sabato 30 dicembre 2023
Ombre - 700
A scuola dal maestro poeta
“Gli anni mi pesano già”, è
l’annotazione nel registro di classe del 1962-63”. “La scuola «logora». Arrivo
a casa sfinito”, a casa che era dietro l’angolo della scuola. Caproni aveva
ancora cinquant’anni. E non era il vegliardo dell’immaginario, delle foto ultime,
di quando ebbe qualche fama: era un signor e alto, imponente, il viso quadrato,
volitivo, fattezze da attore di cinema. Ma insegnava da ventisette. Insegnava
fisicamente, con tutto se steso. “In un primo tempo, più di insegnare a scrivere
correttamente”, annota a proposito di un convegno col direttore scolastico sul
linguagio nell’insegnamento, “si tratta di insegnare a pensare, cioè a fermare
e coordinare le idee, i pensieri”. E a questo fine tutto fa “lingua”. Anche
il dialetto: “Cade ilproblema del dialetto. In un primo tempo l’alunno parli
pure in dialetto: vuol dire che egli pensa ancora dialettalemente…. Il dialetto
si trasformerà a poco a poco in lingua a mano a mano che la cultura diventerà,
da dialettale, nominale, etc.”.
Giorgio Caproni fu per una
vita, al 1935 al 1973, maestro
elementare, a Roma. Per qualche anno con varie supplenze, poi di ruolo alla “Pascoli”,
e dal1951 alla “Crispi”, la scuola di Monteverde Vecchio, dove abitava.
Nina Quarenghi ha rintracciato
negli archivi scolastici i registri di casse, e ne fornisce un’edizione leggibile,
mai stancante. Facendola precedere da un’introduzione di servizio per il
lettore. I ragazzi si distinguono a quell’età per caratteristiche minime, l’insegnamento
è ogni pochi anni ripetitivo, e tuttavia il
rapporto col maestro Caproni resta interessante – piacevole, acuto,
promettente. E fa nostalgia: la professione era ancora onorevole, ambita – la scuola
rispettata.
Caproni da parte sua era applicato,
e apertissimo – insegnava dialogando coi bambini. In tanti registri annota per prima cosa sinteticamente
le caratteristiche psicofisiche che rileva di ognuno degli allievi – qui proposti
con un numero progressivo. E se in una classe si ritrovava uno, due nuovi, creava
subito un contatto personale, cercava una chiave, finché la trovava.
Giorgio Caproni, Registri di classe, Garzanti, pp. 330,
ril. € 24
venerdì 29 dicembre 2023
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (547)
Giuseppe Leuzzi
Riso sardonico e crisi fiscale dello Stato
La Sardegna è la terza regione
in Italia per tasso di suicidi in rapporto alla popolazione, Murgia scopriva
nel suo “Viaggio in Sardegna” una decina d’anni fa. Forse è anche la prima, a
occhio, guardando le ultime tabelle regionali dell’Istat, quelle del triennio
2018-2020. Più del doppio della Calabria, che ha una popolazione residente maggiore,
solo qualche decina in meno della Campania o della Puglia, che hanno una popolazione
tre volte e mezza e due volte e mezza quella della Sardegna.
Al Sud in generale si muore
meno per suicidio del Centro Italia. E molto meno sia del Nord-Est che del
Nord-Ovest - la povertà, relativa certo, dà più fiducia? Eccetto il record della
Sardegna. Che, però, non è una tradizione, antichissima? O\e un’anticipazione,
della moderna teoria della buona morte, da Hitler alla Svizzera?
Una ragione per
eliminare la gente inutile c’è, spiegava Propp, l’analista delle fiabe: “Tra
l’antichissima popolazione di Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di
uccidere i vecchi. E mentre uccidevano i vecchi, ridevano sonori”. Era una
commistione: a Creta, alle origini dell’Occidente, una statua di bronzo fu
donata, di nome Telo, che ogni giorno faceva il giro dell’isola, e se
incontrava un nemico fenicio lo arroventava abbracciandolo ridendo. La risata
passò in Sardegna quando Telo e i cretesi, fonditori di metallo, si trasferirono
nell’isola ricca di miniere – via Sardi di Libia, lì vicino?
Questo Michela l’ha mancato:
la pratica dell’“accabadora” derivata dal vecchio uso sardonico. La pratica
però può tornare utile nell’instaurazione che il contemporaneo illuminismo persegue
della buona morte. Per mano propria o altrui. Di persone che comunque non potranno
vivere una “buona vita”, e quindi è inutile tenere in vita. Con un risparmio
notevole per il bilancio della sanità – di che risolvere l’ormai cinquantennale
crisi fiscale dello Stato.
Molti passi sono già stati fatti
su questa strada. Perché si dice “Svizzera” ma di fatto la Germania e altri paesi
dell’ur-germanesimo da tempo non praticano chirugia antitumore sugli
ultrasettantacinquenni senza garanzie di risanamento risolutivo. Col riso sardonico
l’Italia si assicurerebbe un sicuro primato.
Le architetture del leghismo
L’antipatia di Gadda per la sua terra, per le
architetture della Lombardia, della Brianza, di Milano, professata specialmente
nei racconti milanesi e nella “Cognizione del dolore”, ermegeva, più che come
una fobia, come un rifiuto argomentato nell’abbozzo della “Cognizione” che è il
racconto “Viaggi di Gulliver, cioè del Gaddus”, dell’autunno del 1933. Un testo
pubblicato tardi, nel 1970, in una collettanea in onore di Raffaele Mattioli,
il banchiere-mecenate che molto aveva aiutato Gadda, ora nella raccolta “Le
bizze del capitano in congedo”:
“Volendo io
discorrere la cagione di così turpe e scimiesco malfare, dirò che la si ritrova essere di quattro diverse generazioni:
primo perché detti Lombardi sono mescolati di Galli e di Germani e sentono come
uno richiamo del sangue e delle terre da che ab antiquo convennono sotto il
cielo ed i segni e le leggi nostrani: e questa è cagione non disdicevole perché
la è congeniale, né vi ha luogo di accusa. Secondo perché i traffici e
industriose fabbriche de li pitali di ferro smaltato vennero loro nell’anno
1900 circa primamente dalla Magna, e col venir pitali motori elettrici e
macchine da tessere essi pensorno, nel giudicio suo, ne dovesse venire in
consequenzia l’arte dell’edificio, che è legata alla materia invece ed al clima,
alle convenienze ed alle luci, alle opportunità delle genti e de’ luoghi…. La
terza generazione dell’esser scimmie
rivolte nel cielo settentrionale è la più grave e turpe, ed è una sorta di
mancamento della propria anima di popolo, o del senso, del valore e vigore
collettivo del popolo suo… E la quarta generazione, dirò a conchiudere, è fatta
d’ignoranza, di cecità, d’ignavia, e di celtica e germanica presunzione mescolate
nel sangue lombardo, senza l’attiva ricerca di quelli”…
“Andate a veder mondo e paese!”, Gadda infine esorta i
suoi: “E modi e genti, torri e palazzi”.
Milano e la Lombardia, molto
sono mutate in breve tempo – hanno fatto la “gita a Chiasso” che l’altro Gran
Lombardo, Arbasino, consigliava. Per gli affari. Ma lo spirito è sempre quello?
“Ogni operosa bontà non può ignorare gli emuli sua,poiché se tu non li vedi”,
proseguiva Gadda, “e’ possono aver fatto senza tu lo sappi cento volte quel che
tu fai”.
Il Nord è un valore, sotto spirito
Da anni la Finlandia viene
incoronata il paese più felice al mondo da chi compila queste classifiche. Suscitando l’ilarità dei finlandesi.
Come nel caso degli attori protagonisti del film di Kaurismaki premiato a
Cannes, “Foglie al vento”, Alma Pöysti e Jussi Vatanen. Una storia d’amore muto,
nel cinema parlato, ma nel film si parla pochissimo, tra due senza lavoro, lei
licenziata per nessuna ragione, lui perché beve. L’ennesima storia di deiezioni,
silenzi e malinconie. “Il tono del fim non è così distante dalla realtà”,
spiega Pöysti a Marco Consoli sul “Venerdì di Repubblica”, “perché la cosa più
scontata da condividere tra finlandesi è il silenzio”. E Vatanen: “Per questo l’alcol è così diffuso
nel nostro Paese. Ci serve qualcosa che ci aiuti a superare questa barriera
sociale ma anche per dimenticare il dolore dell’esistenza”. Per “barriera
sociale” intendendo la segmentazione, fra chi è affidabile e chi no.
La Finlandia è, con la
Danimarca, il secondo paese al mondo dove chi beve si ubriaca almeno due volte
al mese – prima viene l’Australia, con tre ubriacature per alcolista al mese.
Calabria-Veneto, quasi un gemellaggio
Il paese di Arborea, in
provincia di Oristano, spiega Murgia nel “Viaggio in Sardegna”, “ha la
produttività agricola più elevata dell’isola ed è tra i primi cinque produttori
italiani di latte”. Era una zona
malarica, bonificata negli anni 1920 e messa inproduzione con “criteri di
sfruttamento più razionali: il centro è tuttora abitato dalla comunità di
origine veneta che lo fondò”.
A lungo i veneti sono emigrati, per bisogno, fino agli
anni 1960, anche 1970. In Sardegna, come si vede, come in tutte le zone
malariche da bonificare, nelle paludi pontine, nell’arido sud-ovest della Francia.
Al Sud pure in virtù della ferma militare a Casarsa della Delizia, fonte di
connubi anche felicissimi. Due è possibile ricordare personalmente. Di neo padrone
di casa venete all’origine della prima valorizzazione in Calabria del Parco del
Pollino a Campotenese, e del Parco dell’Aspromonte sotto Gambarie, poco sopra
Santo Stefano. Un rifugio per camminatori, che divenne anche sosta pranzo per
la prospiciente autostrada, e un una trattoria di campagna paradisiaca con
vista sullo Stretto, lontano e avvolgente, attraverso rami di limoni e di mandorli.
Il primo colono moderno di Sibari, area
malarica, che vi importò le risaie, era di origini venete. Vi si dedicò dopo
che una rabdomante altoatesina vi aveva trovato l’acqua. L’impresa fu
difficile: i terreni erano cinque metri sotto il livello del mare, l’area era
da un millennio abbondante infetta – acquitrinosa, malarica. Ma il signor
Candido ci riuscì. Questo settant’anni fa, poco più. Oggi la piana di Sibari è
un giardino delle Esperidi. Vi fioriscono gli agrumi, arrivando sul mercato
come primizie (clementine) e come prodotti tardivi (ovale di Calabria,
succosissimo a giugno), varie qualità di pesche, le albicocche. Mentre le
risaie arricchiscono anche la diocesi di Cassano, cara al papa Francesco.
Parlava del signor Candido, risicultore di origine
padovana a Sibari, Gustav René Hocke, nei suoi “vagabondaggi nel Suditalia
greco”, che intitolò “Magna Grecia”. Non se ne sa di più.
Cronache della
differenza: Aspromonte
Il “Corriere della sera-Login”
visualizza graficamente i 1.600 e oltre terremoti del 2022. Quelli più numerosi, ma meno che devastanti,
dal punto 3 al punto 3.9 della scala, sono tutt’attorno all’Aspromonte, in mare. Nel
Tirreno tra la Piana e le Eolie, e sopra capo Vaticano, verso il golfo di Lamezia. Oppure nello Jonio - almeno
quattro scosse sono state registrate nel mare antistante la Montagna, da Roccella a capo Spartivento.
La Montagna è solida.
Toro
è il dio che ha rapito Europa – poi divenuto bestia sacrificale nelle grotte
del dio Mitra. Risorto - o riapplicato - in Taormina (Tauromenion) e Gioia Tauro (l’antica
Metauros, n.d.r., con l’aggettivo Gioia
derivato dal greco-bizantino zoa,
viva). “Ai piedi dei monti degli antichi Vituli, così chamati dal loro animale totemico – lo
stesso che avrebbe dato il nome alla parola “Italia” (Paolo Rumiz, “Una voce
dal Profondo”, 88). Stiamo parlando dell’Aspromonte.
A Gambarie
si sciava guardando il mare, fino all’Etna. Un’infausta riforestazione lo impedisce:
si scende dal monte Scirocco come in una qualsiasi vallata alpina, chiusa, o
abruzzese.
“Il 60 per cento delle
foreste italiane è gestito a vuoto: non genera valore”, Alessandra Stefani, direttore
generale Economia Montana al ministero dell’Agricoltura e Foreste: “Il legno viene
tagliato e bruciato e basta”. Non era così. La Sila si pregiava d’essere il “bosco
d’Italia”. L’Aspromonte terra di abetieri, falegnami e mobilieri specializzati
nel trattamento delle abetaie - poi soppiantatae da frassini e faggi. Ora il
parco accudisce, ma nel senso di accumulare. Roba anche inutile. Anche dannosa –
insetti, cinghiali, incendi.
“Liberare” le pinete è come
un grido, spontaneo andando per l’Aspromonte, nel
Parco. Molti boschi, soprattutto le pinete, sono così fitti che sono secchi:
sono verdi all’esterno, dove gli alberi respirano, sono vuoti e secchi
all’interno, dove i pini sono stati piantati a grappolo, e non cresce nemmeno
un filo d’erba. Pinete marce, che
peendono fuoco con una scintilla.
Si continua a piantare, anche se non crescerà nulla, non può.
Gli abeti, che coi faggi crescono facendosi vicendevolmente ombra, vengono piantati
a fasci, isolati sotto il solleone, sicuri quindi che il rimboschimento è
solo una spesa sprecata. Ci guadagnano solo i vivaisti.
Si sono
rimboschite le radure, d’alpeggio o frangifuoco. Sono state ricoperte, appena
creato il Parco, di fitta alberatura, quasi ovunque di pino canadese. Sono
radure che sono sempre servite da pascolo a ovini e bovini, che hanno sempre
contrassegnato il territorio, creando aria, ospitando vedute, e che da sempre
ospitavano specie erbose caratteristiche, ora sacrificate all’ombra di pini
estranei al territorio, che proiettano un’impressione di soffocamento.
Cosa ci vuole, quale arte superiore, per sfoltire le pinete
secche, liberare le radure, piantare faggi e abete a regola d’arte? Quale norma
europea – “lo vuole Bruxelles” è il solo comando sentito in Italia. Non hanno i
parchi, gli ex Forestali, le aziende forestali dello Stato, degli agronomi?
Perché tanto spreco, offensivo ai più?
Si rimboschisce
qualsiasi superficie scoperta. A Gambarie non solo la pista da sci, anche la
spianata del Grande Albergo, una vasta terrazza sullo stretto, una presa d’aria
e di benessere, di luce, è diventata una selva – dopo il periodo in cui l’albergo
è stata adibito a casa di riposo, più redditizia.
Tre
Aie, ancora a Gambarie, era un sito ameno, attorno a tre sorgenti, in un
ambiente aperto, che respirava la montagna e la brezza del mare, è ora un sito cupo,
sovrastato da alberi enormi, frondosi, polverosi. Le fonti alimentano una marcita, paludosa.
leuzzi@antiit.eu
Napoli a Ferrara, la commedia dell’amicizia
Un’agenzia
di servizi di compagnia aiuta i dipendenti di una società di dolciumi che il
titolare vuole vendere ai cinesi. Tramite una ragazza incaricata di fare
invaghire l’ingegnere, uomo solo. Che però finisce grazie alla scombinata
agenzia per ritrovare il suo passato e se stesso, attraverso una serie di eventi
improbaili. L’affare si trasforma in amicizia, di cui si riscoprono le virtù balsamiche, l’azienda è salva, il titolare Siani
trova anche l’amore, della ragazza adescatrice.
Due
bei ruoli per Matilde Gioli e Max Tortora, il caratterista per una volta
protagonista. Oltre che naturalmente per lo scoppietante Siani. Il verosimile
all’insegma dell’inverosimile: un mondo napoletano dentro la granitica Ferrara,
per una volta protagonista al cinema.
Alessandro
Siani, Tramite amicizia, Sky Cinema
giovedì 28 dicembre 2023
Problemi di base amorevoli - 783
spock
“L’amore e la luna si nun crescono calano”, detto romano?
Si muore d’amore o è l’amore che muore?
“Il tradimento è l’ultima verità che rimane”, Arthur
Miller?
“L’amore è tutto ciò che puoi ancora tradire”, Le Carré?
“Oggi le persone hanno
più paura del cuore che del sesso”, Willy Pasini?
I matrimoni di
maggior successo sono start-ups, non mergers”, Arthur G. Brooks?
spock@antiit.eu
Come salvare la buona coscienza
La
buona coscienza è fonte di guai. Il film non lo dice ma la cosa è risaputa: la
buona coscienza, intesa come un guardiano che controlla tutto, va contro il
libero arbitrio, di cui è impastato l’essere umano. Il film è di una buona coscienza
che esce dal riparo, nel suo laboratorio-iperuranio, per riportare l’assistito
sulla retta via – salvo sostituirsi a lui, nelle sue vaghezze, per quanto irragionevoli.
La
svelta commediola della premiata ditta Lucisano, con Minnella alla regia su una
sua propria idea, parte un po’ legnosa. Tra monacali soggetti (anche un po’ cattivi,
soprattutto quelli femminei) in un’algida cornice da multinazionale della
coscienza. Con premi di produzione, e licenziamenti o punizioni per scarso rendimento.
Maestra e ceo Drusilla Foer. Ma poi si scioglie in racconto veloce, infine bislacco
tanto quanto l’idea stessa, della buona coscienza che vuole prevenire e correggere
un errore. Grazie qui a un recuperato Alessandro Benvenuti, lo svanito in età,
cui la buona coscienza dovrà la salvezza, di diventare umana.
Non
ben reso (girato? montato?) nel totale. Ma un format sicuramente invidiato, facile prevederne rifacimenti.
Davide
Minnella, Cattive coscienze, Sky
Cinema Due, Now
mercoledì 27 dicembre 2023
Evasione, erosione, elusione
Si
ride del 730 dell’onorevole Conte, il leader dei 5 Stelle, che per il 2022 ha dichiarato
un reddito lordo di 24 mila euro. Su cui ha pagato appena il 7,2 per cento di Irpef
– una cosa quasi da no tax area, da
poveraccio. Un reddito lordo corrispondente a due mesi e mezzo di parlamentare,
da metà ottobre 2022, e nient’altro. Di uno che è avvocato, professore universitario,
possidente, ed è stato capo del governo fino a metà ottobre. Ma si ride male, senza
cioè ricordare che le entrate fiscali sono decimate, più che dall’evasione, illegale,
dalle pratiche legali chiamate elusione,erosione.
Si
erode sapendosi aggirare nel coacervo di norme ed eccezioni tributarie: alcuni
imponibili sono esenti da imposte, basta saperlo. Si elude disintestandosi beni
e redditi di cui pure si beneficia, e navigando tra imperfezioni e lacune delle
leggi tributarie. Si è sempre fatto, si può fare.
Conte è il capo di un partito
moralista. Ma questo non cambia: il moralismo è una tassa sugli onesti.
Ecobusiness
Il
prezzo di listino (senza optional) medio dell’auto elettrica è in Europa di 55
mila euro – Report Jato Dynamics.
La
Rca e le assicurazioni complementari delle auto elettriche sono più care.
Si
compra l’auto elettrica con contributo statale, cioè dei contribuenti, fino a 14
mila euro (13.750 esattamente). Basta avere un catorcio da rottamare, Euro 2 o
Euro 3, inquinanti da togliere dalla circolazione – anche se non circolano più,
o raramente (auto storiche).
Non
si compra un’elettrica, si compra un’ibrida, che poi si manda a benzina. Non si
può fare un lungo percorso con l’auto elettruica, non ha autonomia. E anche in
città, richiede ore per la ricarica.
“Proseguono”
a Roma “i lavori del dipartimento Csimu del Comune sulle piste ciclopedonali”,
con “lo sfalcio delle piante infestanti sui tracciati”, del “verde infestante”,
e “la rimozione di materiali abbandonati…. Su 70 km. di piste ciclopedonali”.
In effetti, sulle piste ciclopedonali non si vede mai nessuno, sono servite
solo agli appalti.
La
transizione è un salasso. Non solo per gli incentivi, cioè risparmio forzoso attraverso
le tasse, per finanziare lautamente le case automobilistiche e i loro azionisti.
Figli come la peste, di cui non si può fare a meno
Un
film controcorrente – controtempo? Nell’Italia dove non si fanno figli, una
coppia volteggia felice, sulle piste, di corsa e da ballo. Mentre i loro amici,
imbolsiti, crescono figli. Finché una mattina non si ritrovano in casa tre
ragazzini, tre figli. Con le note complicazioni, note ai padri, che la loro
inettitudine moltiplica. Ma quando l’incantesimo finisce e i figli spariscono
di nuovo, i due ex giovani ex spensierati ricorrono subito all’adozione.
Spalleggiato
da Virginia Raffaele, De Luigi prova a fare il mattatore. Ma i bambini gli
rubano la scena.
Fabio
De Luigi, Tre di troppo, Sky Cinema
martedì 26 dicembre 2023
Secondi pensieri - 532
zeulig
Conoscenza - Dovrebbe renderci virtuosi e virtuìsti,
nel sentire comune. Mentre si sa che può essere anche motore delle peggiori
follie, dall’iprite alla bomba atomica. Soprattutto la conoscenza scientifica,
che si ritiene autoassolvente, anche nelle peggiori infamie. In certe civiltà
in certe epoche è stata considerata pericolosa e proibita. C’è un limite a
tutto, come si suol dire, anche alla conoscenza.
Crisi – Non è un dato esterno, è
soggettiva. Anche in economia, dove più
è ricorrente. O in politica: si labella crisi, e si vive come crisi, uno stato
di pace, mentre in guerra si opera, con impegno, per la pace. Si vive in crisi
come condizione generale , continuativa - ricorrente. Perfino “sistematica”,
checché s’intenda con ciò dire: dei tempi, dell’epoca, più che del sistema
propriamente detto, di potere, economico - oggi entrambi sicuramente,
“oggettivamente”, migliori, più democratici, più affluenti, per il maggior
numero. Si direbbe una condizione generalizzata di depressione psichica, di
indebolimento delle difese per sovrabbondanza (l’abbondanza non è mai
eccessiva, ma sì nelle abitudini di consumo, oggi sicuramente eccessive: troppe
cose, troppo ricambio, troppo consumo - troppo nel senso del numero,
dell’effimero, dell’affastellamento, senza più alcun criterio di qualità,
durata, risparmio). Oppure un’ideologia.
Il
futuro è sempre speranza. Oggi è pauroso
ma per effetto della cultura della crisi, che ci attanaglia. Accompagnandosi,
ironicamente, all’ideologia del migliore dei mondi possibili. E non solo
all’ideologia, bisogna dire: curiosamente, si vuole senza futuro l’epoca del never had it so good, del mai stati così
bene, nella sanità, nel reddito, nella convivenza civile, dentro e fuori le
nazioni, nei diritti – perfino in Africa, niente a che vedere con quella di
trent’anni fa. Una cultura che, volendo razionalizzare, serve per tenere il
morso stretto, per tenere a bada queste masse sempre più enormi sempre più
affluenti. Anche sotto il profilo affaristico, bieco: per obbligarle a
spendere, anche a debito, per un “futuro migliore”. Il futuro migliore, cessato
ogni empito rivoluzionario, o illusione, è oggi una automobile elettrica, il
doppio dell’attuale, come ingombro e come costo. E coibentazioni che tolgano il
respiro ai muri e alle imposte, e agli inquilini.
Ennui – È la
bandiera dei letterati francesi a metà Ottocento, compreso lo storico Guizot.
Uno stato d’animo presunto più che vissuto o sofferto, condiviso da Baudelaire
e Flaubert, che ne farà il motore di “Madame Bovary” – entrambi processati , quasi
in contemporanea, nel 1857, per oscenità, quindi perché in qualche modo
stuzzicanti, e non annoiati e noiosi. “La noia dunque, la noia universale, ecco
il male, e per servirci di una parola noiosa, il male costituzionale, del XIXmo
secolo”, Barbey d’Aurevilly.
Baudelaire
progetta nel 1852, o 1853, un libretto d’opera,”La Fin de don Juan”, di cui dà
questa sinossi: “Il dramma si apre come il «Faust» di Goethe. Don Giovanni passeggia
nella città e nella campagna col suo domestico. È in vena di familiarità – e
parla della sua noia mortale e della difficoltà per lui insormontabile di
trovare un’occupazione o dei godimenti nuovi. E confessa che qualche volta gli capita
di invidiare la felicità spontanea degli esseri inferiori a lui”.
Ma
è piuttosto acedia che noia, come viene solitamente tradotto. Assenza di stimoli,
senso di solitudine anche in compagnia, di sconforto anche a feste, balli, pranzi,
e inerzia. Del genere più vasto delle malinconie di Burton, in realtà dell’insoddisfazione
di sé.
Ignoranza – Appare
la condizione iniziale, alla preluce dell’essere. Una tabula rasa. Sembra ovvio
ma non lo è. Per l’evidenza dell’esperienza. È un rifiuto. O accettazione passiva.
Un percorso umano per diminuzione invece che per incremento.
È
liberatoria quando è riconosciuta, si riconosce - “non so”, “so di non sapere”.
Ma in questo caso è già una forma di conoscenza, per di più raffinata,
socratica” - ironica, contestativa. Non lo è comunque nella pratica, quando è
opposta all’apprendimento, La conoscenza
è infatti sempre discriminatoria – complessa: riflessiva, congetturale, pratica
(comprovata) – e in continua trasformazione. Al contrario dell’ignoranza, che,
se non sempre è tirannica o punitiva, però si vuole assiomatica e quindi (potenzialmente)
dannosa (limitativa) – il so di non sapere è privilegio dell’intelligenza.
Quando
è segretezza, si vuole positiva – giusta, benefica. Si vuole giustizia, ben fatta:
il voto segreto, il confessionale muto – e anche Dio si vuole sia nascosto. Ma
in questi casi non per mancanza: per una speciale connotazione dell’essere-evento.
La conoscenza, come opposta all’ignoranza, è “sapere”, per dirla con Confucio,
“sia quel che si sa sia quel che non si sa”.
Opinione
pubblica – Ne fu studioso e analista Flaubert, in termini spregiativi,
come senso comune, o delle frasi fatte. “Bovary” e la vastissima corrispondenza,
nonché il “progetto di una vita”, delle “Idee ricevute” , o frasi fatte, in parte
traslato in “Bouvard e Pécuchet”, vertono sull’opinione. Il progetto di
“prefazione” del “Dizionario delle frasi fatte” Flaubert descriveva a Louis
Bouilhet in questi termini: “Sarebbe la glorificazione storica di tutto ciò che
si approva. Vi dimostrerei che le maggioranze hano sempre avuto ragione, le
minoranze sempre torto. Immolerei i grandi uomini a tutti gli imbecilli, i
martiri a tutti I boia”. Una strategia ironica, intesa a scombinare a l’impero
dell’ “opinione”. Antidemocratica: un svilimento ironico dello spazio pubblico
democratico, la grande invenzione politica dell’Ottocento. Di cui intende
mettere in rilievo i limiti, i vincoli, la “mediocrità”. E soprattutto il
conformismo, sotto la chiave della democrazia: della maggioranza che comanda,
dell’obbedienza alla maggioranza. Nel migliore dei casi, una eccentricità: “Questa
apologia della canaglieria umana su tutte le sue facce, ironica e urlante da un
capo all’altro, piena di citazioni, di prove (che proverebbero il contrario) e
di testi inquietanti (questo sarebbe facile), sarebbe al fine, direi, di
finirla una volta per tutte con le eccentricità, quali che siano”. Contro l’errore
dell’ugualitarismo: “Entrerei nell’idea moderna di eguaglianza, nel detto di
Fourier che “i grandi uomini sono inutili”.
Presepe – Quello
di san Francesco, delle origini, senza il Bambino Gesù, in una culla vuota e
due animali di contorno, il Bue (ebraismo) e l’asino (paganesimo), è la
rappresentazione della presenza-assenza della divinità. Quello in uso,
“napoletano”, delle tante e varie figurine, a cominciare da Maria, è invece una
rappresentazione dell’umanità.
Elisabetta Moro, “Il
Vangelo in dialetto”, ci vede la cifra dell’appropriazione particolare,
localizzata, della Natività e della religione: “”L’idea geniale di Francesco è
che ovunque ci sia una mangiatoia lì c’è
Betlemme.”. La Natività viene così trasportata nelle nostre terre e nelle nostre
case: “La sacra famiglia migra verso altri lidi e assume anche i tatti somatici
di altre genti”: in Sicilia dei pupi, in Tirolo è alpestre, in America Latina i
costumi sono andini, in Africa gli animali selvaggi fanno da sfondo, a Napoli
il Vesuvio e le rovine di Pompei: “Di fatto il presepe diventa un plastico del
dogma teologico della Natività”.
Storia - È
l’essere del tempo.
La storia procede (viene?)
mascherata. Non di suo, la storia è inerme - un palcoscenico aperto. Ma si
riflette negli occhi di chi la guarda - bramosi, concupiscenti, cinici, bari
(anche equanimi, rispettosi). È un corpo desiderato, arrendevole
zeulig@antiit.eu
Effetti speciali della fantasia, il presepe è universalista
Cento
curiosità sul presepe, “il presepio in cento parole” è il sottotitolo. Da Abacuc
a Zingara, dopo Zarathustra. Villoresi, cronista, non si lascia impressionare: “La
storia del presepio sembra complessa, misteriosa…. E forse lo è. Ma tutto è
anche molto chiaro, lineare, leggero come quel primo passo”. Che non è la Natività,
la nascita di Nostro Signore. Quella è semplice, e ben fissata nei Vangeli. Da
Matteo: “Gesù nacque a Betlemme, una città della Giudea, al tempo di Erode”. E
Luca: “Maria avvolse il figlio nelle fasce e lo mise a dormire nella mangiatoia
perché non avevano trovato posto nella locanda”. Il “primo passo” è “aprire uno scatolone” – “ecco
l’oste, i sugheri, l’asino… ecco il Bambinello”. Dopodiché la storia è libera.
Ce
n’è per tutti – contrariamente alla solita polemichetta massonica che accompagna
ogni Natale: “La Natività evocata dal presepe è onorata dallo stesso Corano”. E
il presepe è “la più contaminata e la più multiculturale delle manifestazioni cristiane”.
S i può dire quello che si vuole, ma il presepio è internazionalista”, nei suoi personaggi e nelle
sue storie. “E pure qualcosa di più: universalista, come gli effetti speciali
della fantasia, le stelle d’Oriente, i cori d’angeli, la luce nella grotta. Il brogliaccio
è aperto”. I personaggi innumerevoli, e i più incongrui. Vi “trovano
accoglienza – al riparo dalle censure della Chiesa – diversi santi ufficiosi e
qualche divinità di ultima generazione, da Totò a Maradona”.
Luca Villoresi, Purché non manchi la stella, Donzelli, remainders,
pp. 157, ill. € 9
lunedì 25 dicembre 2023
Letture - 540
letterautore
Berto – Massimo
Raffaeli prende lo spunto da un plaquette
di Giuseppe Berto, sull’utilità della Vanità
– di un congruo narcisismo - per rivalutarne tutta, più o meno, l’opera. Eccettua
solo il giornalismo
dei “Soprapensieri”, includendo nella rivalutazione perfino “Anonimo
Veneziano”). Con
applicazione e con acribia, un monumento. Ma in breve, mezza pagina, e
solitario. Il partito Comunista
è morto trent’anni fa ma l’“egemonia culturale” ha la coda lunga?
Bovary – Di “ironia profonda” dice il romanzo Jacques Neef, presentandone
l’edizione economica più diffusa, nei Livres de poche.
Cairo Gang
– John Banville prova a rianimare il giallo un po’ seduto “Il dubbio del
killer” ricordando verso il finale “la
squadra dei servizi segreti dell’esercito britannico che era stata mandata a
Dublino ad affrontare l’IRA durante la guerra d’indipendenza”, 1918-1921. Un gruppo di pensionati dei servizi segreti britannici fu
richiamato in servizio e addestrato ad assassinii mirati di capi dell’Ira.
Ufficialmente denominati Special Branch del Dublin District (Ddsab), furono noti
come “Cairo Gang” non si sa per quale motivo. La biografia di Michael Collins,
il giovanissimo capo dei servizi di intelligence
dell’Ira, lega il nome del gruppo a un passato comune di servizio in Medio
Oriente. Lo storico Conor Cruise O’Brien lo lega invece al caffè Cairo, al centro
allora di Dublino. Dodici dei venti membri del gruppo furono assassinati
simultaneamente, uno per uno, in vari post di Dublino, all’alba della domenica
21 novembre 1920, poi nota come “Bloody Sunday”, secondo un piano messo a punto
da Michel Collins. Il quale fu assassinato a sua volta, il 22 agosto 1922, da
alcuni membri dell’Ira contrari ai primi accordi di pace dell’anno prima, cui lo stesso
Collins aveva preso parte.
Europa - “La laica Europa
sventola lo stendardo di Maria”, può concludere Rumiz sardonico il suo riesame
della bandiera dell’Unione: azzurra, il manto della Madonna, con tante stelline,
che sono le dodici
stelle di Maria nell’ “Apocalisse” di Giovanni. Rumiz, “L’Italia dal profondo”,
la fa descrivere
dallo storico biellese Alfredo Bider: “Uno spiantato e ignaro parigino si era
ispirato alla stele
di una medaglia miracolosa acquistata in rue du Bac per proporre a Bruxelles la
sua idea di bandiera.
E fu un ebreo a sceglierla, sempre per sbaglio. Costui ignorava che quella
erano le dodici stelle
dell’Apocalisse” di Giovanni, capitolo dodicesimo, dedicato alla Donna e al
Drago. È per ignoranza
che la laica Europa ostenta ora lo stendardo di Maria”. Non
è un soprassalto di malumore, sardonico, di Rumiz, o dello storico Bider: il
disegnatore fu un dipendente
del Consiglio d’Europa, Arsène Heitz, una sorta di factotum, che sottopose una
ventina di
bozzetti. La scelta fu fatta dal suo dirigente, un belga, il barone Paul Michel
Gabriel Lévy, direttore
per molti anni delle Informazioni al Consiglio d’Europa. Heitz si era ispirato,
disse, alla “medaglia
miracolosa” della Madonna che nel 1830 appariva in rue du Bac a Parigi a santa Catherine
Labouré. E insieme a Lévy avevano trovato conferma nel dodicesimo capitolo dell’“Apocalisse”
di Giovanni: “Nel cielo apparve
poi un segno grandioso: una donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una
corona di dodici stelle”.
Lazio – Letteralmente, terra larga, spaziosa. Per i Sabini, presumibilmente, e
altre tribù delle montagne. Anche per gli Etruschi, popolo di colina.
Natale
–
“Pure io penso, con gli inglesi, che Dickens abbia inventato la letteratura di
Natale”, Francesco Merlo, “la Repubblica”. E Jacopone? San Francesco, l’infinita
drammaturgia napoletana del Natale, col presepe e senza, Manzoni? Anche Gogol’,
per dire. Il laicismo a volte è assurdo – “inglese”, cioè laico?
Ernest Pinard – Fu un Procuratore della Repubblica (Sostituto Procuratore) celebre a
Parigi nel 1857. A febbraio fece processare “Madame Bovary” e perdette la causa.
Ma ad agosto riuscì a far condannare Baudelaire, “I fiori del male” (sei poesie
soppresse, multe di 300 franchi all’autore e di 10 all’editore). Più dura la
condanna che ottenne il mese dopo per Eugène Sue, “I misteri del popolo” (“Les
mystères du Peuple”): 6 mila franchi d’ammenda e un anno di prigione all’autore,
multe e detenzioni di varia lunghezza per l’editore e per lo stampatore,
distruzione del libro.
Flaubert ne pubblicò la requisitoria in testa alla prima
edizione in volume di “Madame Bovary”, come lettura accurata del romanzo, anche
se conclusa male. Quattro anni dopo si scoprì che il Procuratore era autore di
poesie lubriche.
Politicamente
(s)corretto – Inviando a Falqui il racconto “Una fornitura
importante”, Gadda spiega che il fatto è realmente accaduto”, è “per così dire,
un fatto di cronaca”. Ma, essendoci “una «madre superiora», d’altronde molto
seria”, suggerisce al bisogno di sostituire tranquillamente “«madre
superiora» con «direttrice» e «Istituto
San Giuseppe» con «Istituto Tommaseo» o qualcosa di simile”.
Lo ricorda Dante Isella nella nota alla sua edizione dei
“Racconti dispersi” di Gadda per la Garzanti nel 1989. La notazione non c’era nella
sua prima pubblicazione degli stessi racconti nel 1981 per Adelphi - sotto il
titolo “Le bizze del capitano in congedo e altri racconti”. Il “politicamente
corretto” è emerso negli ani 1980? Gadda naturalmente aveva scritto a Falqui
nel 1949 senza minimamente porsi il problema – non di “correttezza”, solo di sensibilità,
essendo i lettori del giornale dove Falqui lavorava, “Il Tempo, conservatori e
codini. In uno dei racconti di questa raccolta postuma, “La passeggiata autunnale”,
ha persino un “quattro macachi di schioppettoni”, per i Carabinieri.
Presepe – Fa otto secoli giusti. E consistette, quello di san Francesco a Greccio,
in una mangiatoia, vuota, con accanto un bue e un asino. Due animali simbolici,
che dovevano rappresentare rispettivamente gli ebrei e i pagani, probabilmente i
mussulmani (due comunità di cui san Francesco aveva appena avuto conoscenza
diretta in Palestina). Ma solo in via ipotetica. La Madonna invece, che riporta
il presepe in ambito chiesastico, come già avveniva prima di Greccio, è
invenzione di pittore, di Coppo di Marcovaldo probabilmente, che nasceva l’anno
dopo il presepe di Greccio, e fu a Firenze, la sua città, il pittore di riferimento prima di Cimabue - già con Arnolfo di Cambio, 1291, nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, assumeva la forma poi canonica.
Roma – Freud vi si sentiva a casa, anche se deluso da quello che vedeva, comprese
le monumentali archeologie e architetture. Ci fu sette volte, una frequenza
inconsueta, negli anni in cui l’Italia era soprattutto Firenze e Venezia. “Per
me è molto naturale essere a Roma, non ho alcuna sensazione di estraneità”,
scriveva a un corrispondente. Ne scrisse anche come diu na nevrosi: “Il mio
desiderio di andare a Roma è profondamente nevrotico”.
Sardegna
–
Terra di storie, la dice Michela Murgia, “Viaggio in Sardegna”: “C’è una
Sardegna come questa”, premette, “davanti ai camini si racconta che ci sia, che
poi è la stessa cosa, perché in una terra dove il silenzio è ancora il dialetto
più parlato, le parole sono luoghi più dei luoghi stessi, e generano mondi”.
Anche perché in Sardegna “esiste tutto ciò che viene raccontato”. E più in là,
più in esteso: “Nessun’arte, sull’isola, è popolare e trasversale alle
generazioni quanto quella di raccontare storie, al punto da avere dato vita a
veri e propri generi letterari locali, come «sos contos de fochile», i racconti
del focolare, o «sos contos de jannile», i racconti della soglia di casa”.
Servizi – Quelli domestici l’ing. Gadda, “Gaddus”, distingue in “visibili ed
invisibili”: “L’energia elettrica è prodotto invisibile in senso stretto. Il
servigio dello scolo dell’acque luride è invisibile perché viene operato nel
sottosuolo” – in nota a “Le bizze del capitano in congedo”.
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