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Indietro tutta nel mercato
La crisi del 2008 ha segnato
l’inizio della fine della globalizzazione. Del sogno-disegno della ricchezza in
crescita esponenziale libera - seppure con qualche ammaccatura, a scapito delle
economie o dei ceti più deboli. “La globalizzazione era un programma politico
di apertura completa dei mercati internazionali. Il concetto includeva la crisi
dell’impero russo, le prime riforme cinesi, il «miracolo dell’East Asia»
proclamato dalla Banca Mondiale, la ritirata ingloriosa del keynesismo di
fronte all’incalzare della deregulation, la
fine dell’interventismo degli Stati, la fiorente espansione dei traffici
internazionali, che sembravano attestare il trionfo dell’ordine liberale nel
mondo”. Un “triofafalismo liberista”, con qualche eccesso, “fino all’idea
temeraria di «fine della storia»”.
È durata poco: “Dalle crisi
del 2008 e seguenti è emersa l’assolutizzazione opposta, quella della
deglobalizzazione”. Si pensò pure a “una ritirata generale dei capitali mobili”
– immaginarsi una liquidazione dei titoli americani detenuti in Cina, un
migliaio abbondante di miliardi di dollari… La xenophobia è sopravvenuta, il
rifiuto della globalizzazione, le istanze
sovraniste, esemplificate dall’America First di Trump e dall’Ira di Biden,
l’Industrial Reconstruction Act, programmi o promesse di “riportare o trattenere
in patria posti di lavoro, capitali, tecnologie e redditi” – e materie prime. Senza dire dell’esplosione del debito
pubblico ovunque nel mondo, dell’interventismo degli Stati, dapprima per
salvare le banche poi per il covid e altre emergenze, che il mercato non sa
affrontare.
Al netto della rituale
retorica marxista-leninista, adatttta ai tempi, un’analisi perfino più dettagliata
oltre che aggiornata, nel confronto delle cifre, dei mercati mondiali di quella
celebre dieci anni fa di Piketty, “Il capitale del XXImo secolo”. Nei fatti, fra
i tanti dati analizzati, due inequivocabili. Il rapporto della “componente
estera” (esportazioni e importazioni) sul pil è in crescita nel mondo e nella
Ue, ma ristagna in Cina e negli Stati Uniti. Nel mondo è cresciuto dal 14,7 del
2000 al 18,9 nel 2008 e al 20,3 nel 2022. Nella Ue (e con l’esclusione del
commercio intra-Ue) è cresciuto dall’11,8 del 2000 e 2008 al 16,3 nel ’22. In Cina
è calato nel 2022 – dopo un balzo al 31,1 nel 2008: il rapporto è scemato dal
20,6 del 2000 al 20,0. Negli Usa rimane stabile, ma poco incisivo, attorno
all’8 per cento - 7,6, 8,7 e 8,1 nei tre anni di riferimento.
Segno decisamente regressivo per
gli investimenti esteri diretti, in rapporto al pil. Nel Mondo, nella Ue, in
Cina e negli Usa è in calo rispetto al 2007. Con una caratteristica che cozza
contro la globalizzazione quale si idealizza: gli investimenti esteri diretti (le
“multinazionali”) restano marginali – nella Ue sono stati elevati perché il dato
tiene conto degli investimenti intra-Ue, per esempio dal Lussemburgo negli
altri paesi.
Investimenti esteri diretti - valori percentuali, afflussi netti\pil, dollari correnti
2000 2007 2022
Mondo 4,6 5,3 1,9
Ue (27) 8,7 10,0 2,5
Cina 3, 6 4,4 1,0
Usa 3,4 2,4 1,4
Nicola Capelluto, Crisi del debito e crisi dell’ordine,
Lotta Comunista, pp. 868, ill. € 30
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