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A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (550)
Giuseppe Leuzzi
Fuori l’Italia dal Sud
Foggia ha votato a ottobre a sinistra, per darsi una
nuova faccia, contro la “narrazione” ufficiale che la vuole capitale del
caporalato e mafiosa, ma confusamente – per non votare il vecchio Pci. E poi ha
avuto problemi a fare la giunta, attorno alla sindaca 5 Stelle, e fra i 5
Stelle medesimi.
Nelle more del dibattito, il consigliere più
giovane, Mario Cagiano, 22 anni, che però ha la sapienza politica del vecchio
Pci, rileva amaro – Foggia veniva da due scioglimenti del consiglio comunale
per infiltrazioni mafiose: “Nel bene e nel male i protagonisti di questa città
sono giovani. Gli autori dei reati hanno quasi tutti meno di 35 anni…. Una
classe della mia scuola ora è quasi per intiero in carcere e i ragazzi osannano
i boss”.
Non c’è male per dei giovani. Ma è con la Repubblica,
con la democrazia, che sono nate molte mafie: le ‘ndranghete in Calabria, per
lo più impunite, che i servizi segreti vogliono una piovra globale, e l’avvelenamento
del sereno Tavoliere della Puglie, con Gargano annesso.
Non c’è riparo, la soluzione
è sempre “Fuori l’Italia dal Sud”. Via dalla “costruzione” delle mafie, invece
della punizione dei delitti man mano commessi. Oggi si sgomina in tv una banda
nei Nebrodi, i monti sopra Messina, dove si lucrava sui fondi Ue per l’agricoltura
e l’allevamento. Gran movimento, agenti mascherati, lampeggianti, qualche
elicottero s’immagina, e il solito commento tonitruante. Ma di che? Di pratiche
vecchie quanto la Ue, quando ancora si chiamava Mec. Nei Nebrodi come altrove.
Che non si combattono alle radici – agli inizi, sulle stesse carte, di richiesta,
o di concessione, dei fondi europei - e si magnificano a intervalli con l’inevitabile
banda.
Ode alla Calabria – o degli innesti
Il lungo ricordo dell’amico
Antonio Milano, di Nicastro, morto prematuramente, Paolo Rumiz conclude (“Una
voce dal Profondo”), con una commossa ode alla “Calabria tutta”. In forma di
scoperta, “a me che scavavo nelle fondamenta dell’Italia”. Per “il culto dell’ospitalità”.
Per “il rapporto viscerale con la Terra e la presenza delle Grandi Madri”. Per
“le usanze intatte che gran parte dell’Italia aveva perduto”. Per il pane, il
vino, il garum. E per l’incrocio delle
culture – cui il triestino Rumiz è specialmente sensibile: “Affiorava anche, in
Calabria, il segno dell’immigrazione dall’Egeo e dalla Sicilia che fece
ripartire la coltura dell’àmpelon e
dell’èlaion, la vite e l’ulivo”.
Un incrocio come un innesto,
di nuova linfa e di migliore futuro.
Il figlio maschio
“Mio padre avrebbe voluto un
figlio maschio, ma ebbe due femmine e scelse me per rappresentare il maschio
mancato. Mi sottoponeva a prove assurde. Nella casa di campagna mi chiudeva in
una stanza frequentata da topolini e dovevo ucciderli schiacciandoli con i
piedi. «Così diventi forte come un uomo»”.
Presentando le sue memorie,
“Siciliana”, con Alessandra Ziniti su “la Repubblica”, Teresa Principato
esordisce così. La “prima pm antimafia della storia d’Italia”, sposa di un
altro pm antimafia, Scarpinato, quello del “Dio mafioso” e di “Andreotti mafioso”,
da cui si è divorziata (colpa di Andreotti, “come moglie non esistevo più”), ce
l’ha anche con la madre - “donna algida, insoddisfatta e rancorosa”. Ma col
padre di più: “Un avvocato di provincia che non si sentiva realizzato. La sua
ferrea convinzione della superiorità del maschio ha avuto per me enormi
ripercussioni”. Sarà un pm (una pm?) ferreo.
Il rapporto genitoriale ha connotazioni personalissime,
all’evidenza (“ho pensato che per lui sarebbe stato gratificante se fossi stata
uccisa dalla mafia”). Forse solo caratteriali, dell’una e dell’altra parte. Un
padre crudele con la figlia sembra poco siciliano – per quel poco che può
significare “sembrare siciliano”. Ma essendo lei la seconda figlia femmina, è plausibile,
e anzi probabile: il senso del potere viene nell’isola prima dell’affetto.
Parlare, anche con le mani
Tommy De Vito, quarterback e
leader dei New York Giants, i campioni del football americano, ha creato una
moda negli stadi e fuori con un gesto che, ripreso in tv, è diventato virale:
il gesto del carciofo – le dita della mano destra unite e il polso agitato, per
significare, da lontano: “ma che vuoi?”, ”che intendi?”, “che ne sai?”. Molto
citato nei commenti, variamente riprodotto sulle magliette, commentato nei
giornali, anche non sportivi, come un gesto italiano, dilagante in video e
vignette su TikTok e Instagram. De Vito ha spiegato che gli è venuto spontaneo,
senza pensarci, avendolo mediato dai suoi vecchi. Il “New York Times” gli ha dedicato
un lungo commento, firmato Mark Rotella, lo scrittore che è anche direttore del
Coccia Institute for the Italian Experience in America, della Montclair State
University, una università pubblica del New Jersey.
Rotella la prende alla
lontana. Dopo aver detto che il gesto di De Vito, seppure è stato un diversivo,
come tifoso, dal campionato non buono dei Giants, ha “anche provocato in molti
osservatori italo-americani, me incluso, una buona dose di ambivalenza, se non
di imbarazzo”. Crescendo in Florida, dice, dove non c’è “la densità di italiani
che esiste nel Nord-Est”, la sua famiglia veniva riconosciuta come
italiana “dal modo come parlavamo con le
mani”. E ricorda una vecchia battuta: “Come fermi la chiacchiera di un
italiano? Legagli le mani”.
Poi ci ripensa: “È un tratto
che molto probabilmente si è sviluppato come un modo per facilitare le
comunicazioni in un paese dove i dialetti differiscono da paese a paese”. Ed è
un linguaggio “in gran parte universale”, tra italiani. Quindi un segno di
vitalità. E anche di un linguaggio che non si standardizza ma si vuole e si mantiene
molteplice.
Rotella ricorda, a questo
proposito, quando uno dei suoi “idoli musicali”, Ronnie James Dio (Ronald James Padavona), il
cantautore bassista e cantante di varie band da lui formate, da ultimo i Black
Sabbath e i Dio, “figura centrale dell’heavy metal” (wikipedia), quarant’anni
fa lanciò il gesto delle corna: le corna si fanno “contro il malocchio”, ma Dio
trasformò il gesto “in un simbolo del ribellismo del rock’ n’ roll”. Da qui la
conclusione soddisfatta: “La cultura italo-americana è in conversazione costante con le sue proprie
tradizioni e insieme col resto della cultura americana”.
Cronache della
differenza: Sicilia
Belice è Belìce, spiega Rumiz nel suo viaggio tra i
terremoti, “Una voce dal Profondo”: “Belìce da ‘U-Bilik’, nome antico del fiume
che scende nella valle” – “poi la tv nazionale disse ‘Bélice’, e
quell’arretramento romanesco sulla ‘e’ divenne sinonimo di sfiga, così la valle
perse anche il nome, dopo aver perso la memoria”. Così si fa la storia.
“Il siciliano odia il sole”, spiega un sconosciuto
alla cassa di una libreria a Napoli a Rumiz. “Pensi alla luce e all’ombra”, gli
dice, a proposito del concetto di “porosità” in cui Walter Benjamin ha racchiuso
Napoli. E sottintende: sono indistinte - “Non sono in antitesi drammatica
come in Sicilia. Una canzone cone «O’ sole mio» un siciliano non la comporrebbe
neanche morto”.
“Striscia la notizia” mostra a Palermo un “mercatino
dell’usato” a cielo aperto, dove si vende la roba rubata, anche su commissione
(cellulari per lo più, ma anche monopattini). Gestito da immigrati africani.
Mafia?
La Sicilia Rumiz, sempre a Napoli, in dialettica con
la “napoletanità”, espansiva, estroversa, dice irrimediabilmente malinconica.
Un’isola in La minore, spiega – in contrapposizione a Napoli, in Sol maggiore.
Dovendo parlare dell’Etna, il “viaggiatore inglese”
Peter de Blois (in realtà anglo-normanno, Pierre de Blois) si chiede (si chiedeva
al suo tempo, nel XIImo secolo?): “Chi
mai, domando io, può vivere sicuro là dove, in aggiunta ad altri pericoli, le
montagne vomitano sempre fuoco infernale ed emanano un vapore sulfureo?”
Se lo chiede nel “Viaggio in Sicilia” di Brydone,
1770.
La “scoperta della Sicilia” è recente, notava
Vittorio Frosini presentando Brydone, “Viaggio in Sicilia e a Malta. 1770”.
Thomas Hobwart, che vi si era avventurato prima, scriveva di “un paese
segregato in certa guisa, dal consorzio dei popoli”. E un John Brewal, che era
stato in Sicilia nel 1724, ne scriveva nel 1638 nei “Remarks on several Parts
of Europe” menzionando la Sicilia di passaggio, solo per l’Etna - per un’ascesa all’Etna che non poté fare.
Nell’entusiasta prefazione a Brydone, Frosini fa della
Sicilia il paradiso terrestre. Sull’autorità di Milton, che il rapimento di
Proserpina colloca nel “bel campo di Enna”. E di Dante – che però, a proposito
di Proserpina e del rapimento, non parla di Enna, né della Sicilia.
“I siciliani hanno sempre avuto fama di grandi
amorosi”, nota Brydone, “e non senza ragione. Tutti sono poeti, anche i
contadini”. Brydone trova nella pratica una conferma: “Io credo che sia ormai
universalmente ammesso che la poesia pastorale ha avuto origine in quest’isola”.
Brydone incorona i siciliani, oltre che poeti, anche
maestri di gesticolazione, “più dei francesi e dei napoletani”. E sul risparmio,
del gesto e del detto, invece dell’eccesso – il troncamento, il suono o il
gesto polivalente, la contrazione delle sillabe.
“Struògnuli” è Stromboli, il vulcano, nel locale
dialetto., nota Carmine Abate in “Un paese felice”. E tale è: “Anche da vicino,
ha la forma di uno strummolo, una trottola in mezzo al mare”.
Ascoltando il cantautore Alfio Antico, che “canta” il
terremoto, Rumiz ci trova la Sicilia (“Una voce dal profondo”, p. 69): “Puoi
anche non capire le parole, ma senti il fatalismo in ogni sillaba…. La morte,
insomma, vissuta non come evento terminale, ma come corrosione quotidiana”. Con
l’inciso: “Come in Leonardo Sciascia e in Gesualdo Bufalino”.
Si direbbe un’isola di scrittori,
se anche i mafiosi latitanti si occupano di scrivere, d’immortalarsi con la scrittura. Messina Denaro
ora, dopo Provenzano, volumi di pizzini. Magari ortograficamente non perfetti, ma
elaborati, concettosi. E sempre pieni di “umanità”. Bisognerà riscrivere la mafia?
leuzzi@antiit.eu
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