martedì 6 febbraio 2024

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (550)

Giuseppe Leuzzi


Fuori l’Italia dal Sud
Foggia ha votato a ottobre a sinistra, per darsi una nuova faccia, contro la “narrazione” ufficiale che la vuole capitale del caporalato e mafiosa, ma confusamente – per non votare il vecchio Pci. E poi ha avuto problemi a fare la giunta, attorno alla sindaca 5 Stelle, e fra i 5 Stelle medesimi.
Nelle more del dibattito, il consigliere più giovane, Mario Cagiano, 22 anni, che però ha la sapienza politica del vecchio Pci, rileva amaro – Foggia veniva da due scioglimenti del consiglio comunale per infiltrazioni mafiose: “Nel bene e nel male i protagonisti di questa città sono giovani. Gli autori dei reati hanno quasi tutti meno di 35 anni…. Una classe della mia scuola ora è quasi per intiero in carcere e i ragazzi osannano i boss”.
Non c’è male per dei giovani. Ma è con la Repubblica, con la democrazia, che sono nate molte mafie: le ‘ndranghete in Calabria, per lo più impunite, che i servizi segreti vogliono una piovra globale, e l’avvelenamento del sereno Tavoliere della Puglie, con Gargano annesso.
Non c’è riparo, la soluzione è sempre “Fuori l’Italia dal Sud”. Via dalla “costruzione” delle mafie, invece della punizione dei delitti man mano commessi. Oggi si sgomina in tv una banda nei Nebrodi, i monti sopra Messina, dove si lucrava sui fondi Ue per l’agricoltura e l’allevamento. Gran movimento, agenti mascherati, lampeggianti, qualche elicottero s’immagina, e il solito commento tonitruante. Ma di che? Di pratiche vecchie quanto la Ue, quando ancora si chiamava Mec. Nei Nebrodi come altrove. Che non si combattono alle radici – agli inizi, sulle stesse carte, di richiesta, o di concessione, dei fondi europei - e si magnificano a intervalli con l’inevitabile banda.
 
Ode alla Calabria – o degli innesti
Il lungo ricordo dell’amico Antonio Milano, di Nicastro, morto prematuramente, Paolo Rumiz conclude (“Una voce dal Profondo”), con una commossa ode alla “Calabria tutta”. In forma di scoperta, “a me che scavavo nelle fondamenta dell’Italia”. Per “il culto dell’ospitalità”. Per “il rapporto viscerale con la Terra e la presenza delle Grandi Madri”. Per “le usanze intatte che gran parte dell’Italia aveva perduto”. Per il pane, il vino, il garum. E per l’incrocio delle culture – cui il triestino Rumiz è specialmente sensibile: “Affiorava anche, in Calabria, il segno dell’immigrazione dall’Egeo e dalla Sicilia che fece ripartire la coltura dell’àmpelon e dell’èlaion, la vite e l’ulivo”.
Un incrocio come un innesto, di nuova linfa e di migliore futuro.
 
Il figlio maschio
“Mio padre avrebbe voluto un figlio maschio, ma ebbe due femmine e scelse me per rappresentare il maschio mancato. Mi sottoponeva a prove assurde. Nella casa di campagna mi chiudeva in una stanza frequentata da topolini e dovevo ucciderli schiacciandoli con i piedi. «Così diventi forte come un uomo»”.
Presentando le sue memorie, “Siciliana”, con Alessandra Ziniti su “la Repubblica”, Teresa Principato esordisce così. La “prima pm antimafia della storia d’Italia”, sposa di un altro pm antimafia, Scarpinato, quello del “Dio mafioso” e di “Andreotti mafioso”, da cui si è divorziata (colpa di Andreotti, “come moglie non esistevo più”), ce l’ha anche con la madre - “donna algida, insoddisfatta e rancorosa”. Ma col padre di più: “Un avvocato di provincia che non si sentiva realizzato. La sua ferrea convinzione della superiorità del maschio ha avuto per me enormi ripercussioni”. Sarà un pm (una pm?) ferreo.
Il rapporto genitoriale ha connotazioni personalissime, all’evidenza (“ho pensato che per lui sarebbe stato gratificante se fossi stata uccisa dalla mafia”). Forse solo caratteriali, dell’una e dell’altra parte. Un padre crudele con la figlia sembra poco siciliano – per quel poco che può significare “sembrare siciliano”. Ma essendo lei la seconda figlia femmina, è plausibile, e anzi probabile: il senso del potere viene nell’isola prima dell’affetto.
 
Parlare, anche con le mani
Tommy De Vito, quarterback e leader dei New York Giants, i campioni del football americano, ha creato una moda negli stadi e fuori con un gesto che, ripreso in tv, è diventato virale: il gesto del carciofo – le dita della mano destra unite e il polso agitato, per significare, da lontano: “ma che vuoi?”, ”che intendi?”, “che ne sai?”. Molto citato nei commenti, variamente riprodotto sulle magliette, commentato nei giornali, anche non sportivi, come un gesto italiano, dilagante in video e vignette su TikTok e Instagram. De Vito ha spiegato che gli è venuto spontaneo, senza pensarci, avendolo mediato dai suoi vecchi. Il “New York Times” gli ha dedicato un lungo commento, firmato Mark Rotella, lo scrittore che è anche direttore del Coccia Institute for the Italian Experience in America, della Montclair State University, una università pubblica del New Jersey.
Rotella la prende alla lontana. Dopo aver detto che il gesto di De Vito, seppure è stato un diversivo, come tifoso, dal campionato non buono dei Giants, ha “anche provocato in molti osservatori italo-americani, me incluso, una buona dose di ambivalenza, se non di imbarazzo”. Crescendo in Florida, dice, dove non c’è “la densità di italiani che esiste nel Nord-Est”, la sua famiglia veniva riconosciuta come italiana  “dal modo come parlavamo con le mani”. E ricorda una vecchia battuta: “Come fermi la chiacchiera di un italiano? Legagli le mani”.
Poi ci ripensa: “È un tratto che molto probabilmente si è sviluppato come un modo per facilitare le comunicazioni in un paese dove i dialetti differiscono da paese a paese”. Ed è un linguaggio “in gran parte universale”, tra italiani. Quindi un segno di vitalità. E anche di un linguaggio che non si standardizza ma si vuole e si mantiene molteplice.
Rotella ricorda, a questo proposito, quando uno dei suoi “idoli musicali”,  Ronnie James Dio (Ronald James Padavona), il cantautore bassista e cantante di varie band da lui formate, da ultimo i Black Sabbath e i Dio, “figura centrale dell’heavy metal” (wikipedia), quarant’anni fa lanciò il gesto delle corna: le corna si fanno “contro il malocchio”, ma Dio trasformò il gesto “in un simbolo del ribellismo del rock’ n’ roll”. Da qui la conclusione soddisfatta: “La cultura italo-americana è in  conversazione costante con le sue proprie tradizioni e insieme col resto della cultura americana”.
 
Cronache della differenza: Sicilia
Belice è Belìce, spiega Rumiz nel suo viaggio tra i terremoti, “Una voce dal Profondo”: “Belìce da ‘U-Bilik’, nome antico del fiume che scende nella valle” – “poi la tv nazionale disse ‘Bélice’, e quell’arretramento romanesco sulla ‘e’ divenne sinonimo di sfiga, così la valle perse anche il nome,  dopo aver perso la memoria”. Così si fa la storia.
 
“Il siciliano odia il sole”, spiega un sconosciuto alla cassa di una libreria a Napoli a Rumiz. “Pensi alla luce e all’ombra”, gli dice, a proposito del concetto di “porosità” in cui Walter Benjamin ha racchiuso Napoli. E sottintende: sono indistinte - “Non sono in antitesi drammatica come in Sicilia. Una canzone cone «O’ sole mio» un siciliano non la comporrebbe neanche morto”.
 
“Striscia la notizia” mostra a Palermo un “mercatino dell’usato” a cielo aperto, dove si vende la roba rubata, anche su commissione (cellulari per lo più, ma anche monopattini). Gestito da immigrati africani. Mafia?
 
La Sicilia Rumiz, sempre a Napoli, in dialettica con la “napoletanità”, espansiva, estroversa, dice irrimediabilmente malinconica. Un’isola in La minore, spiega – in contrapposizione a Napoli, in Sol maggiore.
 
Dovendo parlare dell’Etna, il “viaggiatore inglese” Peter de Blois (in realtà anglo-normanno, Pierre de Blois) si chiede (si chiedeva al suo tempo, nel XIImo secolo?):  “Chi mai, domando io, può vivere sicuro là dove, in aggiunta ad altri pericoli, le montagne vomitano sempre fuoco infernale ed emanano un vapore sulfureo?”
Se lo chiede nel “Viaggio in Sicilia” di Brydone, 1770.
 
La “scoperta della Sicilia” è recente, notava Vittorio Frosini presentando Brydone, “Viaggio in Sicilia e a Malta. 1770”. Thomas Hobwart, che vi si era avventurato prima, scriveva di “un paese segregato in certa guisa, dal consorzio dei popoli”. E un John Brewal, che era stato in Sicilia nel 1724, ne scriveva nel 1638 nei “Remarks on several Parts of Europe” menzionando la Sicilia di passaggio, solo per l’Etna -  per un’ascesa all’Etna che non poté fare.
 
Nell’entusiasta prefazione a Brydone, Frosini fa della Sicilia il paradiso terrestre. Sull’autorità di Milton, che il rapimento di Proserpina colloca nel “bel campo di Enna”. E di Dante – che però, a proposito di Proserpina e del rapimento, non parla di Enna, né della Sicilia.
 
“I siciliani hanno sempre avuto fama di grandi amorosi”, nota Brydone, “e non senza ragione. Tutti sono poeti, anche i contadini”. Brydone trova nella pratica una conferma: “Io credo che sia ormai universalmente ammesso che la poesia pastorale ha avuto origine in quest’isola”.
 
Brydone incorona i siciliani, oltre che poeti, anche maestri di gesticolazione, “più dei francesi e dei napoletani”. E sul risparmio, del gesto e del detto, invece dell’eccesso – il troncamento, il suono o il gesto polivalente, la contrazione delle sillabe.
 
“Struògnuli” è Stromboli, il vulcano, nel locale dialetto., nota Carmine Abate in “Un paese felice”. E tale è: “Anche da vicino, ha la forma di uno strummolo, una trottola in mezzo al mare”.
 
Ascoltando il cantautore Alfio Antico, che “canta” il terremoto, Rumiz ci trova la Sicilia (“Una voce dal profondo”, p. 69): “Puoi anche non capire le parole, ma senti il fatalismo in ogni sillaba…. La morte, insomma, vissuta non come evento terminale, ma come corrosione quotidiana”. Con l’inciso: “Come in Leonardo Sciascia e in Gesualdo Bufalino”.
 
Si direbbe un’isola di scrittori, se anche i mafiosi latitanti si occupano di scrivere, d’immortalarsi con la scrittura. Messina Denaro ora, dopo Provenzano, volumi di pizzini. Magari ortograficamente non perfetti, ma elaborati, concettosi. E sempre pieni di “umanità”. Bisognerà riscrivere la mafia?


leuzzi@antiit.eu

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