcone, e lei si presta, un giono,
“all’improvviso”, piombando a Palermo. “Falcone ascoltò senza manifestare particolari
reazioni”, ma Boccassini uscì dal breve incontro contena, e il rapporto partì.
A questo punto è Sica che si vendica, smantellando il gruppo di De Donno a
Bagheria, da cui tutto era partito, la verità degli appalti. Con una manovra
semplice, spiega Mori: facendo ricredere il loro principale pentito, Giaccone,
il professore, sindaco di Baucina, il piccolo comune dove il meccanismo degli appalti
era per caso emerso. Giaccone, personalmente onesto, aveva spiegato il
mecanismo in dettaglio, e dato i nomi. Sica lo convinse a ritrattare. Dopodiché
“c’era, a questo punto, un fascicolo aperto contro me, Falcone, e l’avvocato
Milio”, che aveva assistito Giaccone – “a distanza di tempo fummo tutti
assolti, ma intanto c’erano state polemiche, articoli di giornali, interventi
di personaggi pubblici: uno degli episodi – tipici nel corso delle indagini di mafia
– in cui la diffusion di veleni finiva per favorire gli interessi dell’organizzazione”.
Cronache mafiose
Ce
n’è anche per Leoluca Orlando, sindaco molte volte di Palermo, da destra e da
sinistra. Orlando nel 1982, poco prima della strage di Capaci, accusava in tv,
alla Rai, da Santoro, Giovanni Falcone di tenere nei cassetti le prove di
delitti eccellenti, mentre custodiva personalmente in cassaforte documenti di
appalti a imprese mafiose. E quando il
giudice Alberto Di Pisa trovò quei documenti in una perquisizione al
Municipio e si apprestava a incriminare Orlando, fu acusato sui giornali di
essere il “Corvo”, autore cioè di lettere anonime contro Falcone. Era un falso,
ma bastò per togliergli l’inchiesta su Orlando – dopo quattro anni
d’“inchiesta” Di Pisa sarà prosciolto, ma non diventerà mai Procuratore Capo.
Si
potrebbe continuare. Ma incredibile è soprattutto il silenzio che ha accolto,
ormai da un mese e mezzo, questa denuncia. Che, si sarebbe pensato, doveva fare
strage nelle cronache giudiziarie. Ne ha parlato solo Carlo Vulpio - già un “giustiziere”
anche lui, candidato con Di Pietro - per essere prossimo di De Donno, sul
“Corriere della sera”. In una recensione che il giornale ha annegato in un
pagina di cronaca nera. Il silenzio è la riprova che le cronache giudiziarie
sono eterodirette – cosa che sanno tutti nei giornali.
Mario
Mori-Giuseppe De Donno, La verità sul
dossier mafia-appalti, Piemme, pp.pp. 237, ril. € 19,90
mercoledì 20 dicembre 2023
Problemi di base femministi - 781
spock
“La cultura femminista è
appassionatamente coinvolta nell’universo cyber-mostruoso”, Rosi Braidotti?
“Il femminismo condivide pienamente, e
contribuisce attivamente, al tecno-immaginario teratologico della nostra
cultura, attraverso la sua enfasi sulle identità ibride e mutanti”, id.?
“Diciamocelo, siamo disfatti l’uno dall’altro.
E se non lo siamo, ci stiamo perdendo qualcosa”, Judith Butler?
“La verità si sottrae a noi quando abbiamo a che fare con una donna”, Marguerite Yourcenar?
“Il diavolo è l’unico a capirci qualcosa
del mistero femminile”, Oscar Wilde?
Dio è femmina, e Babbo Natale?
spock@antiit.eu
Il santino dei salvatori in mare
Rivisto, a quasi un anno dalla prima uscita (già essa celebrativa,
nel decennale della fondazione in Spagna di Open Arms), dà una fastidiosa sensazione
di apologia. Una vecchia vita di santo traslata sul cimitero del Mediterraneo. È
l’apologia diventata un genere laico, di santi laici, appaltatori statali - se si è del partito giusto?
Un “santino”, incontestabile
(chi può contestare il bene) e inevitabile, quasi una persecuzione. Quando le
dimensioni del fenomeno migranti, delle fughe in massa, delle torture e le
spoliazioni in massa, delle morti in massa, richiederebbe ben altro: una mobilitazione
in massa, una crociata, una guerra. Invece, anche al cinema, un dramma così agghiacciante,
così quotidiano, e niente. Solo il film
di Garrone, dopo quello di otto ani fa (snobbato) di Gianfranco Rosi.
Marcel Barrena, Open Arms - Le legge del mare, Sky
Documentaries
martedì 19 dicembre 2023
La Cina costa caro – o l’ideologia dell’aiuto allo sviluppo
Si
fanno i conti della Via della Seta, il grande programma di “cooperazione internazionale”
della Cina (da cui l’Italia si è ora sfilata), e si vede che non è diverso dal
vecchio schema imperialista: dare poco per prendere molto. In Italia, dopo l’adesione alla Via della Seta, il deficit commerciale con
la Cina è improvvisamente raddoppiato, dai 16-20 miliardi di dollari l’anno a
quasi 40 nel 2022. Mentre gli investimenti cinesi, oggi calcolati attorno ai 30
miliardi, si distingono per essere più finanziari che produttivi - quando non sono veicoli per finanziare a buon
rendimento le attività acquisite (nel caso dell’Inter all’8 per cento, in quello
Pirelli e delle tantissime altre aziende a quota o proprietà cinese non si sa).
Molto
di più la Via della Seta ha pesato e pesa sull’ex Terzo mondo, in Asia e in
Africa. Dove gli investimenti si sono dimezzati negli ultimi cinque anni (con l’eccezione
del 2022), da 36-37 miliardi di dollari l’anno a 16-17. Mentre gli interessi riscossi
sono raddoppiati dall’anno scorso, da da 15-16 a 33-34 miliardi di dollari.
La
Via della Seta si può dire una riedizione in area comunista della vecchia ideologia
occidentale dello sviluppo. Quando si puntava, prima della globalizzazione
(decentramento e liberalizzazione della produzione e degli scambi, di cui la
Cina prima e più di tutti ha beneficiato), sull’aiuto allo sviluppo: ti
finanzio per guadagnare di più – perpetuando lo “scambio ineguale”. Una dottrina
in voga negli anni 1960, e durata per un altro paio di decenni. Benché già nelle
sue prime applicazioni fose dimostrato (da P.T.Bauer alla London School of
Economics, sulla base delle bilance dei pagamenti) che si donava per guadagnare
di più.
Un’ideologia
pervicace, quella dell’“aiuto allo sviluppo”, o della cooperazione, una sorta
di missione laica. In Italia i calcoli di Bauer furono liquidati da Federico
Caffè, che si reputava l’economista più aggiornato, come “elucubrazioni
reazionarie” – benché le partite correnti parlassero chiaro, e Bauer fosse più
socialista, radicale, di Caffè. E si aprì la strada al voto unanime del
Parlamento nel 1983, alla proposta radicale (l’unica legge proposta da Marco Pannella mai approvata), di un fondo annale per lo sviluppo dell’ammontare allora
ragguardevole di duemila miliardi di lire.
La crescita si fa in Borsa
Sono
quasi due mesi che Unicredit ha annunciato , in una con 10 miliardi di capitale
in eccesso, l’intenzione di utilizzarlo per acquisizioni, oppure per “restituire
valore agli azionisti”, anche col riacquisto di azioni proprie. Nel mentre che
acquistava il 9 per cento, la maggiore quota singola, della quarta banca greca, Alpha Bank.
Iniziativa lodevole, che aveva meritato anche l’elogio della presidente della
Bce Lagarde – “è il segno del risanamento del settore finanziario in Grecia”. E
creava in Romania, raggrupando le filiali già aperte, la terza banca del paese.
Confermando l’identità di banca cross-border che il gruppo si è data vent’anni
fa.
Ieri,
con separate interviste ai due maggiori giornali tedeschi, “Frankfurter Allgemeine
Zeitung” e “Süddedutsche Zeitung”, il ceo del gruppo Orcel e il presidente
Padoan hanno prospettato una nuova ondata di acquisizioni, “soprattutto nell’Europa
centrale e orientale”. Dove le valutazioni sono attraenti. Mentre si escludono Germania, Austria e Italia, dove il gruppo è
già forte, perché “i prezzi sono troppo altri”. E fin qui è la norma. Poi Orcel
alla “Faz” ha detto di più: “Un’acquisizione potrebbe aiutarci a far sì che il
mercato riconosca il nostro pieno valore, cosa che oggi non avviene”. Oggi, dopo
che la capitalizzazione (valore) in Borsa è quasi raddoppiata in un anno, o
poco più. E se il gruppo non troverà “buone occasioni”, continuerà a “riacquistare
azioni proprie”, nell’interesse dei suoi azionisti.
Non
basta gestire bene il credito, bisogna gestire bene il titolo.
Eduardo liberato
La guerra dei poveri. Tra
poveri: sotto i bombardamenti c’è chi fa la fame e chi s’arricchisce sulla fame
degli altri con la borsa nera – facendo incetta di ogni sorta di bene, alimentare
e non, per rivenderlo a prezzi da usura. Questo taglio che Eduardo De Filippo
ha dato del dramma della guerra, di un autore che poi sarà molto impegnato politicamente,
è la sorpresa che a ogni rappresentazione si rinnova: il popolo può essere malvagio. L’unico gesto buono sotto le bombe, disinteressato, il salvataggio della bambina con la penicillina introvabile, un
episodio che Miniero fa durare a lungo, viene dalla coppia borghese che la
trafficante arricchita ha ridotto in miseria. La povertà è brutta – la povertà
vista quale è, senza l’obbligo di “andare verso il popolo”.
Una scommessa riuscita della
Rai. Ogni anno sotto Natale la Rai propone una commedia di Eduardo, “Il sindaco
del Rione Sanità”, con Gallo, “Natale in casa Cupiello con Castellitto padre, e
ora, di nuovo con Gallo, “Napoli milionaria” in forma non teatrale ma
cinematografica, affidata a Luca Miniero. Con qualche difficoltà, ma con
successo infine di pubblico, uno su cinque in prima serata.
La difficoltà con Eduardo è
duplice. Una è che lo si vuole rappresentare come “classico”, come mostro sacro,
e si finisce spesso per perdere la comicità che sottintende le sue commedia, le
battute, le situazioni, sotto il velo della malinconia. Quasi che bisognasse fare
i compiti, celebrare il monumento. L’altro è che, restando ancora viva per i molti
la presenza fisica di Eduardo sulla scena, i Gallo e i Castellitto, devono mimarlo,
“riprodurlo”, con la stessa maschera, la stessa mimica, gli stessi tempi,
perfino gli stessi giri e toni di frase. Mentre le commedie di Eduardo si
reggono da sole, e probabilmente ne
acquisterebbero ad affrancarsi. A essere proposte per come sono scritte. Come
in questo adattamento, da film-per-la-tv – o nella famosa rappresentazione di “Filumena
Marturano” a Londra e a Broadway, nel 1977 e nel 1979, da parte dei mattatori
Laurence Olivier e Joan Plowright.
Luca Miniero, Napoli
milionaria, Rai 1, Raiplay
lunedì 18 dicembre 2023
Come governa Meloni? Come non detto
“Il governo ha una forza politica
interna che altri governi oggi non hanno” – sottinteso: in Germania, Francia,
Spagna, Olanda, etc.: “È uno scenario quasi inedito questo: dà una leva
internazionale all’Italia, che è molto utile”. È l’opinione dell’ex direttore
generale del Tesoro, Alessandro Rivera.
Rivera non è un meloniano. Al
contrario. È stato licenziato dal governo Meloni un anno fa, uno dei primi atti
di governo dopo l’insediamento, e ora, dopo un anno di passaggio di consegne,
ha lasciato il Tesoro. Ma è vecchia scuola Funzione Pubblica, cioè ha giudizio,
e lo esercita.
È un commento interessante. Non tanto
per l’elogio indiretto al governo, quanto per la prospettiva che propone nell’analisi
dei fatti politici. La reputazione pesa molto nei mercati - può ridurre lo spread di 40 punti, pur in presenza di un bilancio ristretto, e mentre il debito cresce di un centinaio di miliardi o poco meno. Ma di più la notazione di Rivera sorprende per un concezione intelligente, oltre che rasserenante
(fattiva) della politica. Ma è un’eccezione, rarissima, alla politica gossip che ci perseguita dai giornali,
ogni giorno, per sei, otto, dieci pagine, su liti, sgarbi, sgambetti (Meloni-Schlein,
le vajasse?, Renzi-Calenda, Conte-De
Luca, Meloni-Salvini…. ) . I lettori protestano non comprando i giornali. E
niente: l’intervista a Rivera di Fubini, che pure del giornale è editorialista,
col titolo di vice-direttore, il “Corriere della sera” relega alle pagine
interne, senza alcun richiamo, di un supplemento del lunedì.
Il Monte dei Paschi non c’è stato
Con
le ultime assoluzioni si conclude la crisi del Monte dei Paschi, dopo dodici
anni di presunte indagini e presunti accertamenti di colpa, ma si conclude in
modo strano: non è colpa di nessuno, anche se le colpe sono evidenti. La Fondazione
non ha colpe, i manager nemmeno, le operazioni azzardate restano appese nell’aria,
i sottoscrittori di aumenti di capitale a cascata finiti nel nulla hanno avuto
quello che si meritavano, brutti speculatori.
Un furto di risparmio mai visto. Poiché gli amministratori degli aumenti,
dopo la chiusura del 2011 con quasi cinque miliardi di perdite, Profumo
presidente e Viola amministratore delegato, sapevano che la banca doveva andare
in amministrazione straordinaria, non poteva reggersi sui mezzi propri - una
gestione amministrativa che disponesse con criteri oggettivi di debiti e
crediti, per appianare la gestione ordinaria. Si è invece fatto finta di nulla.
Cioè si è coperto il disastro, con la complicità evidente, per quanto
impensabile, della Banca d’Italia. E forse in obbedienza alla vecchia politica
locale, compromissoria - giudici evidentemente compresi.
Per diluire il danno si sono rubati otto miliardi, a 40 o 50 mila
risparmiatori. Impensabile, ma è avvenuto. Quando si sapeva che la banca era
materialmente fallita. Ben due aumenti di capitale, per otto miliardi di euro,
in appena un anno, da giugno 2014 a giugno 2015, accompagnati dal trionfale
rimborso dei prestiti del Tesoro e da report lusinghieri, finiti nel nulla. Più
un terzo tentato nel 2016 e fortunatamente fallito.
Di
chi la colpa? Di nessuno. In dodici ani di inchieste e processi niente sugli
azzardi che portarono il banco – forse quello meglio radicato (più
produttivamente) in tutta Italia - al collasso. Noti peraltro ai più (se ne trova
la sintesi in
http://www.antiit.com/2022/10/quando-scalfari-avvio-la-fine-del-monte.html).
La
giustizia italiana è politica, e quindi era impensabile che un qualsiasi
tribunale condannasse manager e politici protetti dall’ombrello Pd. Ma senza
considerazione per il mercato, oltre che per la giustizia: di chi ci si potrà
fidare, se chi ha distrutto decine di miliardi, per finalità ignote, non ha
colpa?
C’è ancora tempo
L’ultimo
“almanacco” residuo, probabilmente – la testatina promette: “Un anno di
felicità. Dal 1762”…. Forse per questo già patrimonio UNESCO. Sempre per mano della famiglia Campi, di Perugia (non era
di Foligno?).
Gli
almanacchi, appuntamento rituale di fine anno, sono improvvisamene scomparsi, “Barbanera”
no. Eccezione doppia, perché, oltre che consigliere o assistente personale, si
vuole un metronomo del tempo naturale, del fluire dei mesi, delle stagioni. Con
le fasi della luna, che tanto pesano sugli umori, della terra e delle persone.
Con i richiami e i minuti consigli di sempre, sulle colture, i raccolti, le verdure
e la frutta di stagione, con le loro proprietà (vitamine, acidi, fibre), la
cucina, il riassetto della casa, le grandi pulizie, gli svaghi stagionali, la
salute. Aggiornati, al detox, al relax, al riciclo.
Una
pubblicazione per definizione rassicurante, su quello che è, e su come si può
migliorarlo, coi mezzi propri. Un’idea editoriale
vecchia di un millennio, se il primo almanacco di cui si ha notizia concreta
risale al 1088. Improvvisamente scomparsa, sorpassata dalla rete, dove si sa
tutto, in teoria, di tutto, all’istante. Ma la carta, le illustrazioni, le didascalie,
l’approntamento da tempo, per un percorso di almeno un anno, danno ancora un’idea
di durata. Che è rassicurante.
Il
pensiero si vuole critico e quindi all’erta, allarmista, ma anch’esso probabilmente
ha bisogno di prevedersi, di programmarsi - nell’arco breve, certo, dei mesi,
le settimane, i giorni. La luna, per esempio, non va di fretta, e si aggiorna ma
con juicio.
Almanacco Barbanera, Editoriale
Campi, pp. 256, a colori, €9,90
domenica 17 dicembre 2023
Ombre - 698
“La
Ue a Israele: basta finanziare i coloni violenti”. Oh, perbacco!
Ingenuità
non è (la stupidità esiste). Ma: ci sono coloni non violenti?
A
fine 2011 Obama e Sarkozy fecero la guerra alla Libia per “liberarla”. Dopo d’allora,
dalla Libia liberata, sono stati fatti fuori masse di migranti africani, 28 mila
in mare e un numero imprecisato in terra. La prossima giaculatoria sarà: “Dall’Occidente
liberatore, liberaci!”? Dalle anime “candide” dell’Occidente.
Il
giudice Pignatone, quello che aveva tentato di esportare la mafia a Roma, condanna
l’ex cardinale Becciu su input,
dicono le cronache, di Francesca Immacolata Chaouqui. Di cui non si riesce a
capire i poteri – era stata addetta, poco più che ventenne e sconosciuta impiegata
di Ernst&Young, alle finanze vaticane dal papa Francesco, una delle sue
prime nomine. Chaouqui è di Cosenza, ma la ‘ndrangheta pare esclusa. Potere femminile
(un tempo si sarebbe detto: è figlia del papa)? Questione di massonerie?
Bastano
pochi mesi di vendita di un farmaco riuscito anti-obesità e la società che lo
produce, Novo Nordisk, 30 miliardi di dollari di fatturato, “vale” in Borsa 435
miliardi di dollari, più del doppio di prima del farmaco, più del pil della Danimarca,
dove ha sede legale, secondo gruppo farmaceutico al mondo in Borsa. Perché, con
tanto parlare di crisi, viviamo un’epoca di obesità – di eccessi, dai cibi alle
automobili, alle abitazioni (consumo del territorio).
Si sa di tre giovani inermi uccisi a Gaza
dall’esercito israeliano a colpo singolo perché erano tre giovani israeliani, ostaggi
che si erano liberati o erano stati liberati. Altrimenti, è normale uccidere
dei giovani disarmati che agitano la camicia bianca?
Due
commissari dell’Alitalia in amministrazione straordinaria nel 2017, un professore
e un avvocato, Paleari e Discepolo, vogliono e ottengono dai giudici una liquidazione
milionaria,7 milioni l’uno, 3 milioni l’altro. Per non aver fatto nulla. Due commissari
nominati da Calenda ministro, in un governo di sinistra. Senza vergogna.
“Da
tempo, già dalla presidenza Obama, gli americani hanno cominciato a guardare
con interesse ai
sauditi”: è la copertina di “7”, settimanale del “Corriere
della sera”. Ma l’Arabia Saudita è nata con gli americani: è l’America che ha creato la dinastia, appoggiando il capotribù Abdelaziz al Saud contro gli inglesi, per il controllo del petrolio. L’Aramco, la società del
petrolio saudita, è stata americana fino a recente. Abdelaziz ha vinto,
per ultimo l’Heggiaz un secolo fa, con i soldi del petrolio. E con matrimoni a raffica nelle grandi famiglie tribali, più importanti quelli col clan dei
Sudeiri: tutti figli suoi i re che si sono succeduti, fino all’attuale. La storia farebbe più notizia - perché Berlinguer
l’ha abolita, il ministro?
Il
tg 5 di Mimun fa una grande servizio su una mostra fotografica modesta che i
reduci del Pci a Roma hanno messo su su Berlinguer. A cui attribuisce la paternità
di tutto il buono che la Repubblica ha fatto, il diritto di famiglia, il
divorzio, l’aborto, lo statuto dei lavoratori, il sistema sanitario nazionale,
e altro. Mentre Berlinguer non ha fatto nulla di questo quando è stato al
governo, e semmai ha sugli stessi problemi frenato. Di suo ha solo proclamato meglio
l’Italia democristiana che la sinistra al governo – e a morte socialisti, radicali,
repubblicani, socialdemocratici e ogni altro alternativo.
Si sa di tre giovani inermi uccisi a Gaza
dall’esercito israeliano a colpo singolo perché erano tre giovani israeliani, ostaggi
che si erano liberati o erano stati liberati. Altrimenti, è normale uccidere
dei giovani disarmati che agitano la camicia bianca?