giovedì 8 febbraio 2024

Il mondo com'è (471)

astolfo


Association Internationale Africaine
– Fu il predellino di lancio del Belgio nel Congo. Nel 1876 il re del Belgio Leopoldo II convocò una Conferenza Geografica di Bruxelles, all’esito della quale fondo l’Association, a fini “scientifici e umanitari”. Che fece patrocinare da un comitato internazionale ricco di grandi nomi.
Alla Conferenza Geografica avevano partecipato i presidenti delle Società Geografiche di Londra, Parigi e Vienna, geografi tedeschi (Gerhard Rohlfs, Ferdinand von Richtofen), filantropi inglesi (Thomas Folwell Buxton, John Kennaway, entrambi in politica), qualche uomo d’affari, come l’americano William Mac Kennan. Più nutrita la delegazione britannica, con quattro alti ufficiali, dell’esercito e della marina, oltre ai politici-filantropi (abilizionisti), e al presidente della Società Geografica di Londra, Sir Rutherford Alcok, un diplomatico che era stato il primo console  occidentale a Tokyo dopo l’“apertura” del Giappone all’Occidente.
Erano stai invitati anche i tre paesi senza colonie. Per la Germania parteciparono gli studiosi di geografia. Per la Russia M. P. de Semenow, vice-presidente della Società Geografica di San Pietroburgo, presidente del Consiglio Statistico. Per l’Italia Cristoforo Negri, lo studioso e diplomatico milanese, già collaboratore di Cavour, che era stato il presidente della Società Geografica Italiana, di cui aveva promosso la fondazione nel 1867.
Il Gerhard Rohlfs dell’Associazione è l’esploratore tedesco, solo omonimo del più tardo linguista, studioso dei dialetti italiani.
Obiettivo della costituenda Association, stabiliva la Conferenza, sarebbe stato “l’esplorazione scientifica” delle regioni sconosciute dell’Africa, al fine di “facilitare la penetrazione della civiltà attraverso la creazione di nuovi passaggi e trovare soluzioni per sradicare la tratta degli schiavi”.
 
Berberi (seconda parte) - Nell’infanzia e la prima giovinezza di Federico II, re di Sicilia a soli 4 anni, nel 1198, e re dei Romani e imperatore del Sacro Romano Impero a 18 anni, nel 2012, tra i mussulmani di Sicilia si produssero molte rivolte. In particolate in area berbera, nella Sicilia centro-occidentale, segnatamente attorno a Jato e Entella. L’esito fu un esodo dei mussulmani benestanti, che liquidarono beni e proprietà e lasciarono la Sicilia per il Nord Africa. Nel 1220 Federico II, ventiseienne, intraprese una serie di campagne contro i ribelli dell’agrigentino - non a caso identificati già come saraceni, parola derivata d all'arabo sarach, rubare. Contemporaneamente, decretava l’espulsione della comunità mussulmana abbiente, artigiani, studiosi, notabili, oltre che dei ribelli, verso il continente. Nel 1224 indicò le località di Lucera, in Puglia, Girofalco (poi Girifalco) in Calabria, e Acerenza in Lucania per il soggiorno obbligato o confino.  Piccoli numeri di musulmani furono deportati anche a Stornara, posto isolato verso Cerignola, Castel Saraceno in Lucania, e un Castel Monte Saraceno non più reperibile. Una deportazione prevalentemente, se non nella totalità, di musulmani berberi, come si deduce anche dal nome che le località presero, Luceria Saracinorum, Castel Saraceno.
Nel 1239 Federico II ordinò il concentramento delle comunità mussulmane di Sicilia a Lucera e in Puglia. Un anno dopo la risistemazione era stata effettuata: 20 mila musulmani a Lucera, 30 mila in altre località della Puglia, 10 mila in Calabria, Lucania, e la bassa Campania. Un’ipotesi che prende sempre più piede è che, fra le tante bande islamiche riottose, furono proprio i berberi a spingere Federico II, sovrano illuminato e amico dell’islam, a confinare le residue colonie islamiche in località lontane dai luoghi da loro abitati.
Fu una migrazione senza confronto con quelle, pur micidiali, di oggi. Anche se su terraferma e non per mare. Il resoconto più attendibile (sono tutti di parte islamica) della migrazione forzata, detta “grande sovvertimento”, il “Ta’rikh al-Manrusi” di Al-Hamawi, riportato da Amari, 1889, racconta che Federico II in persona fosse passato a Lucera nell’occasione alla testa di duemila cavalieri e sessantamila fanti. Alla guida di una massa di centosettantamila saraceni. La cifra è giudicata inattendibile, ma secondo lo storico la metà dei saraceni deportati morì nel trasferimento.
Secondo le stime attualmente più attendibili, la deportazione coinvolse circa 60 mila persone. La stima è basata sull’obbligo per queste comunità di fornire, se richieste, un contingente militare di 6-7 mila uomini armati, arcieri e frombolieri. Che furono effettivamente impiegati, come risulta dalle cronache dell’epoca, almeno una volta, nella battaglia di Cortenuova, Piacenza, nel 1237, dove Federico II sconfisse la seconda Lega Lombarda: del contingente insulare di circa 6 mila uomini che contribuì alla vittoria facevano parte “arcieri mussulmani di Puglia”.
Le colonie islamiche continentali prosperarono. Specialmente Lucera, presto una città di 20 mila abitanti. Molto attiva in agricoltura e nell’utensileria. Che Federico II dotò presto di una fiera annuale. E nel 1233 abbellì con un palazzo fortificato, su uno dei colli. Manfredi, il figlio di Federico II e Bianca Lancia, ebbe il titolo di sultano di Lucera. Ed ebbe sempre gli arcieri di Lucera al suo fianco nella lunga guerra sfortunata che gli mosse il papato, che aveva spostato il suo patrocinio dai Normani, ora Hohenstaufen, agli Angiò. A fine secolo, nel 1300, la città fu letteralmente distrutta da un Giovanni Pippino di Barletta, per ordine di Carlo II d’Angiò.
La storia berbera meglio acquisita riguarda gli anni, metà 600-primo 700, della Conquista araba. Che i berberi opposero. Un regno berbero, Regno dell’Aurès (Regnum Aurasium latino) era stato creato a fine Quattrocento nelle montagne oggi del Nord-Est algerino. Che durò due secoli, fino al 703 a.d., quando fu abbattuto dagli arabi.
La Conquista araba in Nord Africa fu difficile, lunga oltre mezzo secolo. E poi a lungo contestata, anche dopo che i berberi, 702, si convertirono all’islam. Fu subito difficile attorno a Tripoli: le armate arabe arrivavano di corsa dal Fezzan, dal Sahara, e vi si bloccavano. L’invasione fu contrastata, fra Tripoli e l’odierna Tunisia soprattutto dalle tribù berbere degli Zanata e dei Hawwara, che rappresentavano la parte maggiore della popolazione.
(continua)
 
Carlo Bianco di Saint-Jorioz – Patriota rivoluzionario dimenticato, fu un mazziniano teorico della “guerra per bande”, ideatore di un tentativo d’invasione-sollevazione della Savoia piemontese, nel febbraio del 1834. Ci prese parte Garibaldi, che per questo dovette emigrare in Sud America.
Mazzini aveva conosciuto Saint-Jorioz in Francia, e se ne fidava – lui, solitamente diffidente dei giovani rivoluzionari infiammati. Nel 1934 Carlo Bianco aveva quarant’anni, ma l’impresa, poco preparata, finì male, disastrosamente. Anche per l’incapacità, o l’inefficienza, di Gerolamo Ramorino, cu era stato affidato il comando dell’operazione – Ramorino è il generale genovese dell’esercito sabaudo che si ritroverà in molti episodi del Risorgimento, finendo fucilato a fine 1849, in quanto responsabile personale della sconfitta di Novara nella prima guerra d’indipendenza Il sollevamento di Genova, che doveva fungere da diversivo, falliva contemporaneamente. E questo coinvolse Garibaldi.
Bianco di Saint-Jorioz avrà avuto il merito di avviare Garibaldi alla politica nazionalrivoluzionaria. Il futuro Eroe dei Due Mondi era un marittimo ventisettenne, imbarcato da un decennio. Nel 1832, a Odessa, il secondo imbardo da lui ricordato, aveva conosciuto un mazziniano, che l’aveva convertito alla politica e al repubblicanesimo. Nel marzo del 1833, imbarcato per Costantinopoli, aveva scoperto il socialismo, seppure utopistico: la polizia aveva imbarcato di notte sul mercantile tredici francesi seguaci di Saint-Simon, destinati all’esilio in Turchia. Erano guidati da Émile Barrault, un professore di retorica, la cui eloquenza incantò Garibaldi.  
Barrault, che sarà poi deputato repubblicano moderato in patria, era anche l’inventore di una assetto particolare del sansimonismo, una comune celibataria dove si applicavano nuove regole, della “società dell’avvenire”. Un avvenire comunitario che si rinsaldava con l’abbigliamento: giacche e corsetti dovevano abbottonarsi sula schiena, per esercitare la dipendenza di ognuno dai compagni. Di lui Garibaldi ricorderà nelle tarde memorie confidate a Alexandre Dumas la massima: “Un uomo, che facendosi cosmopolita adotta l'umanità come patria, e va ad offrire la spada ed il sangue a ogni popolo che lotta contro la tirannia, è più di un soldato: è un eroe”.
Nello stesso viaggio, proseguito nel mar Nero, nello scalo russo di Taganrog Garibaldi incontrò un altro mazziniano, detto “il Credente”, che lo portò  mettere insieme gli ideali di redenzione, umana e sociale, con quelli di patria: “Certo non provò Colombo tanta soddisfazione nella scoperta dell’America  come ne provai io al ritrovare chi s’occupasse della redenzione patria”, scriverà nelle “Memorie”.
Fallita l’insurrezione della Savoia, Garibaldi si rifugiò a Marsiglia. E da Marsiglia s’imbarcò per il Sud America, dove il marinaio si trasformerà in capopopolo.
 
astolfo@antiit.eu

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