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Il mondo com'è (471)
astolfo
Association Internationale Africaine – Fu il predellino di lancio
del Belgio nel Congo. Nel 1876 il re del Belgio Leopoldo II convocò una Conferenza
Geografica di Bruxelles, all’esito della quale fondo l’Association, a fini
“scientifici e umanitari”. Che fece patrocinare da un comitato internazionale
ricco di grandi nomi.
Alla
Conferenza Geografica avevano partecipato i presidenti delle Società
Geografiche di Londra, Parigi e Vienna, geografi tedeschi (Gerhard Rohlfs, Ferdinand
von Richtofen), filantropi inglesi (Thomas Folwell Buxton, John Kennaway,
entrambi in politica), qualche uomo d’affari, come l’americano William Mac Kennan.
Più nutrita la delegazione britannica, con quattro alti ufficiali,
dell’esercito e della marina, oltre ai politici-filantropi (abilizionisti), e
al presidente della Società Geografica di Londra, Sir Rutherford Alcok, un diplomatico
che era stato il primo console
occidentale a Tokyo dopo l’“apertura” del Giappone all’Occidente.
Erano
stai invitati anche i tre paesi senza colonie. Per la Germania parteciparono gli
studiosi di geografia. Per la Russia M. P. de Semenow, vice-presidente della
Società Geografica di San Pietroburgo, presidente del Consiglio Statistico. Per
l’Italia Cristoforo Negri, lo studioso e diplomatico milanese, già
collaboratore di Cavour, che era stato il presidente della Società Geografica
Italiana, di cui aveva promosso la fondazione nel 1867.
Il
Gerhard Rohlfs dell’Associazione è l’esploratore tedesco, solo omonimo del più
tardo linguista, studioso dei dialetti italiani.
Obiettivo
della costituenda Association, stabiliva la Conferenza, sarebbe stato “l’esplorazione
scientifica” delle regioni sconosciute dell’Africa, al fine di “facilitare la
penetrazione della civiltà attraverso la creazione di nuovi passaggi e trovare
soluzioni per sradicare la tratta degli schiavi”.
Berberi (seconda
parte) - Nell’infanzia e la prima giovinezza di Federico II, re di Sicilia
a soli 4 anni, nel 1198, e re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero a
18 anni, nel 2012, tra i mussulmani di Sicilia si produssero molte rivolte. In
particolate in area berbera, nella Sicilia centro-occidentale, segnatamente
attorno a Jato e Entella. L’esito fu un esodo dei mussulmani benestanti, che
liquidarono beni e proprietà e lasciarono la Sicilia per il Nord Africa. Nel
1220 Federico II, ventiseienne, intraprese una serie di campagne contro i
ribelli dell’agrigentino - non a caso identificati già come saraceni, parola derivata d all'arabo sarach, rubare. Contemporaneamente, decretava l’espulsione della comunità
mussulmana abbiente, artigiani, studiosi, notabili, oltre che dei ribelli,
verso il continente. Nel 1224 indicò le località di Lucera, in Puglia,
Girofalco (poi Girifalco) in Calabria, e Acerenza in Lucania per il soggiorno
obbligato o confino. Piccoli numeri di
musulmani furono deportati anche a Stornara, posto isolato verso Cerignola,
Castel Saraceno in Lucania, e un Castel Monte Saraceno non più reperibile. Una
deportazione prevalentemente, se non nella totalità, di musulmani berberi, come
si deduce anche dal nome che le località presero, Luceria Saracinorum, Castel
Saraceno.
Nel 1239 Federico II ordinò il concentramento delle comunità mussulmane di
Sicilia a Lucera e in Puglia. Un anno dopo la risistemazione era stata
effettuata: 20 mila musulmani a Lucera, 30 mila in altre località della Puglia,
10 mila in Calabria, Lucania, e la bassa Campania. Un’ipotesi che prende sempre più piede è che, fra le tante bande
islamiche riottose, furono proprio i berberi a spingere Federico II, sovrano
illuminato e amico dell’islam, a confinare le residue colonie islamiche in
località lontane dai luoghi da loro abitati.
Fu una migrazione senza confronto con quelle, pur
micidiali, di oggi. Anche se su terraferma e non per mare. Il resoconto più
attendibile (sono tutti di parte islamica) della migrazione forzata, detta
“grande sovvertimento”, il “Ta’rikh al-Manrusi” di Al-Hamawi, riportato da
Amari, 1889, racconta che Federico II in persona fosse passato a Lucera
nell’occasione alla testa di duemila cavalieri e sessantamila fanti.
Alla guida di una massa di centosettantamila saraceni. La cifra è giudicata
inattendibile, ma secondo lo storico la metà dei saraceni deportati morì nel
trasferimento.
Secondo le stime attualmente più attendibili, la deportazione coinvolse
circa 60 mila persone. La stima è basata sull’obbligo per queste comunità di
fornire, se richieste, un contingente militare di 6-7 mila uomini armati,
arcieri e frombolieri. Che furono effettivamente impiegati, come risulta dalle
cronache dell’epoca, almeno una volta, nella battaglia di Cortenuova, Piacenza,
nel 1237, dove Federico II sconfisse la seconda Lega Lombarda: del contingente
insulare di circa 6 mila uomini che contribuì alla vittoria facevano parte
“arcieri mussulmani di Puglia”.
Le colonie islamiche continentali prosperarono. Specialmente Lucera, presto
una città di 20 mila abitanti. Molto attiva in agricoltura e nell’utensileria.
Che Federico II dotò presto di una fiera annuale. E nel 1233 abbellì con un
palazzo fortificato, su uno dei colli. Manfredi, il figlio di Federico II e
Bianca Lancia, ebbe il titolo di sultano di Lucera. Ed ebbe sempre gli arcieri
di Lucera al suo fianco nella lunga guerra sfortunata che gli mosse il papato,
che aveva spostato il suo patrocinio dai Normani, ora Hohenstaufen, agli Angiò.
A fine secolo, nel 1300, la città fu letteralmente distrutta da un Giovanni Pippino di Barletta, per ordine di Carlo II d’Angiò.
La storia berbera meglio acquisita riguarda gli anni, metà 600-primo 700, della
Conquista araba. Che i berberi opposero. Un regno berbero, Regno dell’Aurès
(Regnum Aurasium latino) era stato creato a fine Quattrocento nelle montagne
oggi del Nord-Est algerino. Che durò due secoli, fino al 703 a.d., quando fu
abbattuto dagli arabi.
La Conquista araba in Nord Africa fu difficile, lunga oltre mezzo secolo. E poi
a lungo contestata, anche dopo che i berberi, 702, si convertirono all’islam.
Fu subito difficile attorno a Tripoli: le armate arabe arrivavano di corsa dal
Fezzan, dal Sahara, e vi si bloccavano. L’invasione fu contrastata, fra
Tripoli e l’odierna Tunisia soprattutto dalle tribù berbere degli Zanata e dei
Hawwara, che rappresentavano la parte maggiore della popolazione.
(continua)
Carlo Bianco di Saint-Jorioz – Patriota rivoluzionario dimenticato, fu un mazziniano
teorico della “guerra per bande”, ideatore di un tentativo d’invasione-sollevazione
della Savoia piemontese, nel febbraio del 1834. Ci prese parte Garibaldi, che
per questo dovette emigrare in Sud America.
Mazzini
aveva conosciuto Saint-Jorioz in Francia, e se ne fidava – lui, solitamente
diffidente dei giovani rivoluzionari infiammati. Nel 1934 Carlo Bianco aveva
quarant’anni, ma l’impresa, poco preparata, finì male, disastrosamente. Anche
per l’incapacità, o l’inefficienza, di Gerolamo Ramorino, cu era stato affidato
il comando dell’operazione – Ramorino è il generale genovese dell’esercito
sabaudo che si ritroverà in molti episodi del Risorgimento, finendo fucilato a
fine 1849, in quanto responsabile personale della sconfitta di Novara nella
prima guerra d’indipendenza Il sollevamento di Genova, che doveva fungere da
diversivo, falliva contemporaneamente. E questo coinvolse Garibaldi.
Bianco
di Saint-Jorioz avrà avuto il merito di avviare Garibaldi alla politica nazionalrivoluzionaria.
Il futuro Eroe dei Due Mondi era un marittimo ventisettenne, imbarcato da un decennio.
Nel 1832, a Odessa, il secondo imbardo da lui ricordato, aveva conosciuto un
mazziniano, che l’aveva convertito alla politica e al repubblicanesimo. Nel
marzo del 1833, imbarcato per Costantinopoli, aveva
scoperto il socialismo, seppure utopistico: la polizia aveva imbarcato di notte
sul mercantile tredici francesi seguaci di Saint-Simon, destinati all’esilio in
Turchia. Erano guidati da Émile Barrault, un professore di retorica, la cui
eloquenza incantò Garibaldi.
Barrault,
che sarà poi deputato repubblicano moderato in patria, era anche l’inventore di
una assetto particolare del sansimonismo, una comune celibataria dove si applicavano
nuove regole, della “società dell’avvenire”. Un
avvenire comunitario che si rinsaldava con l’abbigliamento: giacche e corsetti
dovevano abbottonarsi sula schiena, per esercitare la dipendenza di ognuno dai compagni.
Di lui Garibaldi ricorderà nelle tarde memorie confidate a Alexandre
Dumas la massima: “Un uomo, che facendosi cosmopolita adotta l'umanità come
patria, e va ad offrire la spada ed il sangue a ogni popolo che lotta contro la
tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.
Nello
stesso viaggio, proseguito nel mar Nero, nello
scalo russo di Taganrog Garibaldi incontrò un altro mazziniano, detto “il
Credente”, che lo portò mettere insieme gli
ideali di redenzione, umana e sociale, con quelli di patria: “Certo non
provò Colombo tanta soddisfazione nella scoperta dell’America come ne provai io al ritrovare chi s’occupasse
della redenzione patria”, scriverà nelle “Memorie”.
Fallita l’insurrezione della Savoia, Garibaldi si rifugiò a
Marsiglia. E da
Marsiglia s’imbarcò per il Sud America, dove il marinaio si trasformerà in capopopolo.
astolfo@antiit.eu
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